Fuori dagli atenei
Il movimento che va formandosi dentro le università contro tagli e precarizzazione va incontro allo sciopero generale del 29 novembre. Per allargare lo spettro delle alleanze
Il 15 novembre, migliaia di studentesse e studenti sono scesi in piazza in tutta Italia. In una data «classica» del sindacalismo universitario – domenica era la Giornata internazionale degli studenti – è andato in scena il No Meloni day. Con diverse parole d’ordine, collettivi e organizzazioni di ogni tipo hanno riempito una cinquantina di piazze. Tra gli obiettivi, l’idea di scuola del ministro Valditara – dall’ulteriore apertura ai privati, alla pedagogia repressiva – illustrata pochi giorni prima dalla sospensione ricevuta da Christian Raimo (cui rinnoviamo la solidarietà di Jacobin). A finire nell’occhio del ciclone mediatico (immediatamente strumentalizzato dalla destra) è stato soprattutto il corteo studentesco di Torino, che dopo aver bruciato un manichino raffigurante il ministro, ha fatto irruzione nella Mole Antonelliana. Meno attenzione ha ricevuto il corteo di Pisa: duemila persone, di questi tempi numeri non banali, ma ancor più interessante la composizione. Accanto agli studenti medi, la maggioranza sembrava provenire dal variegato mondo dell’università, che abbiamo raccontato nell’ultimo numero della nostra rivista. Proprio girando l’Italia a presentarlo, abbiamo avuto modo di vedere un pezzo delle mobilitazioni che stanno prendendo forma negli atenei.
Il doppio colpo all’università
Con questa espressione Lorenzo Zamponi raccontava su Jacobin l’ampia delega al governo per operare «una riforma generale dell’università, che riveda governance, reclutamento, didattica e diritto allo studio», assieme alla cosiddetta «riforma del pre-ruolo». Se il primo colpo ancora deve arrivare, il secondo si è sentito a fine luglio. Restia ad attribuirsi idee di «riforma», la ministra Anna Maria Bernini dichiarava di fornire agli atenei una «cassetta degli attrezzi» per valorizzare la ricerca. Ma la realtà è che di Riforma, anzi, controriforma si tratta.
Dopo il parziale miglioramento determinato nel 2022 dalla cosiddetta Riforma Verducci, quella di Bernini è un feroce passo indietro, persino rispetto alla situazione precedente. La riforma Verducci superava infatti quell’obbrobrio rappresentato dagli assegni di ricerca: «contratti» talmente distanti da un normale contratto di lavoro dipendente (come è sotto ogni punto di vista chi fa ricerca come post-doc) da essere persino esenti dall’Irpef, oltre a non prevedere malattie, ferie o tredicesima. Un superamento che però, senza un aumento dei finanziamenti, avrebbe potuto ridurre sostanzialmente il numero di post-doc. Questo rischio reale fu sfruttato da una parte del corpo accademico, che invece di chiedere maggiori finanziamenti iniziò a lamentarsi del fatto che, senza la manodopera a costo bassissimo garantita dall’assegno, non ci sarebbe più stata ricerca in Italia. A questa situazione il governo Meloni ha reagito derogando l’assegno, che è diventato una delle forme privilegiate per spendere i fondi che, improvvisamente e una tantum, il Pnrrrovescia sull’università sottofinanziata. Una bonanza temporanea, che ha avuto l’effetto di gonfiare ulteriormente il numero delle precarie e dei precari che legittimamente ambiscono a entrare stabilmente nell’università. Alla toppa, Bernini ha fatto seguire la moltiplicazione di figure precarie – ben sei. Si va dal «professore aggiunto» all’assistente di ricerca junior, teoricamente pensato per neo-laureati, ma con ancora meno diritti dell’assegnista.
Mentre suscitava le ire delle precarie e dei precari – e non solo: oltre cento società scientifiche italiane hanno firmato una lettera di protesta – a gettare nel panico la Conferenza dei Rettori (Crui) ci pensava un altro colpo. Contrariamente alle smentite della ministra (che tratta la Crui come un’organizzazione rivoluzionaria), i numeri certificano il taglio di 173 milioni rispetto al 2023 del Fondo di Funzionamento Ordinario (Ffo), la principale fonte di finanziamento degli atenei pubblici; al netto dell’inflazione, come mostra la serie elaborata dalla Flc, le risorse sono in calo già dal 2021.
Non solo: come ricostruisce dettagliatamente Claudio Musicò sulla rivista dell’Flc, ai 173 milioni di taglio vanno aggiunti altri 340, vincolati a piani di reclutamento straordinario già previsti. Da qui la cifra, confermata dalla Crui e dal Consiglio Universitario Nazionale (Cun), di «mezzo miliardo di tagli» – abbastanza, spiega Musicò, per parlare del «più significativo calo annuale» dell’Ffo nella storia dell’università, «superiore persino a quello del 2010» che scatenò l’Onda studentesca in tutta Italia. Un colpo che – ancor prima che esploda la bomba a orologeria costituita dalle università telematiche – rischia di mandare definitivamente al tappeto il sistema universitario pubblico per come lo abbiamo conosciuto dal dopoguerra oggi.
Quando il mare è calmo, ogni strunz è precario
Le università, però, non sono già più quelle di quindici anni fa. La premessa del nostro numero trova conferma da ciò che ci viene raccontato nelle presentazioni da Nord a Sud. Come previsto efficacemente dai movimenti dei decenni scorsi, il risultato del neoliberismo all’italiana raccontato da Andrea Mariuzzo è un’università atomizzata, anestetizzata, che fatica a reagire. Certo, gli atenei rimangono tra i luoghi dove è ancora possibile il conflitto, come hanno dimostrato prima End Fossil e poi le acampade contro il genocidio a Gaza, e più in generale, dove ancora si può discutere criticamente del presente. Quindici anni dopo la riforma Gelmini, però, difendere l’università italiana richiede un grande sforzo di immaginazione, per chiedersi cosa potrebbe essere un’università finanziata, e libera dalle logiche neoliberali.
Lo rendono plasticamente tanto le studentesse e gli studenti del Dipartimento di Studi Umanistici della Federico II, quanto i professori di architettura e ingegneria del Politecnico di Torino, che ho avuto il piacere di ascoltare nelle scorse settimane. A un precario che ha chiesto ai presenti come mai i professori reagiscano a tagli simili «con la stessa rassegnazione con cui un contadino medievale reagiva a un cattivo raccolto», un ordinario ha risposto come i suoi colleghi, anche quando «ben intenzionati», fossero vittime anch’essi della burocratizzazione e perdita di senso prodotte dalle riforme. Se nemmeno al vertice della piramide si riesce a trovare il tempo per reagire alla macelleria sociale del governo, inutile dire le condizioni in cui si trova la base, di cui abbiamo potuto dar conto nell’ultimo numero della rivista con Andrea Simone. E figuriamoci come vive l’università chi ci studia: un esamificio respingente, in cui, come ci è successo a Napoli, persino organizzare un confronto aperto sull’università con la nostra rivista finisce per produrre conflitti e incomprensioni coi docenti a cui viene assegnata la stessa aula.
A fronte di un corpo docente sempre più stressato, valutato solo per la ricerca (e per cui dunque la didattica è tecnicamente un fardello), il corpo studentesco paga sempre più tasse, perché con quelle le università compensano il calo dell’Ffo. Anche chi continua a lottare nell’università, sembra farlo guardando ben aldilà delle sue mura – dalla Palestina a quelle lotte sindacali che cercano di scuotere un paese senza sinistra, ma soprattutto sempre più sinistro. Un esempio si è avuto domenica 17 novembre, quando Danio, operaio ex-Gkn, in un momento di pausa dell’assemblea di «lotta e rabbia» convocata dal Collettivo di Fabbrica ci ha fatto notare la giovane età di chi divideva con lui il tavolo di presidenza. Per le studentesse e gli studenti che a Campi Bisenzio hanno visto il potenziale di liberazione e di cambiamento reso possibile dalla lotta, ciò che resta dell’università italiana dopo la «cura» Gelmini è difficilmente abitabile, figuriamoci difendibile.
Eppur si muove
Venerdì 15 novembre però alcuni segni di resistenza sono diventati più visibili. Il corteo di Pisa è il culmine di un mese e mezzo di mobilitazione, iniziata l’1 ottobre con un’assemblea all’Università. Pochi giorni dopo, il rettore ha denunciato come, in conseguenza di 16 milioni di tagli per l’Ateneo, persino le assunzioni già approvate per quest’anno siano a rischio. Ancora più studentesse e studenti, soprattutto nei poli scientifici, hanno affollato le successive assemblee di dipartimento, fino a quella d’ateneo che l’11 ha visto oltre cinquecento persone assiepate al Polo Carmignani. Pochi giorni dopo, molte di più hanno sfilato per tutta la città, ricevendo persino un inatteso intervento a sostegno del Rettore.
Ben più interessante era stato, poco prima, il discorso di Federica, assegnista in una delle Scuole d’eccellenza pisane. Usando «il femminile sovraesteso perché tutti i precari sono femminilizzati, cioè precarizzati e sottopagati, e perché in un sistema così competitivo, le prime ad avere la peggio sono le donne», ha raccontato le condizioni vergognose in cui già oggi si compie il lavoro di ricerca in Italia. Federica è parte della neonata Assemblea Precaria. Una settimana prima dello sciopero indetto dall’Flc per il 31 ottobre scorso – che a Pisa ha visto la convergenza importante con le lavoratrici esternalizzate di mense, biblioteche e portinerie, organizzate dalla Filcams-Cgil – assegniste, dottorande e ricercatrici si sono date appuntamento a Exploit, uno spazio occupato all’interno proprio dell’Università, per un momento di «autocoscienza precaria». Mutuando uno strumento dei movimenti femministi, hanno condiviso le motivazioni dietro la scelta di intraprendere questa carriera, e poi ciò che la rende insostenibile. Rompendo, assieme all’imbarazzo, l’atomizzazione della vita accademica, hanno condiviso fragilità e insicurezze; rabbia, per «un lavoro che come tutti i lavori ha le sue malattie professionali, da quelle mentali a quelle posturali, ma nel quale il concetto di salute sul luogo di lavoro è totalmente assente, non essendo considerato un lavoro»; la necessità di «sindacalizzarci, perché se ci possono colpire così è perché non riusciamo a organizzarci in sindacato e contrattare per le nostre condizioni di lavoro e salario».
Sindacalizzare l’università
Con le stesse motivazioni e bisogni, l’8 di ottobre si erano autoconvocate le precarie e precari della ricerca torinesi, presto imitate anche dalle colleghe bolognesi. Il 17 ottobre, ci sono state assemblee di ricercatori precari a Milano e a Palermo – quest’ultima organizzata dall’Arted, l’associazione dei ricercatori a tempo determinato – mentre il 6 e 7 novembre è stata la volta di Bergamo e Pavia. Come nel 2022, quando a fronte del panico suscitato dalla Riforma Verducci era nato il coordinamento Restrike, per la natura del loro «non-contratto» il precariato universitario è intercettato solo parzialmente dal sindacato. La stessa docenza universitaria, che non prevede la contrattazione collettiva neanche per chi è di ruolo (per motivi storici più o meno discutibili di cui si è discusso nella presentazione bolognese con Andrea Mariuzzo), rende gli atenei assai poco sindacalizzati, per essere pubblico impiego e anche luoghi di lavoro grandi per gli standard italiani. Se poi si considera che il lavoro non docente – storicamente più sindacalizzato – è sempre più esternalizzato, il risultato è una frammentazione desolante. Dottorande e dottorandi («forti» di borse di 3 o 4 anni) sono riuscite con fatica a darsi un’associazione nazionale, l’Adi, tra le promotrici, insieme a Flc e Arted della campagna «Novantapercento», che ha lanciato una prima assemblea nazionale il 25 ottobre scorso. Tale sforzo sembra strutturalmente fuori dalla portata di chi ha contratti di un anno (oggi l’assegno, domani l’assistenza alla ricerca), ed è strutturalmente sotto ricatto, geograficamente mobile, oltre che sotto la pressione del publish or perish (la necessità di pubblicare per stabilizzarsi, o anche solo sopravvivere).
L’assemblea del 25 ottobre ha visto la partecipazione di centinaia di persone, e ha segnato un inizio incoraggiante di convergenza tra sindacato, associazioni e coordinamenti locali. E il 15 novembre, dopo le rispettive mobilitazioni – chi in piazza, chi sotto il rettorato – le Assemblee precarie di Bologna, Pisa e Torino, assieme al collettivo CoRDA – Coordinamento Ricercator3, Dottorand3 e Assegnist3 – di Padova, hanno condiviso un documento comune, che invita alla formazione e al coordinamento di simili realtà. L’appello ha trovato sbocchi anche in alcune delle presentazioni di Jacobin, come quella organizzata dal Coordinamento dei Collettivi della Sapienza di Roma. Occasione per condividere «buone pratiche» e «parole d’ordine», come il «Noi la guerra non la paghiamo», con cui Roberto del CoRDA aggiorna lo slogan dell’Onda del 2008 con la nuova ragione dei tagli del governo Meloni. Il CoRDA è nato a maggio, per prendere voce contro il genocidio di Gaza. C’è voluto poco perché evolvesse in luogo di confronto e attivazione in contrasto alla precarietà e convocasse le prime assemblee padovane contro la riforma, e presidi come quello dell’11 novembre sotto il Palazzo del Bo. Il 15 novembre, dopo aver collaborato alla stesura di mozioni da far passare negli organi collegiali, ha deciso di rivolgersi direttamente alle nuove leve del Welcome Day dei dottorati dell’Università patavina.
A Pisa, sempre il 15 novembre, il Senato ha approvato «all’unanimità la mozione presentata dalla comunità studentesca». La mozione esprime la «netta contrarietà per i tagli attuati al Ffo e forte preoccupazione per l’aumento di precarizzazione» dovuto alla riforma Bernini. Ma difficile sarà ottenere impegni concreti sulla precarietà, come dimostra il pessimo parere espresso ancora dal Cun sulla Riforma Bernini il 14 novembre, con i voti contrari di Flc, Adi e pochi altri. Cogliendo uno spunto uscito proprio dalla presentazione di Jacobin a Exploit, la mozione impegna l’Università di Pisa «ad attivare iniziative per monitorare i contratti di lavoro precario presenti in ateneo, inclusa la costituzione di un Osservatorio». Su Jacobin raccontiamo questa «buona pratica» da poco inaugurata dall’Università per Stranieri di Siena come possibile strumento di visibilizzazione del precariato – anche esternalizzato – e primo passo per la ricomposizione e sindacalizzazione. A fronte della difficoltà di una mobilitazione che rischia di avere nel governo centrale il solo riferimento, è diventato un obiettivo ateneo per ateneo delle assemblee precarie. Assemblee che continueranno: lunedì 18 è stata la volta di Siena; martedì 19 di Cosenza (Flc), Salerno (Coordinamento Precari UniSa) e Genova; mercoledì 20, giorno in cui si riuniranno di nuovo quelle di Bologna, Padova e Torino, si terranno un’assemblea online dei precari della Sapienza, convocata da Flc, Adi e Arted, e una in presenza allo spazio Zero81 di Napoli, convocata da Restrike, dopo che lunedì 18 novembre c’è stata una prima assemblea d’ateneo alla Federico II, convocata da Adi, ArteD, Flc e Rete29Aprile; il 21 ci si riunirà di nuovo a Pisa, il 26 e 27 sarà la volta delle assemblee della docenza a Torino e Milano. E sicuramente ce ne siamo persa più di qualcuna.
Generalizzare lo sciopero
All’ordine del giorno di quasi tutte queste assemblee c’è come partecipare allo sciopero generale del 29 novembre. Sciopero indetto da Cgil e Uil in opposizione a una legge finanziaria che, per finanziare la spesa militare (la sola base di Coltano, coi suoi 520 milioni, basterebbe a evitare i tagli all’università), e per ridurre il cuneo fiscale a danno della fiscalità generale (anziché operare, come ha suggerito da ultimo l’economista Paolo Naticchioni, con la assai più naturale ed economica leva del salario minimo), fa carne da macello non solo dell’università, ma di sanità, scuola ed enti locali. Un attacco che – sommato a quelli in atto sul fronte costituzionale, del Ddl 1660 e dei diritti civili – rischia davvero di sconvolgere la costituzione materiale di un paese che, proprio come l’università, esce malconcio da decenni di stagnazione. Analisi che ha spinto gran parte del sindacalismo di base a convergere su questa data, accettando la sfida di provare a generalizzarla per superare la frammentazione.
Questa è la sfida che prova a raccogliere chi si sta organizzando nelle università: mentre c’è da sperare che tante e tanti docenti di ruolo decidano di scioperare (è semplice, basta inviare una email di adesione al proprio ufficio del personale), le precarie e precari che non hanno formalmente diritto di sciopero proveranno a generalizzarlo, mostrando la loro presenza fondamentale negli atenei e nelle città che li ospitano. Rivendicando dignità e salari adeguati per quello che, fin dal dottorato, è un lavoro a tutti gli effetti e che come tale, unitariamente, andrebbe sindacalizzato.
Anche se si riuscirà a sconfiggere tagli e riforma, le lavoratrici della ricerca universitaria hanno un disperato bisogno di forme di organizzazione non estemporanea, in grado di chiedere e ottenere ciò che l’Assemblea torinese ha il coraggio di mettere per iscritto: il «raddoppio dell’Ffo», per portare gli investimenti pubblici al livello di quelli Ocse (abbassando, per lo stesso motivo, la contribuzione studentesca); un «piano straordinario di reclutamento», seguito da «una programmazione ciclica e ordinata», per arrivare al rapporto di 1 a 20 tra personale strutturato e corpo studentesco; l’istituzione di un «contratto dottorale», accanto a quello di post-doc degno. Senza investire su un sindacato che abbia la forza e la credibilità di intestarsi questa battaglia non si porrà fine alle condizioni indegne in cui versano le lavoratrici e i lavoratori della ricerca, anche fuori dall’università.
Ma questa battaglia – ce lo hanno detto in tutte le presentazioni – non si vince se non si esce dalle mura dell’università; se non si rivendica un’università diversa, all’altezza di sogni e bisogni di chi ci studia, e anche di chi non lo fa. Un’università che sia in grado non solo di autopreservarsi, ma di contribuire, con le idee ma anche con le pratiche, alla costruzione di una società diversa e migliore. Proprio nella vertenza Gkn – nei piani di intervento pubblico e industriali scritti dalla ricerca solidale – si è visto cosa potrebbe dare al paese un’università di questo tipo. Il doppio colpo che ci troviamo a fronteggiare può essere quello del definitivo KO per l’università come l’abbiamo conosciuta, ma ancor di più l’ultima occasione di giocarsi la partita per l’università di cui avremmo bisogno. Che il 29 novembre sia il fischio d’inizio.
*Giacomo Gabbuti fa parte del consiglio redazionale di Jacobin Italia, ed è Ricercatore tenure-track di storia economica alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa.
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