Gig workers, unite!
Il diario di un ciclofattorino italiano in trasferta a Los Angeles per partecipare al primo congresso internazionale dei lavoratori delle piattaforme: un'occasione per disegnare strategie e alleanze
Scrivo come sindacalista della FiltCgil e attivista nel settore delle consegne a domicilio operate tramite piattaforma digitali. Questo contributo è un diario per restituire passo passo l’esperienza vissuta in prima persona durante un appuntamento storico, carico di significato.
Los Angeles, 24 aprile 2023. Nel caos della seconda città per grandezza degli Stati uniti, la sede del Seiu (Service Employees International Union) ospita il primo Congresso internazionale dei lavoratori delle piattaforme. Il primo evento su questa scala vede partecipare delegazioni di rappresentanti da quindici paesi.
Il percorso che ha permesso la costruzione di questo evento parte da lontano, dal 2018 per l’esattezza, quando le realtà territoriali di diversi paesi (soprattutto europei) hanno creato un gruppo di discussione transnazionale dal quale è scaturito il primo «Forum delle alternative all’uberizazzione».
I tre Forum – il primo a Barcellona, i due successivi a Bruxelles – hanno costruito dei gruppi di pressione sul piano politico, al fine di influenzare il dibattito e le decisioni all’interno del Parlamento europeo. Una forma di organizzazione dal basso che per le rappresentanze sindacali a questo livello appare inconsueta. Punto di partenza la costruzione di una contro-narrazione per opporsi al fenomeno dell’uberizzazione della società. Già allora si comprendeva la necessità di dotarsi di un corpo fuori dai confini nazionali, in grado di colpire e contrastare il fenomeno dello sfruttamento nella neonata economia di piattaforma.
L’obiettivo delineato all’interno di questo consesso è stato l’avanzamento della rivendicazione per una Direttiva europea per stabilire una regolamentazione comunitaria del settore, attraverso un riconoscimento delle figure professionali come veri e propri lavoratori e lavoratrici, con accesso alla copertura retributiva fissata dai contratti collettivi, l’abolizione dei ranking reputazionali che giudicano, discriminano ed escludono i lavoratori e, infine, il dovere da parte delle multinazionali di rendere il funzionamento dell’algoritmo trasparente e accessibile.
Gli spazi aperti grazie all’azione di alcuni gruppi parlamentari che hanno raccolto la sfida (Left-Gue ed S&D), hanno consentito alle rappresentanze sindacali dei lavoratori e delle lavoratrici su piattaforma di portare la propria voce fin dentro i palazzi delle istituzioni europee, partecipando alle Commissioni lavoro, incontrandone l’allora Presidente Nicolas Schmit e organizzando delle conferenze arricchite dalla presenza di ricercatori ed esponenti di forze politiche solidali alla causa.
L’esito che ne è scaturito consiste in un progetto legislativo ambizioso riguardante 28 milioni di persone in Europa (entro il 2030 saranno 40 milioni) impegnate in attività lavorative tramite piattaforma digitale. Merito del percorso è l’aver influenzato l’iter legislativo, partecipando attivamente alla discussione e alla stesura del testo tuttora esposto alla contrattazione tra gruppi parlamentari e alla pressione inaudita delle multinazionali. Queste ultime, preoccupate dall’avanzamento, hanno mobilitato ingenti risorse per scongiurare il pericolo, subendo un’indagine per i metodi illeciti utilizzati nel tentativo di garantirsi una scappatoia grazie all’apporto dei gruppi moderati capeggiati da una compagine macroniana. Con la medesima solerzia la Proposition 22 nello stato della California ha visto un intervento milionario delle aziende nel salvaguardare gli interessi del dumping salariale e contrattuale, dimostrando di disporre di una solida infrastruttura a livello mondiale, con un’idea e una prospettiva altrettanto salde e chiare.
Le ragioni che hanno spinto le rappresentanze dei lavoratori e delle lavoratrici a costruire un network internazionale sono evidenti: per un fenomeno di portata globale serve una risposta della medesima caratura, grazie all’apporto delle esperienze di collettivi concordi nei principi fondamentali che intendono animare le lotte da Hong Kong a Buenos Aires.
Primo fra tutti, il riconoscimento di una corretta classificazione dei lavoratori su piattaforma come dipendenti con un salario orario, un monte orario garantito, il diritto al riconoscimento delle rappresentanze sindacali nate nei luoghi di lavoro, le ferie e una copertura sanitaria in caso di infortunio sul lavoro.
Prima di addentrarci nel contenuto politico del Congresso meritano attenzione le modalità con le quali l’evento si è svolto e le finalità che si è dato. La sede del sindacato statunitense in Wilshire Boulevard durante l’ultima settimana di aprile è stata animata da una folta comunità di militanti che hanno accolto le delegazioni, prendendo in carico la preparazione logistica dell’evento e dei pasti. Uno sforzo e un’attesa che hanno contribuito in modo decisivo alla riuscita di un appuntamento molto sentito oltre Oceano. Si percepiva un clima elettrico, di sollevazione.
Siamo in California, patria della Proposition 22, ovvero la legge che, in seguito a un tentativo di intervento per una corretta classificazione dei platform workers, ha inteso cristallizzare i rapporti di lavoro nel regime di autonomia. Un provvedimento legislativo condito con una manciata di misure sciape – come il divieto di offrire prestazione lavorativa dopo 12 ore e l’obbligo di seguire corsi di sicurezza online – o insostenibili, come un fisso orario basato sulle ore di lavoro effettivamente svolte (tagliando fuori i tempi di attesa e di percorso verso l’esercente). Ai conoscitori delle dinamiche del mondo del lavoro contemporaneo, soprattutto dell’economia su piattaforma, potrebbe ricordare qualcosa: sono infatti gli elementi che costituiscono l’accordo tra Ugl Rider e Assodelivery (associazione datoriale delle piattaforme delle consegne a domicilio), a ribadire un disegno coerente ben strutturato delle multinazionali che sanno bene come aprirsi la strada nella fuga dal costo del lavoro e dal riconoscimento di diritti e tutele.
La tre giorni del Congresso ha sancito una rottura nella ritualità di un’occasione di questo tipo. La discussione si è basata sull’intervento di alcuni ospiti, tra i quali un lavoratore Amazon, uno dei magazzini di New York e una lavoratrice Starbucks da Buffalo, all’interno di mini-conferenze intervallate da azioni di protesta. Per ognuno dei tre giorni di lavori congressuale c’è stata una giornata di mobilitazione. Una pratica molto diversa da quella cui siamo abituati in Europa, ma efficace nell’unire teoria e prassi, aggiungendo un tassello all’esperienza militante di queste giornate.
Lo spirito dell’appuntamento, aggregando generazioni precarie che costituiscono la frontiera delle nuove forme di sfruttamento, è ben rappresentato dalle parole di Veronica Gonzalez dello Starbucks Workers United: «Non riguarda solo Starbucks. La nostra è una battaglia comune […] Organizzarci, nonostante non sia facile, è la migliore prospettiva che possiamo darci; è necessario e dobbiamo farlo. In un mondo perfetto gli organizer non esisterebbero, ma la realtà è un’altra e sono felice di sedere nella stessa stanza come persone alla pari, eguali fra loro».
Tra le sigle hanno partecipato Lieferando (Germania), 3F (Danimarca), Entregadores unidos pela base (Brasile), Sinactram (Paraguay), Frenapp (Ecuador), Unidapp (Colombia), SiTraRepA (Argentina), Gig Workers Union California (Usa), FiltCgil (Italia), RidersXDerechos (Spagna), Gorillas Workers Collective (Germania), SAC (Svezia), Coursiers en Lutte (Belgio), Sentro (Isole Filippine), Uni Global Union (Distacco Nepal Federazione internazionale), Nationale Delivery Industrial Union (Taiwan), Riders Rights Concern Group (Hong Kong), Ni Un Ripartidor Menos (Messico).
Tutti i giorni le sessioni partivano al ritmo cadenzato di un applauso introdotto da Martin Manteca, organizzatore per il Sieu di Los Angeles, a una velocità in progressione, fino al raggiungimento di una barriera collettiva tambureggiante che sanciva l’inizio dei lavori.
Si respirava uno spirito di grande coinvolgimento e l’impressione ricavata è stata di un’iniezione di forza. La dimostrazione che, aldilà della distanza che ci separa e delle difficoltà nella lotta contro le disuguaglianze contemporanee, occasioni come questa possano accendere una scintilla, attraverso lo scambio di pratiche ed esperienze; con le parole di Tristan Dutchin, Amazon Labor Union: «Sono qui per darmi coraggio, per darvi coraggio. Non importa se siamo rider, autisti di Uber, lavoratori di Amazon: dobbiamo sindacalizzarci! Non dobbiamo aver paura di farlo, indipendentemente dalla posizione che ricopriamo. Dobbiamo lottare, non soltanto per noi stessi, ma anche per le persone là fuori che hanno famiglia e problemi economici. Vogliamo un salario migliore, perché ci rompiamo il culo facendo questi tipi di lavoro. Abbiamo bisogno di migliori condizioni di lavoro, corsi di formazione, sicurezza, tutela della salute e coperture assicurative».
Il primo giorno abbiamo manifestato di fronte la Corte d’Appello di Los Angeles che ha dopo poco ammesso come costituzionale l’intervento legislativo poco sopra richiamato, dichiarando tuttavia invalidi gli emendamenti che dispongono orientamenti legislativi sul tema. Su questo versante siamo in una fase calda che sta vedendo il Sieu impegnato in una battaglia su due fronti: da una parte il ricorso alla Corte Suprema, dall’altra la lotta nelle strade del paese per denunciare un’oscena operazione di deregolamentazione finanziata con decine di milioni di dollari da parte di Uber&Co. In questa occasione, una carovana di autisti Uber ha sfilato nel centro della città, bloccandone la viabilità per un paio di ore.
Il secondo giorno abbiamo raggiunto il consolato argentino a Los Angeles, occupandolo, in segno di solidarietà nei confronti del sindacato dei ciclo-fattorini del paese sudamericano, il SiTraRePa.
Conclusi i lavori del terzo giorno siamo partiti per San Francisco. Qui abbiamo puntato la nostra attenzione verso il quartier generale di Uber e, sotto i raggi di un sole cocente, abbiamo denunciato la condotta delle multinazionali, richiamando l’attenzione dei media attraverso una conferenza stampa accompagnata, ancora una volta, dalla presenza dei tassisti, questa volta di San Francisco e L.A. riuniti, che a colpi di clacson hanno mandato in tilt la rete stradale adiacente gli uffici di Uber.
Nei fatti un Congresso itinerante, arricchito dalla partecipazione di precari e precarie non appartenenti alla famiglia dei platform workers, ma che, attraverso la loro testimonianza e il loro contributo, si sono riconosciuti nella risoluzione delle proposizioni inserite nel documento congressuale. Votato all’unanimità, è stato seguito dall’elezione dei delegati per ogni continente partecipante.
Tra gli eletti Emilse Icandri e Renato Assad per il Sud America, Joshua Fred per l’Asia e io stesso per l’Europa. A noi il compito di coordinare le azioni che vedranno impegnate le rappresentanze in ogni paese nella lotta contro la morsa dello sfruttamento nel mondo del precariato digitale e l’onere di organizzare il prossimo Congresso.
Come si legge nella risoluzione congressuale stilata in undici punti, è ambizione di questo esecutivo internazionale coinvolgere, in vista della prossima occasione, delegazioni che possano coprire ogni continente, raddoppiando la partecipazione in termini assoluti e puntando ad assestare una spallata ai colossi della gig economy:
«Il lavoro su piattaforma è un fenomeno globale del capitalismo del XXI secolo. In paesi diversi ci troviamo di fronte allo stesso modello e alle stesse condizioni di lavoro. Questo ci accomuna ai lavoratori delle piattaforme di tutto il mondo. Le aziende del settore sono grandi conglomerati che operano a livello globale e non hanno confini. E nemmeno la nostra lotta. È per questo che stiamo organizzando questo Congresso che promuove la solidarietà internazionalista e il coordinamento per formare un grande movimento globale per la conquista di tutti i nostri diritti. Lavoreremo per rafforzare l’organizzazione dei lavoratori delle piattaforme di tutto il mondo».
*Riccardo Mancuso è un ciclofattorino e delegato sindacale di JustEat.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.