Gli applausi e l’ingiuria
Se il Ddl Zan è, come si sta dicendo ovunque, «morto», non dipende solo dai voti segreti o dalle strategie per il potere: è la società italiana tutta a essere pervasa dalla violenza omolesbobitransfobica
L’injure est essentialiste, car le monde social l’est.
Didier Eribon, Une morale du minoritaire
Gli applausi e le urla di gioia, le braccia di giubilo sollevate al cielo, i pugni, le mani aperte come in uno schiaffo, i sorrisi nei selfie: l’esultanza di una consistente parte della destra parlamentare italiana quando è stato affossato il Ddl Zan ha fatto giustamente parlare, scrivere e indignare. Quando ho sentito quella soddisfazione gridata, durante la diretta della seduta del Senato, mi sono rabbuiato. Non è la rabbia che si è agitata in me, non soltanto e non proprio in quel momento. Immaginavo che il Ddl Zan non sarebbe passato e il dibattito che c’è stato in Italia mi aveva già abbondantemente segnato. Il livello di consapevolezza, di conoscenza e di approfondimento sui temi legati ai generi e alle sessualità dissidenti è evidentemente corrotto, schiacciato da meschini giochi politici e inquinamento generalizzato; pare non vi sia modo di risollevarlo. Durante il dibattito sul Ddl Zan, quanti editoriali, quante riflessioni, quanto sapere è stato scritto da persone Lgbtiq+ nei media mainstream? Quanto visibili sono le nostre vite, quanto contiamo in questo paese se il discorso viene subito decentrato sui voti segreti, su Italia Viva, sul PD, sulle elezioni del Presidente della Repubblica, sui giochi di palazzo? Quanta centralità hanno i nostri corpi, se come dice Travaglio: «Questo fa parte del gioco e dubito che quelli che stavano applaudendo in quella maniera così volgare e oscena avessero presente che cosa stavano votando e che cosa era stato bocciato. Non credo nemmeno che fossero ansiosi di discriminare i cosiddetti ‘diversi’, come li ritengono loro»?
L’omolesbobitransfobia esiste, i parlamentari ne sono fin troppo consapevoli, Travaglio pure. Meno certe sono le nostre vite vere, che in Italia sembrerebbero darsi soltanto dentro il lessico di un altrove celestiale, anche per buona parte della sinistra intellettuale – cisgender ed eterosessuale – che parla costantemente di «sacrosanti» diritti, «sacrosante» tutele, della «galassia» Lgbtiq+, ecc. La genuina gioia politica della destra italiana davanti al voto del 27 ottobre è un atto violento che dimostra la rozzezza e la disumanità di un paese incapace di formulare un discorso democratico, dunque fondato sui diritti fondamentali e sulla loro costruzione. L’impotenza che provo, certo non da solo, davanti a questa incapacità di comprendere (e far comprendere) le istanze minoritarie ha ormai messo radici e cresce rigogliosa.
Non è, allora, la sconfitta in sé del Ddl Zan che merita di essere indagata. Quel che tocca misurare è, invece, la violenza agita in questo paese, tanto da parte delle estreme destre che applaudono o producono meme aggressivi su Fedez e altri innominati influencer, quanto da parte di chi ha legittimato questo clima tossico, inscalfibile, alimentato da mediocri intellettuali e letture imprecise, ideologici nascondimenti e alleanze etero-patriarcali. Esiste, eccome, un’omolesbobitransfobia sistemica, in Italia, sebbene non riconosciuta (figurarsi, non riconosciamo neanche il razzismo) e non ci è concesso nemmeno il timido sollievo di poterla indicare, di poterla mostrare. Direbbero: i segni che voi persone Lgbtiq+ portate sulla pelle non hanno nulla a che fare con il nostro etero-patriarcato, è piuttosto la conseguenza dell’irrigidimento delle vostre identità. Non è la violenza agita in un’Italia confessionale, conservatrice quando non fascista, ad avervi segnato, ma la vostra dissidenza rispetto al genere e alla sessualità. Nei casi più estremi, chiederebbero: di quale violenza parlate, voi plagiatrici, plagiatori di menti, voi corruttrici, corruttori di bambine e bambini che volete la fine della civiltà?
Mi chiedo: quante persone Lgbtiq+ hanno percepito quella gioia dell’estrema destra istituzionalizzata e normalizzata come un insulto tangibile, più che simbolico, o come un’aggressione da chiamare col suo nome. Quante persone sono state, nuovamente, oggetto dei discorsi egemonici e assoggettate, per mesi? Quante persone, come me in questo momento, provano la fatica del riconoscerlo, sapendo che fuori c’è il facilissimo cinismo politico di chi si ostina, credendoci, a far circolare la fuffa sul «politicamente corretto», sulla wokeness, sulla cancel culture, sulla identity politics, come se avessero davvero la dignità di argomentazioni valide e sottilissime? Quante persone si sono scoperte spogliate, pronte a essere colpite, mentre scrosciavano applausi e grida perché affondava un Ddl contro le violenze? Quanta vulnerabilità taciuta e occultata in tutti questi mesi siamo in grado di afferrare come reale problema sociale e politico da trattare all’altezza di quello che è? In questa distopia chiamata Italia, non trovo più chiavi che reggano per dare una riposta a queste domande; mi sembra manchino le serrature, talvolta le stesse porte.
Alle mie spalle, ho un percorso politico e di consapevolezza, mai terminato ovviamente, che mi ha portato ad accostare e a trasformare la violenza omofobica subita nella grazia delicata di un fiore, come scrisse Didier Eribon con altre parole, ispirato da Jean Genet. Fa parte di me e sarebbe inutile negarlo. Allo stesso modo, è inutile negare che il godimento ostentato, e mortifero, registrato al Senato è l’apice di una violenza istituzionale non sconosciuta in Italia, che riempie le prime pagine dei giornali e gli editoriali e la produzione culturale, che regge un sistema di diseguaglianze piccolo-borghese. Qui, l’omolesbobitransfobia attraversa persino le corti di giustizia, in una direzione originale rispetto ad altri paesi occidentali (lo dimostra, per esempio, l’impossibilità di fare i conti con l’assenza del matrimonio egualitario – ormai un discorso noioso e, altrove, archiviato da anni – o, fino al 2016, di un istituto giuridico per le coppie formate da persone dello stesso sesso: assai recentemente, la stessa Cassazione ha impiegato argomentazioni basculanti per negare la pensione di reversibilità a un uomo il cui compagno è morto poco prima dell’entrata in vigore della legge n. 76/2016 sulle unioni civili).
L’afflato disumanizzante degli applausi in Senato è l’immagine che questo paese ha costruito nel tempo e che lo stesso movimento Lgbtiq+ italiano ha talvolta preferito nascondere, dimenticare. Per una qualche ragione, a me ha riportato alla mente un episodio in particolare, cui ripenso di tanto in tanto non perché sia particolarmente evocativo o indicativo, ma perché mi racconta, ancora oggi, di una fragilità sociale mai sanata e cui cerco di non assuefarmi; una fragilità dalla quale non si può scappare così facilmente.
Una sera di tanti anni fa, ero uscito con un ragazzo: un appuntamento, come tanti altri, iniziato attraverso chat e contatti virtuali. Ci rincorrevamo da diverso tempo ma, anche per colpa mia, che avevo sottovalutato di molto il feeling costruito intorno alle nostre passioni comuni, tra le quali un certo genere di musica, non ci eravamo mai visti di persona. E poi ci ostinavamo a rimanere intrappolati negli sfasamenti temporali, incastrati tra fidanzamenti o trasferimenti, intoppi e precariato, insoddisfazione, vite diverse e scelte stupide. All’epoca, per esempio, io abitavo in Francia e lui avrebbe voluto ospitarmi durante quella parentesi romana che mi serviva per dare un esame all’università. Nonostante il suo invito, avevo preferito sistemarmi da un’amica, visto che mi assicurava maggiore comodità e autonomia. Alla fine, optammo per alcuni bicchieri di vino al Pigneto.
Lui era più bello di quanto immaginassi e molto più interessante dell’idea che mi ero fatto nelle notti passate a scriverci di musica o di frustrazioni piuttosto che a guardarci almeno negli occhi. Aveva un senso cinico dell’umorismo che mi risuonava dentro, vestiva certamente meglio di me e, quando sorrideva nella conquista, sembrava anticipare l’elenco di cose cantato da John Grant che, al confronto, sono soltanto disappointing. Facendola breve, era un incontro non troppo diverso da quelli che accadono un po’ ovunque, ordinario nella sua straordinarietà, e che ci appartiene intimamente, nelle nostre vite vere: due giovani ragazzi gay si riconoscono nelle mani e nelle lingue, condividono una tensione fatta di tunnel elettrici e faticano a non sentirsi scemi per la voglia di toccarsi. Passammo la serata a stuzzicarci e a flirtare con tutti i denti, fingevamo una complicità di chi si conosce da molto tempo, quel genere di finzione che danno le scosse dell’attrazione, mentre ci confessavamo la stupidità di aver rimandato più volte l’incontro.
Al momento di ritirarci e avviarci verso la sua macchina, un po’ brilli per il vino e incerti sui nostri passi, irrigiditi dall’ansia erotica, non sapevamo se avremmo mai intonato l’uno per l’altro Heartbeats dei Knife o Hood di Perfume Genius e iniziammo a baciarci lo stesso, a lungo. Era notte, i locali dell’isola pedonale stavano chiudendo, non molta gente passava dalla via in cui ci trovavamo. «Ma che cazzo state a fa’? A froci, ma che cazzo state a fa’?». L’ombra di uomo, in fondo alla strada, a un paio di isolati di distanza, ci diceva di piantarla con quei sorrisi tra un bacio e l’altro. Doveva buttare la spazzatura, forse, ricordo che con la mano agitava un oggetto grande quanto una busta di plastica. Iniziò a intimarci di smetterla perché ci avrebbero potuto vedere i bambini, in piena notte, per le strade del Pigneto. Credo di aver urlato qualcosa del tipo: «Sì, siamo froci, e allora, cazzo vuoi», mentre F. mi tirava via il braccio, dicendomi di lasciar perdere. L’uomo con la busta non mollava, però, e veniva verso di noi sulle gambe del disprezzo che nutriva. A suo dire, e ci teneva che noi intendessimo il suo dire, eravamo pervertiti, un pericolo sempre più grosso per una società al collasso, il male incarnato. Per lui, non eravamo due sconosciuti al primo appuntamento o due imbecilli che avevano perso anni tra i silenzi e le chat notturne né avremmo potuto esserlo, in tutta semplicità; non eravamo due giovani impazienti di aprirci insieme, no. Eravamo «i froci». A noi, in quel momento, era concesso essere solo l’ingiuriosa immaginazione sociale, politica di un uomo eterosessuale, con il suo verdetto scagliato sull’asfalto insieme alla saliva degli sputi, scagliato proprio nel momento in cui ci scoprivamo piano, coi baci come preludio per la rivelazione di una complicità inventata e fragile, visibile all’altro solo nelle scosse alle ginocchia.
Andammo via, l’uomo tornò sui suoi passi, il nostro desiderio ormai spezzato. Dato che il cuore batteva forte per tutt’altre ragioni, restammo in silenzio per diverso tempo. Sembra sciocco anche questo oggi: avremmo potuto evitare di separarci e passare invece la notte insieme, ma non lo facemmo. L’uomo della spazzatura aveva rotto un’intesa e ci aveva rubato il momento in cui il giocoso inganno si sarebbe mostrato, forse, per quel che era: un enigma nel quale avevamo iniziato a gettarci sorseggiando vino. La violenza di quell’aggressione verbale e minacciosa aveva preso il posto del New World cantato dagli Irrepressibles: non eravamo pronti, né forti abbastanza, e quell’umiliazione stava negli occhi di F. come nei miei. Credo che quel momento ci abbia rigettato nelle nostre teste, forzati verso il passato piuttosto che il futuro o il presente infinito di una notte. Anziché unirci – forse avremmo potuto – ci siamo fatti dividere dalle parole di uomo che buttava la spazzatura: non è facile ammetterlo. Abbiamo entrambi dovuto fare i conti con la storia dell’omofobia da noi vissuta in precedenza, nella nostra regione del sud Italia e, poi, i conti con la paura e la rabbia, con la vergogna che porta con sé la devianza, con la fatica dell’orgoglio del riscatto e della delicatezza.
Almeno a partire dal suo Riflessioni sulla questione gay (Ariele, 2015), Didier Eribon ha dedicato molte pagine all’ingiuria e all’assoggettamento delle persone Lgbtiq+ (in particolare, degli uomini gay) sempre sottolineando le dinamiche sociali, oltreché storiche, delle forme che assume la violenza. Senza perdere il radicale slancio critico rispetto ai limiti della legge penale – per esempio l’idea che dare forma a un reato fondato sull’omolesbobitransfobia porta con sé il rischio di legittimare gli altri atti omolesbobitransfobici non passibili di sanzione: che posto dare al senso comune etero-sessista? – Eribon ha articolato un discorso complesso sul processo di stigmatizzazione e di metamorfosi mostruosa che vivifica l’insulto, l’aggressione, la discriminazione. Leggendolo, ho imparato a riconoscermi nelle pieghe delle pagine, nei silenzi, negli accenni – proprio come lui si è riconosciuto, e io anche, in certe righe di Jean Genet o di Michel Foucault. In Ritorno a Reims (Bompiani, 2017), Eribon scrive tra le altre cose: «Non si riformula ciò che si è partendo da zero: si compie un lavoro lento e paziente per forgiare la propria identità a partire da quella che ci è stata imposta dall’ordine sociale. Per questa ragione non ci si affranca mai dall’ingiuria, né dalla vergogna. Tanto più che il mondo ci lancia a ogni istante dei richiami all’ordine che riattivano i sentimenti che si vorrebbero dimenticare, che si crede a volte di aver dimenticato».
Se ora torno a queste riflessioni e a certe pagine di Eribon, alla vergogna e all’ingiuria, è perché collegano quel desiderio strangolato al Pigneto agli applausi in Senato e, poi, ancora più indietro, più avanti e in modo più ampio, alla riattivazione della dominazione e dei suoi sentimenti che viene dalle istituzioni italiane, da una politica indegna e dalla mai abbastanza maledetta incapacità di mettere al centro la violenza per riconoscerla come tale, persino quando se ne discute il contrasto.
Allora, se il Ddl Zan è, come si sta dicendo ovunque, «morto», non dipende – e non può dipendere – soltanto da Italia Viva, dalla Lega e da Fratelli d’Italia, dai voti segreti o dalle strategie per il potere, per quanto le analisi possano essere condivisibili e convincenti: è la società italiana tutta a essere pervasa dalla violenza omolesbobitransfobica. Dovremmo poterlo dire come prima cosa, dovremmo poterci lavorare su. Non è possibile vedere la superficie della violenza quando la cosa più importante da preservare sembra essere lo stesso ragionare, corrotto, grazie al quale si definiscono gerarchie e diseguaglianze. Nei distopici mesi della discussione intorno al Ddl, il dibattito pubblico si è concentrato sulla libertà di espressione dell’uomo della spazzatura ed è stato vano ogni tentativo di riportare al centro le «sacrosante» tutele per le persone Lgbtiq+: com’è possibile che non sia questa, ora, la materia di riflessione? Com’è possibile non dire mai che è stato tutto questo sapiente decentramento uno dei motivi principali, se non addirittura il motivo principale, della sconfitta? Mentre, invece, suona più evidente, più cristallino, più vero il gioco tra partiti o l’elezione del Presidente della Repubblica?
Fuori e dentro le aule parlamentari, nelle reti televisive, sui grandi giornali, nel profluvio di editoriali e di pezzi di opinione, per mesi hanno preso parola persone non segnate dalla violenza omolesbobitransfobica, persone a digiuno di riflessioni sul genere e sulla sessualità che, tuttavia, risultavano esperte per principio d’autorità, per posto gerarchico. Ecco: fronteggiare una tale mole di umiliazioni ha significato un lavorio incessante, da parte delle persone Lgbtiq+, di riformulazione del proprio posto, della propria soggettività, della propria relazione con la vergogna, del proprio assoggettamento – non sempre potendo sfociare nella forza dell’orgoglio. Gli incessanti «richiami all’ordine», per dirla con le parole di Eribon, diffusi senza sosta sui media, sui social o in Parlamento durante quest’ultimo anno e passa hanno generato una fatica quotidiana per migliaia e migliaia di persone, una fatica insensata e crudele. È evidente che l’Italia non sia un paese in grado di cogliere la fragilità di molte esistenze, o la creatività che da queste si genera, né può restituirci parvenze di verità sui rapporti di dominazione, inclusa una verità apparentemente inaudita: «Au commencement, il y a l’injure».
Condensando strutture sociali, disciplina identitaria e categorizzazione, è l’ingiuria che mi ha fatto frocio la prima volta ed è l’ingiuria che mi rivela il posto che la società mi vorrebbe assegnato. È l’ingiuria che porta con sé una politica dell’identità, non la mia resistenza.
*Yàdad De Guerre è studioso dei movimenti anti-femministi, anti-LGBTIQ+ e neofascisti. È autore del blog Playing the Gender Card.
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