
Gli Usa devono stare fuori dal Venezuela
I tentativi di Trump di cambiare governo in Venezuela rischiano di far scoppiare la guerra civile in un paese già diviso. Intervista all'ex ministro degli Esteri ecuadoriano
Il 23 gennaio la lunga crisi politica venezuelana ha raggiunto un punto di non ritorno quando Juan Guaidó, recentemente insediatosi come presidente dell’Assemblea Nazionale a guida dell’opposizione, si è auto-nominato presidente ad interim del Venezuela, nel tentativo di spodestare il presidente in carica Nicolás Maduro.
Donald Trump ha annunciato su Twitter che la sua amministrazione avrebbe ufficialmente riconosciuto Guaidó come presidente del Venezuela, seguito subito dopo dal Canada. Negli ultimi giorni i capi di stato dell’Unione Europea hanno rilasciato una dichiarazione comune nella quale annunciano che anche loro avrebbero riconosciuto Guaidó se non fossero state indette nuove elezioni nel giro di otto giorni. La mossa politica di Guaidó è stata largamente condannata dalle sinistre mondiali, letta come un colpo di stato, con i membri laburisti del parlamento britannico che, in una lettera al Guardian, la condannano come un tentativo di “cambio di regime”. Hanno comunque fatto ben poco per impedire l’ostilità occidentale al governo di Maduro, con un’ultima escalation di sanzioni che ha portato la Banca d’Inghilterra a rifiutare il ritiro dei lingotti d’oro del valore di 1,2 miliari di dollari che la Repubblica Bolivariana aveva depositato nei suoi caveau.
Nel mezzo di questi sviluppi, Ronan Burtenshaw, redattore del Tribune, si è seduto al tavolo con Guillaume Long, ex-ministro degli esteri e rappresentante alle Nazioni Unite dell’Ecuador, per discutere del contesto più ampio in cui è inserita crisi venezuelana, della risposta dell’Occidente, del vento che cambia in America Latina, e della mediazione proposta dai governi di Messico e Uruguay.
Qual è la tua reazione a ciò che sta avvenendo in questi giorni in Venezuela?
Quella a cui stiamo assistendo è l’improvvisa accelerazione di un processo che sta andando avanti da diverso tempo. C’è una crisi profonda, economica, sociale, politica e istituzionale. Molte delle istituzioni nazionali sono in conflitto tra loro, e anzi possiamo dire che non si riconoscono l’un l’altra la legittimità. Il ramo esecutivo non riconosce il ramo legislativo e viceversa. Tutto questo va avanti dalle elezioni parlamentari del 2015, e si è andato via via polarizzando e radicalizzando. Ha toccato un punto di non ritorno negli ultimi giorni, con Juan Guaidó del ramo legislativo che si è auto-nominato presidente ad interim. E così ora siamo in una situazione in cui c’è un presidente che ha il controllo della maggior parte delle istituzioni nazionali, Nicolás Maduro, e un rivale, l’auto-proclamatosi presidente Guaidó, che può contare sul supporto della comunità internazionale e di settori importanti della società civile.
La polarizzazione estrema a cui assistiamo in Venezuela è il prodotto di una società profondamente divisa, con grosse fette della popolazione schierate da una parte o dall’altra. È un punto che è particolarmente importante da far capire all’Occidente, dove i media danno l’impressione che esista un dissenso schiacciante contro Maduro nella società venezuelana. Se non ci rendiamo conto che entrambe le fazioni godono di una base di supporto, rischiamo di commettere gravi e costosi errori. È evidente che ora ci sia un fronte anti-Maduro di dimensioni considerevoli, che non si limita più alle sole élite venezuelane. Anche se per molti anni, soprattutto durante la presidenza di Chávez, l’opposizione è stata guidata quasi interamente dalle élite della medio-alta borghesia, oggi la sua base si è allargata anche a settori più popolari. Allo stesso modo c’è un forte fronte chavista, che in qualche caso è molto fedele a Maduro, in altri è più critico, ma è comunque ostile a Guaidó e più in generale all’opposizione venezuelana.
Nelle ultime elezioni, che sono state fortemente contestate, parte del fronte chavista potrebbe non aver votato, ma questo non vuol dire che si sia unito al blocco anti-Maduro. Ritengo che dovremmo essere cauti e non ascrivere in toto all’anti-chavismo l’alta percentuale di astensionismo delle ultime elezioni. Molti venezuelani sono senza dubbio frustrati dalle profonde crisi degli ultimi anni, verificatesi sotto Maduro, ma non necessariamente significa che siano pronti a passare all’opposizione.
Subito dopo l’annuncio di Guaidó, gli Stati Uniti e il Canada hanno riconosciuto la sua vittoria. I maggiori stati europei li hanno imitati dicendo che anche loro lo avrebbero riconosciuto se non fossero state indette nuove elezioni entro otto giorni. Come interpreti le reazioni dell’Occidente?
Credo che ora come ora polarizzare ulteriormente la situazione sia un grosso errore. Radicalizzare le posizioni dei due fronti che ora dividono politicamente il Venezuela significa aumentare il rischio di violenze. I livelli di violenza politica nella nazione sono già abbastanza alti – nel 2017 un pilota isolato ha usato un elicottero per attaccare la Corte Suprema, l’anno scorso c’è stato l’attacco di un drone a una manifestazione pro-Maduro, le forze di polizia hanno interrotto manifestazioni dell’opposizione uccidendo civili, ci sono stati periodici attacchi di guarimbas, violenti blocchi stradali messi in atto da alcuni settori dell’opposizione, e ci sono state delle morti anche negli ultimi giorni. Questa situazione potrebbe rapidamente sprofondare in un conflitto aperto o addirittura in una guerra civile se le tensioni dovessero esacerbarsi ulteriormente. Per la verità, negli ultimi giorni l’ex-presidente spagnolo José Luis Rodríguez Zapatero, che in questi anni è stato coinvolto nelle trattative fra le due parti, ha avvertito della possibilità di un «conflitto civile dalle conseguenze drammatiche». Ha parlato di due fazioni, e due categorie di persone – gli chavisti e l’opposizione – che restano fedeli alle loro posizioni.
In tutto ciò, le forze armate sono rimaste leali a Maduro. Ci sono state alcune defezioni, ma poche. La grande maggioranza dell’esercito rimane dalla parte del governo di Maduro. E dunque quando l’Occidente si mette a invocare un colpo di stato o un’insurrezione – perché la retorica ogni tanto sembra proprio questa – fa un gioco pericoloso. Attualmente sta incoraggiando un cambio di regime con metodi illegittimi. Il messaggio che passa è che per rimuovere il governo in carica un atto di forza sarebbe necessario e giustificato. Se ciò avvenisse, anche gli chavisti risponderebbero con la forza. Sono le basi per un conflitto o una guerra civile.
Ci sono stati alcuni cambiamenti importanti nel quadro politico dell’America Latina negli ultimi anni, con il potere che dall’inizio del secolo è pian piano scivolato via dalle mani delle sinistre elette, ed è andato sempre più a ingrossare le fila di movimenti di destra che predicano la linea dura. L’esempio più recente e più drammatico è stata l’elezione dello scorso anno del demagogo di destra Jair Bolsonaro a presidente del Brasile. Cosa ci puoi dire del contesto regionale di quest’ultima crisi venezuelana?
È importante ricordare che Chávez è sempre stato, sin dall’inizio, un personaggio scomodo per le élite e le destre dell’America Latina. Il colpo di stato contro il suo governo nel 2002 fu supportato dagli Stati Uniti e dall’allora primo ministro spagnolo José María Aznar, ed ebbe l’appoggio di numerose potenze regionali, prima di tutte la Colombia. Ciò avvenne per via del progetto radicale che aveva non solo per il Venezuela ma per il continente, nel quale veniva messo in discussione il ruolo storico delle élite regionali e si prometteva la redistribuzione di ricchezza e potere.
Durante il periodo che in Occidente è conosciuto come la Marea Rosa nella regione furono eletti alcuni governi di sinistra allineati – perlomeno non ostili – con il Venezuela. Tuttavia, da quando la destra ha riguadagnato terreno negli ultimi anni, abbiamo visto il Venezuela essere messo al centro dello scontro destra-sinistra che divide il continente. È entrato nel dibattito di ogni singolo stato latino americano. Durante le elezioni di Andrés Manuel López Obrador (Amlo) in Messico ogni giorno uscivano storie su come avrebbe trasformato la nazione nel Venezuela. Anche nelle elezioni brasiliane il dibattito sul Venezuela ha giocato un ruolo importante. Tutta la politica dell’America Latina, sia interna agli stati che estera degli uni con gli altri, è stata contaminata dalla crisi venezuelana, il che significa che la sua soluzione ormai non riguarda solo il Venezuela, ma riguarda la regione stessa e la sua capacità di elaborare le crisi nel ventesimo secolo. Un ruolo cruciale in tutto questo lo hanno i governi di destra del Lima Group, un corpo sovranazionale creato nel 2017 per rispondere alla crisi venezuelana. Questi governi hanno proposto una linea estremamente aggressiva: non riconoscere legittimità a Maduro, non trattare con il suo governo, riconoscere Guaidó, etc.
Per quanto riguarda l’Unione Europea e i suoi membri costituenti, stanno mostrando di voler adottare la stessa linea di Trump e del Lima Group. Ritengo sia importante che l’Unione Europea non segua questa strada. Inizialmente sembravano volersi contenere, ma le ultime dichiarazioni sul riconoscere Guaidó a meno di elezioni entro otto giorni sposano quel tipo di approccio aggressivo.
Sfortunatamente, sempre presente sullo sfondo c’è una sorta di Guerra Fredda in America Latina. Bolsonaro ne è l’esempio perfetto, dato che va in giro a dire che non permetterà il “comunismo” nel continente e giura di cacciar via “i rossi”. Lo ha detto non solo in riferimento al Partito dei Lavoratori e ad altri partiti di sinistra nella sua nazione, ma anche a governi di sinistra come Venezuela e Cuba. Questa dinamica è stata aggravata dall’intervento degli Stati Uniti sotto Donald Trump e John Bolton, che hanno recentemente reintrodotto nella politica regionale figure come Elliott Abrams, tra i più famosi personaggi legati alle guerre sporche dei Contras negli anni Ottanta. Credo che l’Europa dovrebbe adottare un approccio più sfumato, che le assicurerebbe di giocare un ruolo più produttivo in Venezuela, e in generale nell’America Latina, e che potrebbe anche includere qualche forma di mediazione lungo la strada.
C’è, ovviamente, un altro tipo di contesto regionale in tutto ciò, ed è l’offerta dei governi di Messico e Uruguay di fare da mediatori all’interno del Venezuela per far ripartire le trattative che si erano interrotte durante le elezioni dello scorso anno. Che ne pensi di questa proposta?
Stavamo appunto dicendo che il Venezuela è diviso fra queste due fazioni, ma anche il mondo è diviso sotto molti aspetti. È evidente che le destre siano in ascesa nell’America Latina. Ma anche così il Lima Group non è riuscito a far passare la sua mozione all’incontro dell’Organizzazione degli Stati Americani (Oas), nella quale proponeva di riconoscere formalmente la presidenza di Guaidó. Non c’erano abbastanza voti nemmeno a livello regionale. E poi c’è anche il quadro geopolitico globale, con la Cina e la Russia che supportano Maduro anche se l’Occidente supporta Guaidó.
Quand’è che sono importanti le trattative? Esattamente quando ti trovi in impasse di questo tipo, con un livello di bilanciamento di poteri tra le parti che non ha alcuna prospettiva di sviluppo. Le due fazioni sono troppo incancrenite nelle loro posizioni, ma nessuna delle due sembra essere abbastanza forte da trionfare sull’altra. Sono questi i momenti in cui hai bisogno di un negoziatore.
In un contesto del genere, la proposta dei governi del Messico e dell’Uruguay è benvenuta. L’Uruguay non è mai stato pro-Maduro, lo ha criticato duramente negli anni passati. Il Messico ha un governo molto più recente. Ma anche se Amlo ha fatto uscire il Messico dal Lima Group e non ha attaccato il governo venezuelano, non ha nemmeno presenziato all’insediamento di Maduro o ha mandato dei rappresentanti. Credo che questi due stati abbiano una buona posizione per mediare nella crisi.
C’è una lunga storia di trattative tra il governo venezuelano e l’opposizione. Il mancato raggiungimento di un accordo viene usato da coloro che puntano a innescare un’escalation, ma in verità le trattative hanno avuto effetti positivi, prevenendo ulteriori violenze in alcuni momenti chiave. Già questo è di per sé un risultato. Il primo tentativo fu la mediazione dell’Unasur (Unione delle Nazioni del Sud America), guidata da Colombia, Ecuador e Brasile nel 2014-5.
Il secondo tentativo fu la cosiddetta iniziativa degli “ex-presidenti”, che includeva l’ex-presidente spagnolo Zapatero; l’ex-presidente di Panama, Martín Torrijos; l’ex-presidente della Repubblica Dominicana, Leonel Fernández. Più tardi si aggiunse l’ex-presidente della Colombia, Ernesto Samper, che all’epoca era segretario generale dell’Unasur. Per un po’, entrambi i fronti sedettero allo stesso tavolo. Alcuni dei problemi più urgenti furono risolti, anche se quelli di lungo periodo chiaramente no.
L’ultimo giro di consultazioni fu incentrato sulle elezioni dello scorso anno e coinvolse l’ex-presidente spagnolo José Luis Rodríguez Zapatero. Io non fui coinvolto personalmente nelle trattative, e dunque so soltanto quello che riferì Zapatero. Dichiarò esplicitamente che avevano raggiunto un accordo, fino all’ultimo giorno, per un percorso che definì «un’operazione di normalizzazione e sviluppo di una politica democratica». Ma l’opposizione si tirò indietro, una mossa che Zapatero criticò. Oggi è uno degli argomenti usati dal governo di Maduro, ma è completamente assente dalla narrativa mediatica occidentale.
E così abbiamo alcune prove che il dialogo può funzionare. Ci sono stati anche numerosi sviluppi in questo senso negli ultimi mesi. L’opposizione venezuelana è profondamente divisa sin da quando Chávez è salito al potere e non ha mai trovato un proprio leader. Ci sono stati leader importanti, incluso Henrique Capriles, Leopoldo López, e altri, ma l’opposizione è sempre stata largamente divisa.
Le cose sembrano cambiate per il grande supporto che sta raccogliendo Juan Guaidó in tutta l’opposizione. Che sia in virtù della sua personalità, o perché ha il mandato dell’Assemblea Nazionale, o per fattori internazionali sorti di recente è difficile a dirsi. Ma ora, per la prima volta, l’opposizione venezuelana sta dando segni di poter trattare da una posizione unitaria. Questo è uno sviluppo positivo per quanto riguarda le trattative. Nel passato, grosse fette dell’opposizione avevano denunciato le consultazioni come parziali o insufficienti. Ora sarebbe più difficile farlo.
Se all’orizzonte non ci sono trattative, qual è l’esito più probabile?
È difficile poter dire come il fronte di Guaidó potrebbe vincere da solo, senza l’esercito e con la società profondamente divisa, anche se ha il supporto delle potenze occidentali. L’escalation di sanzioni renderà la situazione rapidamente insostenibile. Le sanzioni economiche danneggiano sempre le fasce più deboli della società, e hanno contribuito notevolmente alla crisi economica del Venezuela. Presumibilmente, faranno anche sì che il governo di Maduro non sia in grado di orchestrare quel tipo di cambiamento che porterebbe la sua base a crescere sino ai livelli pre-2015.
Incoraggiare un’ulteriore escalation in Venezuela, specialmente come sta facendo l’amministrazione Trump, è dunque molto pericoloso. Sottostima la resilienza del fronte chavista e si fa forte dell’idea di un supporto schiacciante all’opposizione. Se le politiche stile Reagan anni Ottanta sono quello che gli Stati Uniti hanno in mente per il Venezuela, è una brutta notizia per il Venezuela e per tutta l’America Latina.
La crisi venezuelana ha già prodotto un’enorme crisi migratoria – e un’ulteriore escalation di violenza peggiorerebbe soltanto le cose. In Siria, Iraq, e Libia abbiamo visto alcuni possibili scenari delle conseguenze. Non credo che i governi di destra del continente abbiano lo stomaco per una cosa del genere. Questa presa di coscienza potrebbe condurre un numero crescente di nazioni latino-americane, inclusi i membri del Lima Group, a comprendere che la crisi venezuelana dev’essere risolta al tavolo dei negoziati.
*Guillaume Long è stato il presidente dell’International Relations Commission del partito di governo dell’Ecuador Alianza Pais. È stato il ministro degli esteri dell’Ecuador e si è addottorato al London’s Institute for the Study of the Americas. Ronan Burtenshaw è un redattore del Tribune. Qui l’articolo originale uscito su Jacobin Mag. La traduzione è di Gaia Benzi.
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