
Gramsci e Benjamin, la lotta contro la catastrofe
Un libro confronta le idee dei due pensatori eterodossi, entrambi critici del progresso come arma ideologica della conservazione. Due interpreti della controrivoluzione sempre aperti alla possibilità di un’alternativa
Potrebbe essere uno dei lavori inediti a livello internazionale che mettono a confronto il pensiero di Walter Benjamin con quello di Antonio Gramsci. Un incontro mancato: Walter Benjamin e Antonio Gramsci (a cura di Dario Gentili, Elettra Stimilli e Gabriele Guerra, 268 pgg. 21 euro, Quodlibet) è un volume collettaneo che affronta sostanzialmente quattro filoni: «Filosofia della storia e materialismo storico»; «Rivoluzione, controrivoluzione, rivoluzione passiva»; «Modi capitalisti di produzione e produzione di soggettività»; «Traduzione e critica, avanguardia e cultura popolare». Il libro è poi completato da un’introduzione redatta dai curatori. Ne abbiamo discusso con Dario Gentili, che insegna Filosofia morale all’Università di Roma Tre e che all’opera di Benjamin ha dedicato diversi scritti.
Qual è l’intuizione originaria di questo lavoro che voi stessi considerate «il primo che a livello internazionale cerca di mettere a confronto il pensiero di Gramsci e Benjamin»?
L’operazione è nata innanzitutto dalla discussione avvenuta nell’Associazione Italiana Walter Benjamin [i tre curatori fanno parte del Consiglio direttivo e Guerra ne è il presidente, Ndr], che da diversi anni propone letture attuali, anche in senso politico, del pensiero benjaminiano. Questo approccio a Benjamin ha finito per incontrare l’interesse che alcuni di noi nutrono anche per Gramsci. A colpire innanzitutto, dei due grandi pensatori, è l’elemento biografico: si tratta di due coetanei, il cui destino, tra il 1937 e il 1940, è piuttosto simile, entrambi vittime del nazi-fascismo, suicida in Spagna Benjamin mentre cerca di fuggire dai nazisti e ucciso in carcere Gramsci dal Fascismo. Entrambi, inoltre, se non fosse stato per amici e collaboratori, sarebbero forse rimasti misconosciuti: Benjamin è morto da «profugo» (così lo ha definito in una poesia Bertolt Brecht); Gramsci aveva un profilo politico più visibile, ma comunque muore in carcere e il rischio di finire dimenticato era possibile. Una parabola esistenziale abbastanza simile, anche se nasce da posizioni di partenza molto diverse. Benjamin è berlinese, conosce la metropoli fin dall’infanzia, figlio di una famiglia dell’alta borghesia ebraica assimilata; Gramsci è figlio di una famiglia povera dell’entroterra della Sardegna, che conosce la grande città, la Torino in piena esplosione fordista, in un secondo momento.
Vicende biografiche che partono in modo distinto, ma che finiscono per convergere in molti punti perché entrambi hanno uno sguardo abbastanza affine sull’attualità. Una delle operazioni interessanti del libro, a cui come curatori teniamo molto, è l’analisi profonda del modo di produzione capitalista, quello fordista ma non solo. In Gramsci è nota ed evidente, ma anche Benjamin stava toccando in modo approfondito quest’aspetto, come conferma la mole degli appunti raccolti negli anni Trenta, per il progetto sulla Parigi dei Passages e sulla figura di Baudelaire. È un aspetto in comune non scontato perché in genere si pensa a Benjamin soprattutto come critico letterario o per le geniali intuizioni sull’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica, ma invece, anche per ragioni biografiche (è stato un intellettuale e lavoratore precario ante-litteram), egli rifletteva profondamente sui modi di produzione, sull’estrazione capitalista del valore e sui processi di soggettivazione che si producono mediante il lavoro.
Davvero è la prima analisi comparata a livello internazionale?
Abbiamo fatto una ricerca e non si trova una monografia che abbia confrontato complessivamente il loro pensiero, anche se si tratta di due marxisti che attraversano la medesima epoca. Che nessuno abbia mai pensato alla possibilità di confrontarli costituisce un’anomalia, forse spiegabile con il fatto che poi il pensiero di entrambi ha dato vita a scuole ben strutturate, che però non hanno dialogato, seguendo ognuna la propria linea filologicamente coerente. Si è forse ritenuto che le differenze fossero tali da rendere difficile un confronto in generale. Certo, le differenze ci sono e restano, come diversi saggi del libro evidenziano. E tuttavia, Fredric Jameson, attento studioso di entrambi, diverse volte accenna a un possibile e proficuo confronto, che però almeno per ora non ha ancora sviluppato.
Il libro si propone una comparazione che possa risultare produttiva e stimolante. Vediamo alcuni punti di contatto.
Un punto forte, quello che forse oggi risulta il più originale, è che entrambi sono interpreti della controrivoluzione. Si pongono cioè la domanda su come sia stato possibile, dopo una fase esplosiva della rivoluzione, ad esempio dopo il 1848, l’affermarsi di una controrivoluzione. Si tratta di quella fase che Gramsci definisce «rivoluzione passiva» e che Benjamin ha analizzato attraverso la figura di Baudelaire. Entrambi comprendono come la classe dominante riesca ad assumere, assimilare, integrare nella propria cultura e strategia i tratti più progressivi delle rivendicazioni delle classi oppresse, riconvertendoli di segno e facendone il motore del proprio rinnovamento. Si tratta di una storia che si ripete periodicamente: accade dopo il 1848, ma anche nella loro contemporaneità con il fascismo che giunge dopo il biennio rosso nel caso di Gramsci e con la crisi della Repubblica di Weimar e l’avvento del nazismo in quello di Benjamin. Entrambi sviluppano un’analisi sul regime che si instaura sulle ceneri della fase rivoluzionaria precedente, torcendola in chiave conservatrice. È una riflessione che vale anche per tempi più recenti, si pensi all’affermazione del neoliberalismo dopo la fase degli anni Sessanta e Settanta.
Entrambi, poi, hanno in comune la critica al progresso in quanto arma ideologica della conservazione e dell’egemonia. Entrambi capiscono che per conservare il predominio nei rapporti di forza, l’argomento più forte della classe dominante, il più persuasivo, è quello di procedere lungo la linea del progresso. Le istanze provenienti dalle classi oppresse vengono assunte all’interno dell’ordine costituito favorendone alla fine la conservazione. Il progresso, sostiene Gramsci, è l’argomento più potente dell’ideologia borghese.
Eppure, nel rapporto con lo storicismo i due pensatori hanno approcci diversi: Benjamin se ne distanzia in modo radicale, ma Gramsci se ne fa interprete e recupera il corso progressivo della storia delle classi popolari.
Questa è certo la differenza più evidente. Lo storicismo gramsciano ha una radice hegeliana che non possiamo riscontrare in Benjamin – basti pensare alle tesi Sul concetto di storia – dove per storicismo s’intende una concezione che sorregge l’istanza di continuità e conservazione delle classi dominanti, e quindi della loro egemonia. In Benjamin lo storicismo è un modo di concepire la storia come continuità, come un «rosario» di eventi che impedisce e neutralizza il salto, l’interruzione, la discontinuità. Ma non credo sia questa la concezione su cui si basa lo storicismo di Gramsci, il quale, recuperando Machiavelli, s’interroga anche sulla durata del potere, sull’egemonia. Gramsci si pone il problema di come costruire e dare continuità a un’egemonia a partire da un momento di rottura. Benjamin si interroga sulla possibilità sempre presente e attuale di questa interruzione, Gramsci invece a partire da una rottura, quella della rivoluzione russa del ’17 ad esempio, si pone il problema di come istituire «un ordine nuovo».
Pur restando la differenza nella considerazione dello storicismo, a me sembra che i due autori si concentrino su aspetti e lati prospettici diversi, in cui la militanza politica di Gramsci emerge in modo rilevante, marcando uno iato. Gramsci si pone questioni politiche in senso stretto, organizzazione e durata del potere, che il tedesco non si pone. Benjamin è il pensatore dell’«ultima chance», della rivoluzione possibile anche nei momenti più bui e disperati, di una rivoluzione che interrompe una linea del progresso che invece porta diritti alla catastrofe. Benjamin vede nello storicismo l’impianto teorico di una filosofia della storia della classe vincitrice, Gramsci cerca strategicamente di giocarsi lo storicismo per la conquista del potere: una filosofia della storia che abbia una funzione di legittimazione.
Si tratta quindi di una teoria in funzione di una strategia politica, recuperare lo storicismo in funzione dell’egemonia necessaria al movimento operaio?
Sì, e questa strategia in Benjamin non c’è, lui non ragiona da leader politico, resta un «emarginato».

Sono due pensatori eterodossi che faticosamente rientrano nelle coordinate del movimento comunista maggioritario per quanto Gramsci ne sia stato un rappresentante idealizzato da parte del Partito comunista italiano. La marginalità che congiunge i due pensatori può rappresentare una ragione di un’altra loro convergenza?
Sì, anche se va fatta una precisazione: Benjamin non ha rifiutato l’impegno politico, soprattutto tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta, quando cerca di dar vita alla rivista Krise und Kritik con Bertolt Brecht. Si trattava di mettere insieme l’intellighenzia comunista europea e quella sovietica, ma il tentativo fallì, quell’accordo non si troverà e da lì inizia la vera marginalità, che per lui fa tutt’uno con la sua esperienza di esule. Il periodo coincide più o meno con quello in cui Gramsci finisce in carcere, quando anche per lui si esaurisce il tentativo di incarnare quell’«intellettuale organico» in grado di incidere nella lotta politica.
In ogni caso si determina per entrambi uno sguardo dal margine che fa vedere loro le cose da un punto di vista diverso. Gramsci nel carcere fascista, come prigioniero politico è chiamato a riflettere su un fallimento, inizia a ragionare non più come militante politico, che deve intervenire nel cuore della lotta politica, ma dal punto di vista dello sconfitto. La loro marginalità, quindi, non costituisce solo uno sguardo «dal margine», ma indica in modo originale l’oggetto del loro sguardo che è il fallimento, la sconfitta: da una parte con l’avvento del fascismo, dall’altra con la vittoria del nazismo. Il dato è significativo perché nel dibattito dell’Internazionale comunista del tempo assume centralità non più il momento rivoluzionario, ma il problema del governo e come conquistare il potere all’interno dell’ordine vigente. I due pensatori si concentrano invece sulle ragioni della sconfitta, cosa che non riescono o non vogliono fare i partiti marxisti. Nella condizione di marginalità i due rimangono più rivoluzionari del movimento comunista loro contemporaneo, più aperti alla possibilità di un’alternativa. Benjamin pone questa alternativa non in una strategia o tattica politica, ma in una concezione filosofica che possa attivare una prassi politica; Gramsci in una strategia politica, quella dell’egemonia, cioè una presa del potere che non debba necessariamente passare per una fase rivoluzionaria «esplosiva».
Quale resta allora la comune concezione rivoluzionaria?
Entrambi hanno degli aspetti leninisti in comune: il ruolo della decisione, la soggettività, l’organizzazione. In Benjamin, in particolare quello delle Tesi sul concetto di storia e del messianismo, la rivoluzione è un «ritmo del tempo» della storia, ciò che maggiormente asseconda una temporalità di tipo messianico che non è fatta di continuità, di durata, ma di interruzioni e salti. La rivoluzione così profondamente legata alla concezione della temporalità lo riguarda – e una parte dei saggi del volume è dedicata infatti alla filosofia della storia e al materialismo storico – e riguarda anche Gramsci: in entrambi manca una scansione lineare di passato-presente-futuro, entrambi guardano al passato come a un tempo non concluso, ma oggetto di lotta politica. Ma il passato comunque deve essere attualizzato, eventi del passato hanno ancora potenzialità di espressione che sta alla prassi politica attualizzare. Anche qui, quindi, scavando nei testi, pur non disconoscendo le differenze, emerge un interesse comune su questioni simili. In Benjamin la rivoluzione è un’istanza disperata, l’ultima speranza. La rivoluzione è un appello, una chiamata contro l’ingiustizia, tanto che in lui è presente talvolta un’oscillazione tra rivolta e rivoluzione. Per Gramsci invece è diverso: egli pensa all’organizzazione della rivoluzione che arriva nel momento in cui tutti gli elementi storici, politici, culturali, sociali giungono a un certo grado di maturazione.
Si tratta di un approccio diverso nei confronti dell’evento, dell’inaspettato?
La Jetztzeit (l’esposizione del tempo-ora) di Benjamin rappresenta un’interruzione da parte dell’imprevisto che produce «costellazioni», corrispondenze e nessi che, per essere colti, comportano cambiamenti radicali nella percezione dello spazio politico-sociale. In Benjamin persiste una matrice teologico-politica, la temporalità alternativa del messianismo, che in Gramsci non c’è, sebbene anche lui parli di «molteplici piani temporali». L’inaspettato, però, in Benjamin non rappresenta un fulmine che viene dal nulla, ma solo un cambiamento dello sguardo sul presente, perché le condizioni sono tutte squadernate davanti agli uomini e alle donne, le si deve però attualizzare nell’azione politica. Per Benjamin, quindi, la storia dei vincitori è fatta di macerie che si accumulano e che rischiano di condurre alla catastrofe. L’evento insomma non è un fattore esogeno, ma si determina per l’insostenibilità dello status quo, e occorre un soggetto che, al contempo, si faccia carico della conoscenza storica e dell’azione politica. Qualcosa di affine lo si riscontra anche in Gramsci, per il quale, fermo restando il movimento dialettico che deve svilupparsi pienamente, resta comunque decisiva la «congiuntura» e la capacità di coglierla e agirla.
Entrambi si cimentano con il soggetto anticapitalista: che tipo di analisi viene sviluppata, quali sono gli elementi in comune?
In comune c’è uno sguardo che non punta su un soggetto filosofico astratto, ma su un soggetto dotato di corpo, passioni, sensibilità: insomma, vivo. Entrambi capiscono che il capitalismo non è soltanto un modo economico di produzione economica, ma anche un modo antropologico di produzione, di produzione di soggettività. Si pensi alla figura del «gorilla ammaestrato», a cui per Gramsci tende l’addestramento fordista dell’operaio di fabbrica, o alla concezione benjaminiana della metropoli come «palestra», che abitua a ritmi sempre più ripetitivi e seriali, che allenano alla fabbrica fordista. La differenza sta però nel fatto che Benjamin dà precedenza al piano sovrastrutturale, alla metropoli (la Parigi del XIX secolo) che addestra alla fabbrica fordista di inizio Novecento; mentre Gramsci concepisce prima la fabbrica e poi, in funzione di essa, la città-fabbrica, scontando il punto di vista di un italiano a Torino nei primi decenni del Novecento. Interessante anche la differenza di giudizio rispetto alle «sedimentazioni vischiosamente parassitarie», che come Marx Gramsci avversava in quanto popolazione non produttiva e che invece Benjamin analizza con profondo interesse, si veda la Bohème e la stessa figura di Baudelaire, in quanto forme di vita alternative messe poi a valore dal capitalismo.
E che ruolo ha la loro concezione del proletariato?
In comune hanno l’insistenza sulla possibilità di un’antropogenesi attiva e non passiva, subita. Ad agire il mutamento antropologico deve essere un’istanza che non sia quella portata dal sistema capitalistico. Un piano decisivo della lotta è l’antropogenesi per cui l’essere umano deve trasformarsi e dare forma a sé stesso. Ma chi muove questa antropogenesi? In entrambi c’è l’idea che si possa agire un’antropogenesi comunista. In Gramsci l’elemento disciplinante, l’ammaestramento da parte del fordismo non elimina un nucleo di «animalità» che fa attrito e resiste, da cui può muovere un’antropogenesi alternativa. E Benjamin sostiene qualcosa di simile parlando «dell’indistruttibilità della vita in ogni cosa»: una resistenza materiale e corporea. Qualcosa che possiamo riscontrare anche oggi ad esempio nella sofferenza psichica che sempre più si manifesta nel mondo del lavoro e nella società. Può anch’essa essere intesa come un sintomo di resistenza a cui dare espressione politica. Sia Benjamin che Gramsci nutrivano fiducia, più che nell’essere umano, nell’animale umano.
Questo confronto, storico e filosofico, cosa ci può dire oggi politicamente?
Nonostante sia stato latente per molto tempo, il fatto che la possibilità di tale confronto sia emersa oggi significa probabilmente che proprio oggi è attuale. Entrambi i pensatori credono che l’idea di progresso sia la grande arma egemonica della cultura e della tradizione borghese come del sistema capitalistico. Oggi, per la prima volta da tempi non sospetti, la forza di persuasione di quest’idea di progresso comincia a indebolirsi. Si fa sempre più strada l’idea che i figli non staranno meglio dei padri e le figlie delle madri, abbiamo a che fare in modo sempre più evidente con la concretezza di una catastrofe che, se tutto continua come ora, sarà inevitabile: la crisi ecologica ce lo indica quotidianamente. Ora come non mai cresce la consapevolezza dell’insostenibilità di questa forma di vita capitalistica. E quest’aspetto unisce saldamente Benjamin e Gramsci, entrambi convinti che la battaglia contro il nemico di classe vada combattuta sull’idea di progresso. Così è forse possibile disinnescare la continua ricorrenza delle rivoluzioni passive: le fasi di trasformazione e di spinta dal basso non devono per forza sfociare in fasi di riflusso in cui l’ordine si rinvigorisce e rinnova la propria egemonia. L’interruzione, la cesura benjaminiana è quanto mai attuale. E lo è anche il piano antropologico: entrambi pensano a una nuova forma di vita umana. Non l’uomo nuovo del loro tempo, disciplinato dal comunismo reale, ma un umano che scopra da sé e a partire da sé, anche coadiuvato in modalità inedite dalla tecnica, nuove possibilità.
*Salvatore Cannavò, vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre 2018) e di Si fa presto a dire sinistra (Piemme 2023). Dario Gentili insegna Filosofia morale presso l’Università Roma Tre, tra i suoi libri Il tempo della storia. Le tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin (Quodlibet, 2019) e Crisi come arte di governo (Quodlibet, 2022).
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