
Hanno creato Gaza, ora vogliono distruggerla
Dopo aver creato il più grande campo profughi del mondo, Israele cerca di farlo sparire con le bombe. Ma le infinite offensive hanno rafforzato il sentimento di solidarietà tra la popolazione
Le forze israeliane continuano a colpire Gaza con bombardamenti aerei, uccidendo centinaia di persone, ferendone a migliaia e producendo ancora più sfollati. Poche settimane dopo che è stata definita da Human Rights Watch uno stato di apartheid, Israele sta facendo del suo meglio per dimostrare che merita le accuse sui crimini di guerra.
Gaza non è uno stato in guerra con Israele. È una stretta striscia di terra sottoposta a un brutale assedio da più di quindici anni, viene definita come il più grande campo profughi e come la più grande prigione a cielo aperto del mondo. I rapporti delle Nazioni unite la descrivono come «invivibile». La maggior parte dei due milioni di abitanti vive in angusti campi profughi. L’amara ironia è che la terribile situazione a Gaza è stata creata proprio Israele nel pieno della guerra.
«Abbiamo trasformato i loro villaggi nella nostra casa»
Iniziò con la Nakba: l’espulsione di massa che accompagnò la fondazione di Israele nel 1948. Circa 750.000 palestinesi furono costretti a lasciare le loro case; di questi, 250.000 si sono riversati a Gaza, triplicando la popolazione dall’oggi al domani. Gaza divenne un grande campo profughi, una gigantesca tendopoli schiacciata tra il deserto e il mare. Questo disastro non è sfuggito neanche agli alti dirigenti israeliani. Nell’aprile 1956, il capo militare Moshe Dayan confessò: «Che possiamo dire contro il loro terribile odio per noi? Per otto anni sono stati chiusi nei campi profughi di Gaza e hanno osservato come, davanti ai loro occhi, abbiamo trasformato le loro terre e i loro villaggi, dove dimoravano loro e i loro antenati, nella nostra casa».
I fondatori di Israele, in particolare David Ben-Gurion, prevedevano il rischio di concentrare decine di migliaia di rifugiati in una fascia costiera dove le barriere naturali ne avrebbero impedito la dispersione. Temevano di dover assistere allo spettacolo di «ondate di profughi che marciano su Israele da Gaza».
Le Nazioni unite, nel frattempo, hanno istituito un’agenzia speciale per fornire assistenza ai rifugiati palestinesi (l’Agenzia delle Nazioni unite per il soccorso e il lavoro per i rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente) e approvato una risoluzione che chiede a Israele di garantire che i rifugiati palestinesi possano tornare alle loro case.
Ma gli appelli internazionali sono caduti nel vuoto israeliano e il destino dei rifugiati di Gaza è stato segnato. Nei sette decenni che seguirono la guerra del 1948, i cancelli di Gaza vennero chiusi in faccia alla sua popolazione sfollata. I campi profughi impoveriti e sovraffollati sono diventati permanenti. E Israele ha tentato di risolvere il problema rimuovendolo.
Invasione e occupazione
Nel novembre 1956, Israele marciò su Gaza. Dopo aver lanciato incursioni militari nei campi profughi, Israele occupò Gaza per quattro mesi che culminarono nei due massacri di Khan Yunis e dei campi di Rafah. Il costo umano era così alto che E. L. M. Burns, capo di una missione speciale di osservatori delle Nazioni unite a Gaza, disse che le azioni di Israele erano la dimostrazione che intendevano sbarazzarsi della popolazione di rifugiati di Gaza.
Nel 1967 scoppiò di nuovo la guerra e Israele invase Gaza per la seconda volta. Non fu un compito facile: Israele impiegò solo sei giorni per vincere il conflitto, ma ci mise quattro anni per prendere il controllo di Gaza. I combattimenti provocarono un secondo esodo, poiché decine di migliaia di profughi, ancora traumatizzati dal ricordo della prima occupazione, fuggirono dalla fascia costiera verso la Giordania e l’Egitto, per non tornare mai più.
La popolazione di rifugiati di Gaza ha continuato a preoccupare i leader israeliani dopo il 1967. I piani di trasferimento abbondavano. Durante la prolungata occupazione di Gaza – che mise i rifugiati sotto il controllo delle stesse forze che li avevano sradicati due decenni prima – i politici israeliani, in particolare Levi Eshkol e Moshe Dayan, pensarono di trasferire i rifugiati di Gaza in Cisgiordania o nel Sinai, o in un paese arabo del Nord Africa (C’era un altro piano, alla fine respinto in quanto costoso e poco pratico, che avrebbe dovuto spedire i rifugiati in America Latina).
Anche la pace si è rivelata costosa per i rifugiati di Gaza. Gli accordi di Camp David del 1979 hanno chiuso il confine di Gaza con l’Egitto, dividendo le famiglie con il filo spinato, provocando ulteriori spostamenti di popolazione e demolizioni di case lungo il confine appena tracciato e privando i pescatori di Gaza del loro tradizionale accesso alle acque territoriali egiziane. La distruzione degli insediamenti israeliani nel Sinai è stata ulteriormente compensata da un aumento dell’attività di insediamento a Gaza.
Nei due decenni successivi, i diseredati si ribellarono. Nel 1987 scoppiò la prima rivolta palestinese, o Intifada, nel campo profughi di Jabalya a Gaza (soprannominato «Vietnam Camp»), guidata da giovani palestinesi cresciuti sotto l’occupazione israeliana. Nel 2000, Gaza è diventata il campo di battaglia simbolico della seconda Intifada quando, il 30 settembre, a un incrocio vicino al campo profughi di Bureij, il dodicenne Muhammad al-Dura fu ucciso a colpi di arma da fuoco tra le braccia del padre, divenendo l’immagine iconica della rivolta.
Dopo quasi quattro decenni di occupazione prolungata, Israele si è ritirato da Gaza nel 2005, lasciandosi dietro circa un milione di rifugiati accampati. Quando le sue forze militari hanno lasciato la fascia costiera, i leader israeliani erano fiduciosi di aver finalmente nascosto la crisi dei rifugiati di Gaza sotto il tappeto del «disimpegno». Per Israele è stata una vittoria: hanno continuato a controllare i posti di frontiera, lo spazio aereo e le acque territoriali di Gaza e – dichiarando la Striscia «territorio ostile» – hanno continuato a sottoporla a operazioni militari e rappresaglie. Allo stesso tempo, il ritiro di Israele è stato visto come un modo per adempiere ai suoi obblighi nei confronti di Gaza e dei suoi rifugiati.
Negli ultimi quindici anni, Israele ha mantenuto un blocco totale su Gaza, mentre assaltava e razziava regolarmente la sua popolazione, uccidendo migliaia di persone. Bombardati e sotto assedio, i profughi di Gaza, intrappolati e privati della possibilità di fuga, si sono resi conto della profondità della loro tragedia: se c’è una cosa peggiore dello sfollamento, è il non potersi muovere.
«Falciare l’erba»
La politica aggressiva di Israele nei confronti di Gaza negli ultimi sette decenni ha visto lanciare due occupazioni, incursioni e offensive militari senza fine (lo storico francese Jean-Pierre Filiu ha registrato dodici guerre israeliane a Gaza dal 1948) e un assedio di quindici anni. Per le forze di difesa israeliane (Idf) la tattica utilizzata a Gaza consiste nel «falciare l’erba»; L’ex capo dell’esercito israeliano Benny Gantz, riferendosi all’invasione di Gaza da parte di Israele nel 2014, si è vantato di «bombardare Gaza fino a riportarla all’età della pietra».
Israele continua a vedere questo territorio impoverito e impotente come una minaccia alla sua sicurezza e alla sua stessa esistenza che richiede misure straordinarie e sproporzionate. Quando i rifugiati di Gaza hanno organizzato la «Grande Marcia del Ritorno» nel 2018 per commemorare l’anniversario della Nakba, le forze militari israeliane reagirono uccidendo oltre centocinquanta manifestanti e ferendone altri diecimila, inclusi bambini e giornalisti, nell’arco di sei settimane. Un rapporto delle Nazioni unite in seguito concluse che soldati e leader israeliani hanno commesso crimini contro l’umanità e hanno usato intenzionalmente munizioni vere contro i civili.
Abbiamo cominciato con un’amara ironia: Israele ha creato il problema dei rifugiati e ora sta cercando di farlo sparire con le bombe. Eccone un’altra: invece di eliminare la popolazione di rifugiati, le infinite offensive di Israele hanno rafforzato il sentimento di solidarietà tra la popolazione urbana della Striscia di Gaza e quella dei campi profughi. Forse la giustizia è ancora all’orizzonte.
*Seraj Assi ha scritto The History and Politics of the Bedouin. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
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