Harris senza pace
Si sa che un’amministrazione Trump appoggerebbe Israele a qualsiasi costo, ma dalla candidata democratica ci si aspettava di più: una presa di posizione chiara contro la guerra e il genocidio
Proprio prima del famoso passaggio nella sua Critica della filosofia del diritto di Hegel, in cui Karl Marx scrive che «la religione è l’oppio dei popoli», il filosofo di Treviri spiega che essa è «il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di una condizione priva di spirito». Questa definizione calza bene la funzione della religione negli Stati uniti e aiuta a capire come mai il cristianesimo, e quello evangelico in particolare, continui a esercitare una notevole influenza e peso politico.
Questo tipo di cristianesimo, dai toni nazionalisti (il movimento del suprematismo bianco si basa su di esso), è impostato su un’interpretazione letterale del Vecchio Testamento. Nei primi anni del Novecento, i cristiani evangelici bianchi votavano per il Partito democratico; nei decenni successivi, in reazione al movimento per i diritti civili, cominciarono a spostarsi gradualmente a destra, fino a quando Ronald Reagan ne consolidò il supporto per il Partito repubblicano. Nonostante il numero di evangelici non sia aumentato negli ultimi anni, essi non sono certo da sottovalutare. Rappresentano circa il 14% della popolazione e sono molto attivi in alcuni Stati del Mid-west, tra cui il Wisconsin, Michigan e Pennsylvania, e al sud, in Georgia e North Carolina. Da anni sono sostenitori dei molteplici governi di estrema destra israeliani.
È risaputo che Donald Trump sia da sempre un beniamino dei cristiani evangelici e dei suprematisti bianchi. L’attentato alla vita dell’ex presidente lo scorso luglio, ne ha ulteriormente santificato l’immagine. Per il gruppo dei Dilley Meme Team, video creator cristiani evangelici, lui è il Messia martirizzato: un loro video dall’inequivocabile titolo God Made Trump, viene spesso proiettato durante i suoi comizi. Per altri, invece, Trump è l’uomo del destino: rappresenta Ciro II, il Re Persiano che, secondo la Bibbia Ebraica, mise in salvo un gruppo di ebrei permettendo loro di tornare in Palestina. Come Ciro, Trump è il leader autoritario e determinato di cui l’America ha bisogno, l’unico in grado di liberare i cristiani bianchi dai loro oppressori: i liberal, i progressisti, la cosiddetta cultura woke. Un documento, contenuto all’interno della piattaforma repubblicana per la campagna presidenziale in corso, promette addirittura la creazione di una nuova agenzia federale in difesa del nazionalismo cristiano.
Ma lo spirito messianico non si respira solo nei comizi di Trump e intorno alle miriadi di chiese e congregazioni cristiane sparse in giro per il paese. Seppure con toni diversi, Dio è invocato continuamente dai vari politici ed è stato presente, in una forma o l’altra, durante tutta la Convention Democratica di Chicago il mese scorso. A parte i vari «pastori» di professione (cristiani, ebrei, musulmani, ecc.) che hanno elargito le loro benedizioni ecumeniche all’inizio della Convention dei Dems il 19 agosto, la frase «Dio benedica l’America» rimane una delle espressioni più usate dai politici in chiusura dei loro interventi, dal Presidente in carica all’ultimo senatore. La candidata Democratica Kamala Harris lo ha ripetuto ben due volte in conclusione del suo discorso.
Lo stile liturgico dell’evento infatti era sotto gli occhi di tutti: a Chicago l’élite del Partito democratico ha messo in scena un vero e proprio rito di consacrazione di Kamala, Madre- Tostissima-Conduttrice-Onnipotente, presentata, elevata, osannata come colei che risolverà ogni guaio: a casa (la locuzione più usata per riferirsi a questioni di politica interna), con empatia e un po’ di fermezza («mettiamoci al lavoro», ripeteva all’inizio del suo discorso); fuori, con il solito piglio da mastino protettore-esportatore-della-democrazia nel mondo. Quando arriva sul palco, al terzo giorno della Convention, lei è sorridente ma anche impaziente. Mentre il suo sguardo si intenerisce quando parla della madre, la mascella si serra quando guarda dritta davanti a sé nella telecamera per rivolgersi direttamente al mondo: agli alleati, alla Nato, agli autocrati.
La Convention, sapientemente coreografata con un’accattivante, anche se in gran parte prevedibile, colonna sonora (da Neil Young con Rockin’ in the Free World, all’immancabile Bruce Springsteen con Born in the Usa, a Small Town di John Mellencamp, canzone super gettonata nei grandi magazzini nel Mid-west, a Sweet Home Alabama, cavallo di battaglia del rock sudista dei Lynyrd Skynrd, oltre alle canzoni più famose di varie pop star contemporanee, da Cuff It di Beyoncé, a Shake It Off di Taylor Swift) proietta l’immagine di un paese di buoni. Una comunità coesa, inclusiva, dalle «piccole città alle metropoli», dove ognuno si prende cura del proprio vicino: un paese veramente benedetto da Dio. Un paese in cui basterà unirci contro «l’uomo di Mar-A-Lago», come la governatrice del Michigan Gretchen Whitmer ha definito Trump, per batterlo. E così, i buoni vinceranno sui cattivi, il bene trionferà sul male, la libertà allontanerà la tirannia, e il sorriso smagliante di Kamala (al quale Frank Bruni ha addirittura dedicato un simpatico editoriale sul New York Times) sconfiggerà le tenebre.
Ma se a casa siamo tutti buoni, fuori la storia è diversa. Laddove la platea si commuove, giustamente, mentre ascolta i genitori di Hersh Goldberg-Polin, il ragazzo israeliano americano preso ostaggio da Hamas e poi ucciso, o coloro che dal palco raccontano dei propri figli, amici, colleghi, ammazzati nelle varie sparatorie a scuola, da Sandy Hook a Uvalde, pochi sembrano interessati a capire cosa stia veramente succedendo fuori. Fuori dalla bolla della Democratic National Convention: negli slums infernali di Chicago, a pochissimi chilometri dai fasti e luccichii del centro, una delle metropoli più violente del paese; fuori, dove i manifestanti reclamano il cessate il fuoco e l’embargo contro Israele e i parlamentari del gruppo degli uncommitted chiedono invano di salire sul palco; fuori, nel Medio Oriente, dove uno Stato supportato dai contribuenti di questa nazione, occupa e massacra un altro popolo.
Lei, quella che salverà «tutti noi», che riporterà «fiducia», «speranza», «libertà» e «gioia» al paese, assume un’espressione minacciosa, ferma, «presidenziale», quando asserisce «Voglio essere chiara: farò sempre in modo che Israele abbia la capacità di difendersi». Certo, riconosce il fatto che ciò che sta succedendo a Gaza è devastante e che c’è bisogno di un cessate il fuoco per assicurare, prima di tutto, che Israele sia al sicuro, che gli ostaggi ritornino a casa, che la sofferenza finisca e che il popolo palestinese possa vivere in dignità e autodeterminazione. Ma che nessuno ci fraintenda: nulla ci farà indietreggiare dal «sacro obbligo» (così lo definì Biden) di proteggere il nostro più grande alleato. E Netanyahu le fa eco pochi giorni dopo su X quando tuona che Israele è pronto a fare qualsiasi cosa per difendersi e quindi passa ai fatti lanciando l’assalto sulla Cisgiordania. «A chi ci fa del male – lui dichiara – noi faremo del male». «È semplice», conclude.
Della potenza e influenza delle lobby pro-israeliane nella politica e nella società americana, si parla molto. Molto meno, invece, si sa del ruolo della chiesa evangelica nel creare un ricco e sedimentato strato ideologico di fratellanza tra il popolo ebreo e quello cristiano. Il loro supporto per Israele, messo in atto da un vero e proprio movimento di cristiani-sionisti, i cosiddetti Cristiani Uniti per Israele (secondo la National Public Radio circa 10 milioni di persone), da tempo informa e influenza la politica in questo paese. Da decenni, i cristiani evangelici organizzano viaggi in Terra Santa, gruppi di lettura e di esegesi dei rispettivi testi sacri, programmi radiofonici e reportage trasmessi dalle varie «radio di Dio», come si chiamano le emittenti cristiano evangeliche che imperversano in vaste zone del paese, specialmente nel Mid-west e nel Sud, a partire dal Texas. Le chiese evangeliche raccolgono fondi a favore degli insediamenti dei coloni (guai a nominargli l’occupazione dei Territori palestinesi: per loro la West Bank non esiste, si tratta di Samaria e Giudea) e insistono presso i loro rappresentanti a Washington affinché gli Usa continuino a mandare armamenti. Sebbene i viaggi siano diminuiti dal 7 ottobre scorso, molti volontari partono ancora per andare a sostenere i «fratelli» israeliani: cucinando ai soldati, aiutando i coloni a piantare alberi e coltivare gli orti. Questo è un gruppo che va a votare, il cui attivismo ha contribuito a creare quell’humus ideologico, difficile da scalfire, sul quale si è consolidata la vicinanza etno-nazionalista tra cristiani ed ebrei-sionisti.
Si sa che un’amministrazione Trump appoggerebbe Israele a qualsiasi costo, ma dalla candidata democratica ci si aspettava di più: una presa di posizione chiara contro la guerra e il genocidio. Invece, se per caso qualcuno non avesse ancora capito che Harris non cambierà una virgola nel sostegno incondizionato a Israele, il marito si preoccupa di rassicurare alcuni gruppi di elettori ebrei che la moglie supporta Israele, che lui stesso è ebreo e che farà della lotta all’antisemitismo il suo cavallo di battaglia se lei sarà eletta. Purtroppo, si continua volutamente a fraintendere la lotta sacrosanta contro ogni rigurgito antisemita con le legittime critiche allo Stato di Israele.
Seppure la «speranza» sia stata una delle parole chiave della Convention di Chicago, l’ideologia fluida della Harris (così la definiva il Washington Post) è invece rigida e scontata per quanto riguarda la politica estera. La parola «pace», per esempio, non appare mai nel discorso della candidata Dems alla Convention: evidentemente la pace continuerà a non rappresentare una prerogativa della «più grande democrazia al mondo». I tempi cambiano ma la logica rimane quella: buoni a casa, un po’ meno buoni fuori. Ah, e nel caso non fosse chiaro, Kamala avverte che «noi continueremo a proteggere i nostri interessi, a qualsiasi costo. A chi ci colpisce, risponderemo». Lo zelo religioso, questo «sentimento di un mondo senza cuore», è evidente: «che Dio vi benedica – conclude rivolgendosi alla platea in estasi – e che Dio benedica gli Stati uniti d’America!».
*Cinzia Padovani è professore associato presso la School of Media Arts, Southern Illinois University. I suoi interessi accademici si concentrano sulla relazione tra media e potere politico, movimenti sociali e media, comunicazione e attivismo.
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