
I dazi di Trump sono un regalo al capitale
Le barriere tarrifarie che gli Stati uniti vogliono imporre sono una svolta dopo decenni di libero mercato e puntano a proteggere la propria industria manifatturiera. Ma non porteranno nessun vantaggio alla working class
A poche settimane dall’assunzione della presidenza, Donald Trump ha annunciato dazi su Messico, Canada e Cina. È il fulcro di una svolta protezionistica che la Casa Bianca ha pubblicizzato come un modo per sostenere i lavoratori statunitensi.
Nell corso dell’ultimo episodio del podcast di Jacobin Radio, Confronting Capitalism, il redattore di Catalyst Vivek Chibber e la collaboratrice di Jacobin Melissa Naschek hanno discusso di come le politiche commerciali protezionistiche del XIX e XX secolo abbiano aiutato a costruire basi produttive nazionali in tutto il mondo, ma anche perché le tariffe di Trump siano molto diverse. Ma mentre decenni di libero scambio globale hanno contribuito alla deindustrializzazione, i lavoratori molto probabilmente non beneficeranno delle tariffe di Trump.
Cosa sono i dazi e come vengono utilizzati dai paesi capitalisti?
Al livello più elementare, una tariffa, o dazio, è solo un modo per aumentare il prezzo delle importazioni. Le importazioni sono beni provenienti da altri paesi che entrano nel nostro paese. Le tariffe consentono al governo di imporre una tassa su ciascuno di questi beni, in modo che chi importa paghi un prezzo più alto per farli entrare nel paese. Spesso si sente dire che le tariffe aumentano il prezzo delle merci sul mercato e che i consumatori devono pagare di più. Questo è il secondo passo del processo. La persona che deve effettivamente pagare di più è quella che ha effettuato l’ordine di importazione, e quasi mai è un cliente. Si tratta di un rivenditore o di un’azienda.
In che modo i paesi hanno storicamente utilizzato i dazi e altre politiche commerciali protezionistiche come parte delle loro politiche economiche?
I dazi sono utilizzati principalmente per due scopi. Uno, come ho detto, è quello di aumentare i prezzi delle importazioni in modo che diventino più proibitivi a livello nazionale. Ciò comporta due vantaggi. Fornire ulteriori entrate al governo, perché la tassa va a finire nelle casse dello Stato. Negli Stati uniti, fino all’inizio del XX secolo, quasi tutte le entrate del governo provenivano dalle tariffe sulle importazioni perché non esisteva un’imposta sul reddito. Se non si ha un’imposta sul reddito, come si fa a raccogliere denaro? Si tratta di una sorta di imposta sul valore aggiunto, una sorta di imposta sulle vendite, e i dazi essenzialmente un’imposta sulle vendite di beni importati. Il secondo modo in cui i dazi vengono utilizzati è per proteggere l’industria nazionale. Per i paesi in via di sviluppo nel diciannovesimo e ventesimo secolo, una grande funzione aggiuntiva dei dazi era quella di proteggere l’industria nazionale. «Da chi?» è la domanda. Dalle imprese più avanzate e competitive dei paesi che stavano già avviando l’industrializzazione. Nel XIX secolo, fondamentalmente, si trattava dell’Inghilterra. L’Inghilterra è stata la prima potenza industriale e in tutta Europa i governi, per proteggere le loro industrie nazionali, hanno tenuto fuori i prodotti britannici.
Che successo hanno avuto questi sforzi di utilizzare le politiche protezionistiche per far crescere le capacità produttive nazionali?
Molto successo. Non c’è nessun caso a nostra conoscenza di una industrializzazione tardiva vincente – un paese che ha intrapreso l’industrializzazione dopo che altri erano già sulla scena – che sia stato in grado di farlo se non attraverso il protezionismo, cioè qualche tipo di dazio. Il bilancio della protezione tramite tariffe è nel complesso abbastanza positivo. È vero che c’è stata una discreta quantità di sprechi, perché quando si protegge l’industria nazionale dalla concorrenza, si elimina anche l’unico incentivo che ha per essere efficiente. E questo comporta molte inefficienze. Questo è ciò che hanno sottolineato molti economisti neoliberali e di orientamento più classico. Ma l’alternativa è non industrializzarsi affatto, il che è ancora peggio. Si trattava quindi di una sorta di sovvenzione pubblica delle industrie e, sebbene i risultati complessivi siano positivi, non mancano le insidie.
E negli Stati uniti? Hai detto che il protezionismo è la chiave del successo di molte industrializzazioni tardive ma Trump ha fatto riferimento ad esempio a figure storiche come William McKinley, che secondo lui ha utilizzato con successo la politica protezionistica per far crescere l’economia statunitense.
Gli Stati uniti sono un caso interessante. Nel corso del XIX secolo, abbiamo visto che i paesi europei in ritardo sullo sviluppo hanno utilizzato i dazi. Questi variavano dall’8-10% sulle merci straniere fino al 12-18%, con un picco all’inizio del Novecento di circa il 20%.
Per tutto il XIX secolo gli Stati uniti si sono affidati ai dazi, e la cosa interessante è che non costituì un processo unitario. Per tutto il diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo, gli Stati uniti avevano in realtà due economie. C’era un’economia del Sud, che era principalmente agricola e produceva beni primari, come ovviamente il cotone. Poi c’era l’economia del Nord, che era un’economia manifatturiera in rapida industrializzazione. Le due regioni avevano atteggiamenti molto diversi nei confronti dei dazi. Il Nord era molto più impegnato nel protezionismo perché aveva l’industria. E poiché aveva l’industria e voleva promuoverla, il Nord voleva proteggerla dalle importazioni britanniche.
Il Sud era molto meno preoccupato di proteggere la propria industria nazionale, perché ne aveva ben poca. Si preoccupava invece del fatto che, erigendo una barriera tariffaria gli Stati uniti si sarebbero esposti a ritorsioni tariffarie da parte dell’Europa. La preoccupazione era acuta perché dipendeva molto dall’esportazione di cotone in Europa. In ogni caso, il Nord vinse la battaglia sulle tariffe, e qui sta l’aspetto interessante: gli Stati uniti avevano tariffe drogate. Mentre il resto del mondo europeo, il mondo in via di sviluppo, si affidava a dazi del 12-16-18%, le tariffe degli Stati uniti andavano dal 30 al 40%. Il doppio del livello europeo.
Questo riguarda la prima fase di sviluppo del XIX secolo, ma per la maggior parte del XX secolo gli Stati uniti sono stati il portabandiera del libero scambio e della globalizzazione. Perché la recente politica commerciale statunitense ha favorito il libero scambio rispetto ai dazi?
Ogni volta che un paese cambia drasticamente la propria politica commerciale, ciò è legato al posizionamento delle sue imprese nell’economia globale. Finché gli Stati uniti non erano leader nella tecnologia, nell’efficienza e nella produttività manifatturiera, temevano di aprire la propria economia alle importazioni dall’estero e per questo si affidavano ai dazi. Stiamo parlando degli anni che vanno dal 1880 agli anni Venti del Novecento. In quel periodo, le imprese statunitensi crescono rapidamente, ma non sono ancora pronte ad affrontare il mercato globale, né a subire la minaccia delle importazioni straniere. Quindi vendono tutti i loro beni sul mercato interno. Avevano un vantaggio: un’economia di dimensioni continentali e, dopo gli anni Settanta del XIX secolo, l’economia del Nord in forte crescita quindi con un mercato dei prodotti manifatturieri cresciuto molto rapidamente. Si trattava di una manna dal cielo per le imprese americane, perché non dovevano fare affidamento sulle esportazioni verso l’estero per realizzare i loro profitti, ma contare su un mercato interno in rapida crescita.
A partire dagli anni Trenta, iniziano le pressioni per cambiare radicalmente la posizione sul commercio, e Franklin Delano Roosevelt è di fatto il braccio politico di questo cambiamento. Le imprese in rapida crescita, altamente produttive e competitive, costituiscono la base economica di una nuova coalizione politica che cerca di mettere in atto un programma di commercio più libero – non dico libero, ma più libero. Questo è ciò che è rimasto in vigore dal 1945 in poi, il suo fondamento economico.
Con una sostanza politica: i leader della classe capitalista americana e i leader dell’élite politica erano convinti che uno dei fattori che avevano portato a due guerre mondiali in rapida successione, in particolare la Seconda guerra mondiale, fosse la frammentazione del mondo in blocchi commerciali, organizzati attorno a potenze capitalistiche in diverse parti del mondo, e queste erano tutte potenze imperiali.
L’Inghilterra aveva un proprio blocco imperiale coloniale in cui commerciava in modo particolarmente stretto con le proprie colonie. La Francia aveva il suo. Il Giappone aveva il suo. E poiché gli interessi economici erano racchiusi all’interno di questi blocchi imperiali, ognuno riteneva di non avere nulla da perdere o guadagnare nelle evoluzioni di ogni altro blocco. E quindi si poteva entrare in guerra con ognuno di loro, tanto non si avevano investimenti in quei paesi, non si commerciava con loro, non c’era in ballo della manodopera, non si dipendeva da loro per i propri profitti.
Gli Stati uniti hanno allora pensato che, per lo sviluppo della redditività del proprio capitalismo, avessero bisogno di un ordine politico globale stabile. La stabilità si sarebbe ottenuta abbattendo tutte queste barriere al commercio e agli investimenti, creando così una reciprocità di interessi tra le economie più avanzate, che non solo avrebbe permesso alle imprese americane di andare nel mondo e conquistare i mercati, ma avrebbe anche minato o almeno attenuato la tendenza alla competizione economica tra gli Stati-nazione che stava portando alla guerra politica e alla competizione politica.
Si cercava di creare un ordine economico integrato in modo da avere una situazione politica pacifica utile alla creazione dei profitti. Questa è stata la scelta politica fondamentale. Lo Stato americano si è assunto la responsabilità, per così dire, di creare un ordine politico globale stabile per l’accumulazione del capitale e l’avanzamento dei profitti.
Se si guarda alla nostra economia di oggi, la cosa più importante di cui parla Trump quando parla di dazi è il deficit commerciale e il fatto che i posti di lavoro nel settore manifatturiero statunitense stanno andando all’estero. Pensi che i dazi che Trump sta perseguendo saranno efficaci per invertire queste tendenze e rivitalizzare l’industria manifatturiera statunitense?
Sono molto scettico. Non vedo la possibilità di rivitalizzare l’industria manifatturiera affidandosi ai dazi. C’è un’asimmetria nell’uso di questi tra i paesi poveri che si stanno industrializzando e i paesi già industrializzati. L’asimmetria è questa: i paesi poveri non ancora industrializzati cercano di entrare nei mercati globali e il governo cerca di creare uno spazio per loro, in modo che possano agire di propria volontà. Alcune di queste industrie avranno successo, altre no. Quelle che non ce la fanno sono alla base degli sprechi che si producono con la sostituzione delle importazioni.
Quello che sta accadendo nei paesi più avanzati è un po’ diverso: quello che si sta cercando di fare ora non è tanto creare uno spazio per gli entusiasti che entrano nel mercato globale, ma di convincere le imprese, che hanno optato per investimenti in settori diversi da quelli che si sta cercando di promuovere, a invertire quelle decisioni di investimento. In sostanza, hanno deciso che non vogliono stare in certi mercati e gli si chiede di tornare in quei mercati. Ora, questo è anche possibile, ma non accadrà solo grazie alle tariffe, perché magari esistevano buone ragioni per spostarsi verso nuove linee e nuovi settori.
I dazi non fanno altro che creare prezzi più alti, una tassa sulle merci in arrivo. Ci sono due questioni in gioco. Uno è che, se le tariffe vengono applicate ai paesi, l’unico modo in cui proteggono e creano uno spazio per l’industria nazionale è che il paese colpito dalle tariffe sia l’unico fornitore dei beni di cui si parla.
Prendiamo le automobili: supponiamo di imporre una tariffa sulle auto cinesi che entrano negli Stati uniti. Questo promuoverà l’industria americana? No, perché in questo modo si dà un vantaggio alle case automobilistiche giapponesi, tedesche e coreane. Sono ancora lì e, se sono più efficienti delle industrie statunitensi, questo dà loro libero accesso ai mercati. Quindi, prima di tutto, perché la barriera tariffaria protegga effettivamente l’industria statunitense, non può essere applicata ai paesi, ma ai prodotti. Quindi bisogna sostituire la tariffa anti-Cina con una tariffa sulle automobili. Ciò significa che si colpiranno diversi paesi, non solo la Cina. In sostanza, una tariffa sulla Cina è un regalo a chiunque sia il miglior concorrente in quel mercato da cui la Cina è stata estromessa. Potrebbero essere gli Stati uniti, ma probabilmente non lo saranno, perché se così fosse non ci sarebbe bisogno delle tariffe.
In secondo luogo, e credo sia altrettanto importante, i capitalisti prendono le loro decisioni di investimento in base alla loro valutazione di quale sarà il settore più redditizio. Questo può coincidere o meno con la valutazione dello Stato su quali siano i settori ad alta priorità. Così lo Stato potrebbe imporre una tariffa sulle automobili, ma il capitale americano potrebbe pensare che la strada da percorrere sia quella dell’esplorazione petrolifera, non quella delle automobili. Ciò significa che se sono più interessati, ad esempio, alle industrie pesanti come l’acciaio, si può aumentare la tariffa, ma questo non attirerà i capitalisti in quella linea a meno che non vedano una redditività garantita o comunque probabile.
I paesi che hanno utilizzato le tariffe nel Sud globale lo hanno capito e quindi nel XX secolo non hanno mai fatto affidamento sulle tariffe. Hanno invece integrato le tariffe con una strategia industriale, con sforzi positivi non solo per creare uno spazio per i capitalisti, ma anche per convincerli o incentivarli con misure aggiuntive a entrare nei settori che lo Stato considerava ad alta priorità.
Se Trump vuole davvero rivitalizzare il settore manifatturiero, dovrà invertire decenni di investimenti fatti nei servizi, nelle banche e nella finanziarizzazione in generale. Per invertire questi decenni di investimenti in altre linee, dovrà integrare i dazi con massicci investimenti pubblici per creare una sorta di attrazione magnetica per gli investitori privati, oppure dovrà fornire ogni sorta di incentivo positivo o negativo ai produttori affinché seguano il suo esempio.
È estremamente improbabile che la semplice imposizione di dazi possa far tornare i produttori, soprattutto con un piccolo dazio del 10% sulla Cina, che non servirà a nulla. La produttività cinese sta avanzando così velocemente che probabilmente possono ridurre i loro prezzi di almeno il 5% e mangiarsi il restante 5%, se non addirittura ridurli del 10%.
Per quanto riguarda la coalizione organizzata da Trump per conquistare la presidenza, e in particolare il fatto che gli elettori della working class sembrano essersi spostati in modo significativo verso di lui, si tira spesso in ballo la politica commerciale e il sostegno ai dazi. La sinistra dovrebbe quindi sostenerli? Davvero potrebbero andare a favore della working class?
Non c’è una posizione stereotipata sui dazi. Sono uno strumento di politica e il modo in cui influenzano gli interessi delle persone dipende molto da come vengono effettivamente istituiti.
I dazi sono in primo luogo un regalo al capitale. Quando viene istituito un dazio e si libera uno spazio per la propria industria nazionale per proteggerla, ciò che si sta facendo è consentire di realizzare più facilmente profitti. Perché ciò che viene temuto è la concorrenza estera e i concorrenti più produttivi della concorrenza estera, e sostanzialmente si sta dicendo loro, terremo fuori i vostri rivali più produttivi e più temibili, e creeremo maggior spazio per farvi andare bene. Quando si libera il capitale dalle pressioni della concorrenza equivale a fornire loro un sussidio che arriva dai lavoratori.
Quel sussidio arriva in due modi. In primo luogo, consentendo al capitale di applicare prezzi più alti, e applicare prezzi più alti significa che i lavoratori rinunciano all’opportunità di acquistare beni più economici dalla concorrenza estera dei capitalisti, e invece acquistano beni più costosi dai produttori nazionali. Questo è un favore che i lavoratori stanno facendo al capitale. In secondo luogo, si consente, per definizione, alle aziende meno produttive di sopravvivere sul mercato. Le aziende meno produttive possono quindi permettersi di dare salari più bassi. I salari devono sempre scontrarsi con il tetto della produttività. Se la tua azienda ha una produttività inferiore, ha anche un tetto più basso per i salari che può pagare. Ciò significa che stai anche intrappolando i tuoi lavoratori in aziende a bassa produttività.
Quindi questi perdono due volte. Pagando prezzi più alti per i beni ed essendo bloccati in aziende a bassa produttività. Sono due favori al capitale. Lo Stato sta ottenendo entrate, sì, ma ancora una volta, come userà quelle entrate? A meno che il lavoro non abbia già potere, quelle entrate potrebbero benissimo andare in pagamenti alle aziende private, in sussidi, in più tagli fiscali per loro. Quindi, di per sé, una tariffa non è progressiva.
A difesa delle tariffe, dal punto di vista del lavoro, c’è l’argomento che aiutano a creare posti di lavoro. Anche questo non è vero. Se crea posti di lavoro, creerà posti di lavoro in aziende a bassa produttività e questo aumento sarà per un piccolo numero di lavoratori rispetto all’impatto inflazionistico che la working class nel suo insieme sta affrontando. Ma poi c’è anche un terzo problema: a meno che lo Stato non intervenga attivamente per assicurarsi che le aziende con profitti più alti li reinvestano in quelle linee che lo Stato ha ritenuto appropriate, si potrebbe non avere alcun aumento di posti di lavoro. Le aziende infatti potrebbero utilizzare quei maggiori profitti per delocalizzare oppure per investirli in linee produttive che non costituiscono la priorità. Alla fine, si sono dati enormi quantità di denaro ai capitalisti, ma quel che fanno con quei soldi è completamente fuori dal tuo controllo.
Quindi, nella migliore delle ipotesi, ciò che possiamo dire è che i dazi sono il primo passo verso il reshoring, verso la reindustrializzazione. Ma anche se si reindustrializza, anche se si rilocalizza, lo Stato deve assicurarsi che le sue aziende utilizzino tecniche adeguate di riferimento e non approfittino dei mercati protetti, che diano in qualche modo potere ai lavoratori e alle lavoratrici e che i nuovi posti di lavoro paghino salari dignitosi.
Una volta che ti rendi conto, e questo è il punto chiave, che i dazi sono un enorme regalo pubblico alla classe capitalista, tutti i dazi dovrebbero essere accompagnati da condizioni. Dovrebbero essere accompagnate, prima di tutto, da un set complementare di tecniche e strumenti per spingere il capitale a investire nel modo in cui tu vuoi che lo faccia.
Così potrebbero essere sostenuti dalla sinistra. Altrimenti, si tratta solo di aiutare i datori di lavoro a spese dei lavoratori. Fino a quando non sappiamo quale equilibrio possa emergere, la posizione della sinistra dovrebbe essere che non abbiamo interessi da difendere in questa lotta. Altrimenti, saremo bloccati con prezzi più alti, salari reali più bassi, nessuna promessa di reshoring, nessuna promessa di reindustrializzazione, e profitti gratuiti consegnati da noi.
*Vivek Chibber è professore di sociologia alla New York University. È editor di Catalyst: A Journal of Theory and Strategy. Melissa Naschek fa parte dei Democratic Socialists of America. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è cura della redazione.
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