I falsi amici del Green New Deal
Era noto come la proposta di Alexandria Ocasio-Cortez e dei socialisti Usa vicini a Sanders. Con la deflagrazione del movimento del Climate Strike, il Green New Deal è finito sulla bocca di tanti. Ma qualcosa non torna
In linguistica si parla di «falsi amici» quando due parole o due frasi, pur presentando una notevole somiglianza fonetica, hanno significati divergenti. In questa rivista abbiamo analizzato a più riprese le «parole contese», sorte da lotte e movimenti sociali e depoliticizzate dal discorso mainstream con l’obiettivo di farne perdere il senso e piegarle a un altro significato. È successo per parole come Cambiamento, Beni comuni, Reddito, Democrazia diretta… Oggi è il turno di Green New Deal.
Fino a qualche mese fa era conosciuta come la proposta della più giovane deputata della storia degli Stati Uniti, Alexandria Ocasio-Cortez, e dei socialisti statunitensi vicini a Bernie Sanders. Improvvisamente, insieme alla deflagrazione del movimento del Climate Strike, Green New Deal è espressione sulla bocca di tanti, compresi governi di diversi colori. Il «Decreto Clima» appena partorito dall’esecutivo Conte è stato presentato da Luigi Di Maio niente di meno che come «un primo passo verso il Green New Deal». Nel momento dell’annuncio della composizione della nuova Commissione europea la presidente designata Ursula Von der Leyen ha dichiarato: «Voglio che il Green Deal diventi l’elemento distintivo dell’Europa». Pochi giorni prima i giornali di tutto il mondo raccontavano del «Green New Deal di Angela Merkel» con un pacchetto di misure per il clima di 54 miliardi di euro spalmati in quattro anni.
La proposta di Alexandria Ocasio-Cortez, fin dal nome, evoca un cambio di paradigma di politica economica. Il New Deal di Franklin Delano Roosevelt nacque dal timore dello scoppio di una vera e propria rivoluzione, vista la conflittualità sociale negli Usa degli anni Trenta seguita agli effetti della crisi del ‘29 e al fascino dell’alternativa socialista in Russia. Proprio per questo – pur con limiti storicamente evidenti – propose un cambio di politica economica, passando dalle ricette liberiste a quelle di forte intervento pubblico proposte da John Maynard Keynes. Su questa scia, il Green New Deal di Ocasio-Cortez non è una semplice proposta tematica. Si rifiuta di isolare le crisi che il sistema produce e propone di affrontare l’emergenza ambientale con un cambiamento economico e sociale radicale, che parta dall’assunto che non possa esserci giustizia climatica senza giustizia sociale. Una delle principali critiche è che non sia una misura per il clima ma una lunga «lista dei desideri», dal momento che il testo avanza, oltre a misure per ridurre le emissioni, ai finanziamenti per le energie rinnovabili e per l’efficientamento energetico, un vasto elenco di obiettivi sociali. Ma questa è esattamente la sua forza: qualsiasi proposta «green» in continuità con le politiche liberiste degli ultimi decenni non può avere alcuna relazione con quell’idea e quel nome. Su questo i socialisti americani sono chiari: «Austerity significa Estinzione».
Il governo della nuova alleanza tra Pd e M5S non solo non mostra alcuna intenzione di abbandono delle politiche di austerity degli ultimi decenni, ma ha varato un provvedimento poco più che insignificante. Per decenza, non bisognerebbe nemmeno affiancare la parola «clima» a quel decreto, vista la dimensione delle questioni che bisognerebbe prendere di petto per fronteggiare l’emergenza climatica. La cifra stanziata è risibile: 450 milioni di euro. L’importo finanzia unicamente incentivi fiscali per i commercianti che vendono prodotti sfusi, copre le spese di un piccolo buono mobilità per chi rottama l’automobile o la moto, prevede un fondo per il potenziamento delle corsie preferenziali per il trasporto pubblico. Al momento non c’è traccia di quello che dovrebbe essere almeno l’inizio di un programma verso la fine delle emissioni: il taglio ai finanziamenti diretti e indiretti per la produzione e il consumo dei combustibili fossili che – secondo i dati di Legambiente – in Italia ammontano a 18,8 miliardi di euro l’anno. In pratica lo stato finanzia i combustibili fossili con una cifra 40 volte superiore a quella prevista nel cosiddetto «Decreto clima».
Anche se parliamo di un investimento più rilevante, sono poca cosa anche i 54 miliardi di euro previsti per i prossimi quattro anni dal governo Merkel. Per avere un termine di paragone, Bernie Sanders in occasione della campagna per le primarie, ha fatto sapere di prevedere per il Green New Deal un investimento complessivo di 16.300 miliardi di dollari, di cui 2.400 per le energie rinnovabili. Il resto servirebbe a finanziare i settori del trasporto, della ricerca, del lavoro e i vari comparti interessati alla decarbonizzazione. Si tratta di un obiettivo economico da finanziare con un intento radicalmente redistributivo: eliminando tutti i sussidi alle industrie dei combustibili fossili, tassando fino al 75% i super-ricchi e introducendo la tassa sulle transazioni finanziarie, riducendo del 25% la spesa militare e infine incassando le entrate fiscali generate dai 20 milioni di nuovi posti di lavoro creati dalla riconversione ecologica.
Angela Merkel – come del resto Ursula Von Der Leyen – non ha inoltre nessuna intenzione di mettere in discussione i dogmi dell’austerity. Anzi, nel momento dell’annuncio del «Piano per il clima» li ha paragonati per importanza agli sforzi per salvare il pianeta: «Il Piano – ha dichiarato – sarà a zero deficit: anche questo equilibrio di bilancio lo dobbiamo alle prossime generazioni». Le misure prevedono che nei prossimi anni chi farà benzina, prenderà l’aereo o riscalderà la propria casa con fonti fossili pagherà un prezzo più alto. Questi stessi rincari sulle emissioni di CO2 dovranno garantire le entrate necessarie a finanziare gli incentivi a chi ristruttura la propria casa aumentandone l’efficienza energetica, a chi acquista auto elettriche, e per abbassare il costo del biglietto dei treni. «Chi inquina paga»: è questo l’unico principio su cui si basa il piano, delegando alla legge della domanda e dell’offerta ogni speranza di salvare il pianeta.
Eppure il caso del conflitto tra il presidente francese Emmanuel Macron e il movimento dei Gilet Gialli avrebbe dovuto insegnare qualcosa. L’aumento del costo del carburante che gravava sulle tasche di lavoratori e lavoratrici pendolari ha prodotto un semplice ed eloquente slogan rivolto al presidente: «Tu pensi alla fine del mondo, noi pensiamo alla fine del mese». L’approccio mercatista non funziona perché aggredisce in modo diseguale chi subisce la crisi climatica e chi l’ha creata per arricchirsi. Il cambiamento radicale di cui c’è bisogno riguarda anche le abitudini individuali di tutti noi, e pensare di ottenerlo senza intervenire profondamente sulle diseguaglianze sociali ed economiche non è solo ingiusto, è anche illusorio.
Se il 71% delle emissioni industriali è prodotto da sole 100 aziende e enti statali in tutto il mondo, non si può dire genericamente che il disastro climatico dipenda dall’attività umana. Come scrive Naomi Klein nel suo ultimo libro Il mondo in fiamme, il Green New Deal «non può essere win-win, cioè favorevole per tutti. Perché funzioni le major dei combustibili fossili, che hanno ricavato osceni profitti per decenni, dovranno iniziare a rimetterci. E perdere qualcosa di più di semplici facilitazioni fiscali e dei sussidi a cui sono abituate».
Per abbassare le emissioni con la rapidità e l’efficacia che serve, c’è bisogno di una vasta trasformazione industriale, urbanistica e infrastrutturale. Occorre cambiare radicalmente come le nostre società producono energia, come coltiviamo e alleviamo il nostro cibo, come ci spostiamo, come sono costruiti i nostri palazzi e come sono pensate urbanistica e infrastrutture. Per questo appare falso amico sentir parlare di Green New Deal e contemporaneamente sostenere le «grandi opere» inutili e imposte, come fa la ministra delle infrastrutture Paola De Micheli.
La proposta di Ocasio-Cortez è radicalmente differente da quelle che stiamo sentendo dalle nostre parti, ma per rafforzarsi deve tenere conto anche di alcuni falsi amici interni alla sua stessa logica.
Il primo lo sottolinea ancora Naomi Klein nel suo libro: il paragone insistito dei socialisti statunitensi con lo sforzo bellico – suggestivo non solo in relazione all’investimento economico ma anche alla rapida necessità di riconversione industriale e cambiamento delle abitudini individuali – può scoprire il fianco a chi ha interesse a trasformare «lo stato d’emergenza in stato d’eccezione», permettendo una Shock economy climatica agilmente utilizzabile da potenti interessi economici, già dimostratisi abili nello sfruttare il panico per imporre lucrose false soluzioni arretrando i diritti sociali.
Il secondo falso amico interno alla proposta è il capitalismo globale: tradizionalmente, le ricette keynesiane hanno funzionato in ambiti economici nazionali chiusi e scontano evidenti difficoltà nell’attuale contesto di ipercompetizione globale. E di per sé non mettono in discussione il modello di produzione e di crescita capitalistico che, direbbe Marx, tende a «esaurire le uniche due fonti di tutta la ricchezza: la terra e il lavoratore».
L’antidoto è concentrarsi sui «veri amici»: i movimenti sociali scesi in piazza in questi mesi sono l’opportunità per spingere in avanti gli obiettivi dello stesso Green New Deal, per monitorare ogni tentativo di semplice greenwashing, per imporre un metodo democratico nei territori di implementazione delle politiche necessarie a fronteggiare l’emergenza e per immaginare pratiche collettive che sappiano prefigurare un altro modello produttivo.
*Giulio Calella è cofondatore e direttore generale di Edizioni Alegre.
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