
I Fought The Law (And I Won)
L'incredibile storia raccontata in prima persona di come un attivista riuscì a imbrigliare la corte nel corso di uno dei processi di cinquant'anni fa contro Angela Davis
Era il 1971 e, essendo giovane, single, attivista politico e newyorkese, non stavo mai nella mia casa al terzo piano al Greenwich Village se non per dormire. Una notte di marzo, la mia vicina di casa si affacciò dal suo appartamento per dirmi nervosamente che «agenti federali» mi avevano cercato per tutto il giorno.
Non riuscivo a capire perché i federali volessero parlarmi, ma ho pensato che non potesse essere niente di buono. Quindi, la mattina dopo, ho preparato un paio di cose e mi sono trasferito per alcuni giorni nell’appartamento vuoto di Susan Sontag all’Upper West Side.
Susan e io eravamo diventati amici intimi dopo essere stati invitati all’Avana per le celebrazioni del decimo anniversario della Rivoluzione Cubana, nel 1969. Non avevo neanche lontanamente la sua potenza di fuoco intellettuale – non molti l’avevano – ma mi confrontavo con lei nei dibattiti politici, e lei era divertita, stupita e incuriosita dal fatto che fossi un vero comunista statunitense. Inoltre, avevo senso dell’umorismo – anche riguardo al partito – e un’inclinazione anti-autoritaria. In parte quell’anno viveva a Parigi, così qualche volta stavo nel suo appartamento.
Stavo lavorando (in qualche modo) alla American Documentary Films – distributore e produttore di una manciata di film contro la guerra, antirazzisti e a favore dell’ambiente per chiese, scuole e università – che era a pochi passi da casa sua. Un paio di giorni dopo l’avvertimento della mia vicina di casa, stavo camminando lungo la West End Avenue per andare a lavorare dall’appartamento di Susan. All’Ottantottesima strada, un’auto mi tagliò la via. Ne uscirono due uomini per consegnarmi un mandato di comparizione. Si scoprì che dovevo essere un testimone dell’accusa nel processo intentato dagli Stati uniti contro David Poindexter. David era un amico, era stato arrestato al Times Square Howard Johnson Hotel con Angela Davis, che aveva accompagnato durante il suo volo in California.

L’incontro con Angela Davis
Avevo incontrato Angela per la prima volta nel 1962. Aveva diciotto anni ed era venuta a nord da Birmingham (conosciuta, dopo l’omicidio del Ku Klux Klan nel 1963 di quattro ragazze nere che frequentavano la scuola domenicale presso la 16th Street Baptist Church, come Bombingham) per studiare, prima alla Elizabeth Irwin High School nel Greenwich Village e poi alla Brandeis University. Lei e un’amica d’infanzia, Harriet Jackson, avevano fatto domanda ed erano state accettate per far parte del contingente statunitense di 450 membri al Festival Mondiale della Gioventù di Helsinki quell’anno. Ero l’organizzatore del contingente statunitense, con un ufficio in Lower Park Avenue. Jim Jackson, il padre di Harriet e leader del Partito comunista, era venuto in ufficio e mi aveva incoraggiato a prendermi cura di sua figlia e della sua amica Angela.
Sette anni dopo, in quel viaggio all’Avana dove ci incontrammo con Susan, i cubani mi chiesero di mettere su un gruppo di giovani comunisti per visitare Cuba, fare un giro dell’isola, e magari lavorare per una settimana nei campi di canna da zucchero per vedere da vicino le vite dei comuni cubani sotto la rivoluzione. I cubani e io ci intendemmo sul fatto che sarebbe stata una delegazione «non ufficiale», non una delegazione del Partito comunista, poiché io avrei selezionato i partecipanti, non il partito. All’epoca, i partiti cubano e statunitense si parlavano a malapena.
Le mie selezioni per il gruppo provenivano principalmente da due fonti: membri del Che-Lumumba Club, sezione del Partito comunista della California meridionale, e i miei compagni di squadra delle partite di softball di Central Park contro la squadra della delegazione cubana alle Nazioni unite. Il Club Che-Lumumba era composto da giovani compagni afroamericani che lavoravano a stretto contatto con il Black Panther Party, anche se non sempre erano in sintonia con le loro posizioni.
Angela, assistente professore di filosofia all’Ucla, aderiva al club. Si era unita a quel giovane contingente comunista non ufficiale che andò a Cuba e tagliò la canna da zucchero. Solo più tardi ho capito che il nostro contingente era il prototipo della Brigata Venceremos, contingenti di giovani dagli Stati uniti che si recavano a Cuba per lavorare nell’agricoltura e nell’edilizia insieme ai lavoratori cubani, sfidando le politiche statunitensi nei confronti di Cuba e i quasi sessant’anni di embargo contro di loro (La cinquantesima brigata è andata a Cuba nel 2019. Complessivamente, alle brigate hanno partecipato circa diecimila cittadini statunitensi).
Avevo incontrato per la prima volta David Poindexter a New York nello stesso periodo. Ci eravamo conosciuti tramite Charlene Mitchell, un’amica di lunga data di David fin dalla loro giovinezza a Chicago. Charlene si era trasferita a Los Angeles da giovane e lì era diventata una leader del Partito comunista; in seguito venne a New York per dirigere la Black Liberation Commission. Grazie al suo lavoro nel Partito, Charlene aveva aiutato a dirigere il Che-Lumumba Club, che, per caso, era diretto da Franklin Alexander, fratello di Charlene e mio buon amico dai tempi della California.
Questi divennero gli attori centrali nel dramma che seguì alcuni anni dopo, nel 1970, quando Angela divenne la «donna più ricercata» dell’Fbi in seguito alla sparatoria di Jonathan Jackson al Marin County Civic Center. Il fratello maggiore di Jonathan, George Jackson, era un leader del Black Panther Party e acclamato scrittore nella prigione di San Quentin, era vicino ad Angela. Molte delle pistole usate da Jonathan nel tentativo fallito di liberare suo fratello, che aveva comportato l’uccisione di un giudice al centro civico, erano state legalmente registrate e date in licenza ad Angela, per la quale Jonathan a volte fungeva da sicurezza (la sua vita era costantemente minacciata a seguito degli attacchi dell’allora governatore Ronald Reagan nei suoi confronti).
Franklin e sua moglie, Kendra, erano i più stretti confidenti e compagni di Angela. Charlene era il loro capo. David era il cavaliere con armatura scintillante (anche se travestito), e io ero un buon amico che li poteva osservare da vicino. L’incarico di Angela all’Ucla era stato interrotto quando il governatore Reagan aveva denunciato la sua appartenenza al Partito comunista e chiesto ai dirigenti dell’università di licenziarla. Aveva venticinque anni. Dato l’odio del governatore nei suoi confronti e la guerra federale totale contro le Pantere e i loro sostenitori, Angela era fuggita dalla California con David Poindexter. David, che non era un membro del Partito e in fondo non era così politicizzato, rischiò la vita per aiutarla.

Dopo aver evitato l’arresto per quasi due mesi, Angela e David alla fine furono catturati a New York, in un hotel vicino a Times Square. David venne trattenuto in attesa di processo a Tombs, il carcere maschile di Manhattan. Per un paio di settimane, mentre combatteva una battaglia persa contro l’estradizione in California, Angela fu rinchiusa nella Casa di detenzione delle donne del Greenwich Village, a pochi passi dal mio appartamento. Passavo regolarmente davanti alla squallida prigione di dodici piani, in mattoni rossi, che aveva ospitato Ethel Rosenberg, Billie Holiday, Dorothy Day e decine di migliaia di donne povere, stanche e affamate di New York.
Il Greenwich Village rappresentava l’America alienata e decadente, e tradizionalmente fungeva da rifugio per i rifugiati dalla vita ottusa della classe media. Ma dalla Casa di Detenzione delle Donne, le urla e le grida dei prigionieri trafiggevano quotidianamente l’autocompiacimento del quartiere. Qua e là, sparsi sul marciapiede, c’erano pezzi di carta – infilati nelle sbarre della prigione e caduti sotto – con messaggi sulle condizioni della prigione. Segnalavano normalmente pidocchi, scarafaggi, topi e ratti. La dieta era priva del minimo essenziale nutrizionale, un detenuto trovava occasionalmente una coda di topo mescolata al suo pasto serale.
Angela alla fine mise insieme una brillante squadra di avvocati difensori criminali in California. A New York, prima della sua estradizione, i suoi avvocati erano John Abt, consigliere capo del Partito comunista, e Margaret Burnham, un’altra delle amiche d’infanzia di Angela, che in seguito sarebbe diventata la prima giudice donna afroamericana del Massachusetts e professoressa di legge della Northeastern University.
Attraverso John e Margaret, fui in grado di ottenere di far visita ad Angela in prigione, sia come amico che per intervistarla per la rivista Ramparts. Era consuetudine che i parenti e gli amici dei detenuti cominciassero a mettersi in fila fuori dal carcere un paio d’ore prima dell’apertura dei cancelli. Quando quelli in fila intorno a me seppero che ero lì per visitare Angela, mi chiesero di esprimerle il loro sostegno. Una donna afroamericana di mezza età, un’infermiera, disse: «Se non la tireremo fuori, per come stanno andando le cose, finiremo tutti dietro quelle sbarre».
Nei due mesi tra la sua scomparsa in California e l’arresto a New York, la posizione, i pensieri e i piani di Angela erano stati oggetto di molte speculazioni nei media e per strada. Quando lei e David furono catturati, le congetture raggiunsero proporzioni galoppanti. David, descritto abitualmente dalla stampa come un «uomo misterioso», fu incriminato per aver ospitato un criminale latitante federale.

Mentre Angela restò in carcere, David venne rilasciato su cauzione di 100 mila dollari pagata da sua madre in Florida. In un’intervista, mi disse: «Perché all’improvviso sono un uomo misterioso? L’Fbi mi ha controllato per anni e la polizia di Chicago mi conosce abbastanza bene da tenermi sotto controllo quando i presidenti vengono a Chicago… Non so chi è il criminale che avrei aiutato. Non sono stato visto con il senatore [segregazionista] [James] Eastland del Mississippi o con un generale del Pentagono. Di sicuro, Angela non è una criminale».

Poi ripercorse il periodo che lo aveva portato all’arresto:
J. Edgar Hoover ha ovviamente deciso di dare una lezione esemplare ad Angela e ha scatenato tutte le forze al suo comando. Se ci fossimo fermati non avremmo avuto alcuna agibilità. Non è così facile evitare l’arresto come dicono alcune persone, in particolare quando la tua foto è sulla copertina di ogni rivista del paese, sui quotidiani della televisione nazionale e così via. Va ricordato che non avevamo piani precostituiti. Le accuse contro Angela arrivarono come un fulmine a ciel sereno, quindi la reazione doveva essere pianificata giorno per giorno… Il punto è che Angela Davis era innocente; non c’era premeditazione, quindi non poteva esserci una predeterminazione.
David continuò,
Angela era stata oggetto di un anno di molestie e, a volte, intimidazioni fisiche. Questo è importante da ricordare. Quindi la morte di Jonathan Jackson rappresentò per lei una profonda perdita personale. Il periodo della cosiddetta fuga serviva a raccogliere le forze per la lotta futura. Angela non aveva intenzione di consegnarsi a coloro che avevano giurato di «catturarla». È incredibile quante persone dopo l’arresto si sono messi a voler fare i registi; a migliaia hanno offerto ‘consigli’ col senno di poi come se avessero accumulato anni di esperienza. La gente vuole sapere perché siamo stati trovati da Howard Johnson. Be’, non eravamo nel ghetto perché la ricerca era concentrata nei ghetti di tutto il paese. Sappiamo che centinaia di donne nere somiglianti ad Angela sono state catturate… Quando Angela mi ha chiesto di aiutarla, ero dannatamente felice di obbedire. E va precisato che in effetti siamo sfuggiti alla rete a strascico per due mesi.
Questi estratti dalle conversazioni con David, furono pubblicati su Ramparts nell’introduzione alla mia intervista con Angela alla Casa di detenzione delle donne, sono stati ciò che ha portato i commissari federali a citare in giudizio me per comparire come testimone dell’accusa contro David nel suo processo.

L’unica accusa contro David era di aver nascosto consapevolmente una latitante federale. Non c’era alcun indizio che avesse partecipato alla sparatoria al tribunale della contea di Marin. Come ha detto il giudice John Cannella alla giuria alla fine del processo, «il vero punto cruciale di questo caso» era stabilire se David fosse stato a conoscenza dei mandati d’arresto federale nei confronti di Angela. «Se viene fuori che l’imputato era a conoscenza solo delle accuse statali, bisogna assolverlo».
David non aveva mai detto a nessuno di esserne a conoscenza. Nessuno glielo aveva mai sentito dire. Ovviamente sapeva che Angela era ricercata dalle autorità della California. Ma questo era un processo federale, e l’accusa doveva dimostrare che era a conoscenza di un mandato federale. L’unica prova nei suoi confronti era l’intervista che gli avevo fatto. Ero un testimone dell’accusa, ma non avrei mai testimoniato contro David, sarebbe stato più probabile che il presidente Nixon mi avesse nominato nel suo gabinetto. Non sarebbe successo, ma non sapevo in che modo sarebbe avvenuto. Non sono mai stato qualcuno che asseconda comandi o richieste ostili. Se qualcuno mi dice che è ora di lasciare i locali, il mio impulso iniziale è di cercare la sedia più vicina per mettermi comodo.
Ma ora stavo per affrontare un pubblico ministero federale in tribunale, avendo giurato di dire la verità, tutta la verità, e nient’altro che la verità. Questo era motivo di preoccupazione. Così mi consultai individualmente con Charlene Mitchell della Black Liberation Commission del Partito, che stava organizzando il National United Committee to Free Angela Davis; John Abt, il principale consigliere del Partito; e Mary Kaufman, un altro avvocato del Partito che aveva prestato servizio come pubblico ministero ai processi di Norimberga contro i criminali di guerra nazisti. Avevo bisogno di un consiglio: come evitare di testimoniare contro David?
Ognuno di loro disse sostanzialmente la stessa cosa: dovevo prendere posizione e dire la verità. David sapeva cosa stava facendo e quali potevano essere le conseguenze; non aveva senso che io andassi in prigione per oltraggio alla corte. Rimasi deluso nel sentirglielo dire. Volevo consigli su come sfidare l’accusa, non su come sottomettermi. Quindi dovetti fare affidamento sul mio dito medio nei confronti del governo, e non avevo idea di come sarebbe andata a finire finché non mi sono messo al posto del testimone per prestare giuramento. Dovevo essere il quarantaquattresimo testimone dell’accusa, la ciliegina sulla torta. O, per meglio dire, il lucchetto sulla bara di David.
Contro la Corte
I quarantatré testimoni che mi precedevano erano agenti dell’Fbi e sceriffi federali che erano stati sulle tracce di Angela e David, gli impiegati dei motel in cui avevano soggiornato, dipendenti dell’autonoleggio e simili. Il giudice Canella, nelle sue istruzioni alla giuria alla fine della mia testimonianza, disse che avrebbero potuto condannare David se avessero trovato prove circostanziali sufficienti di una «alta probabilità» che fosse a conoscenza di un mandato federale per Angela. L’ampio elenco di testimoni dell’accusa doveva servire a mostrare che queste prove indiziarie erano sufficienti.
Prima delle istruzioni del giudice, Stanley Arkin, l’avvocato di David, nella sua discussione finale disse alla giuria: «Nessun testimone ha detto che David fosse a conoscenza del mandato. Non hanno niente in mano, solo congetture». Ecco perché l’accusa era intenzionata a farmi salire sul banco dei testimoni: la mia era l’unica testimonianza potenziale che non sarebbe stata una semplice speculazione.
Dopo aver prestato giuramento, dissi che ero un giornalista e, abbastanza generosamente, un «produttore cinematografico» (Naturalmente, ero la cosa più lontana, diciamo, da Louis B. Mayer. Come accadeva per gli altri dello staff di American Documentary Films, mi pagavano uno stipendio che avrebbe fatto vergognare un francescano). Poi iniziò un minuetto a tre tra il pubblico ministero, il giudice e me che sembrò protrarsi all’infinito. Andò così – direttamente dalla trascrizione del tribunale – con una miriade di variazioni essenzialmente sullo stesso tira e molla:
SIGNOR DOYLE (IL PUBBLICO MINISTERO): Ora, in questo momento ricorda le dichiarazioni che il signor Poindexter le ha fatto nel corso delle [vostre] conversazioni
TESTE: Non proprio.
MR DOYLE: Le mostro l’Allegato 91 del governo [l’intervista a Ramparts] e le chiedo se le rinfresca il ricordo delle dichiarazioni fatte da David Poindexter…?
TESTE: No, non è così.
Dopo alcune obiezioni dell’avvocato di David, rigettate dal giudice,
LA CORTE: Rilegga la domanda al teste. A quanto pare ci sta ancora pensando o qualcosa del genere. Non so cosa.
TESTE: Pensando.
LA CORTE: Sta pensando. Bene.
Mi viene letta la domanda a proposito di cosa ricordo.
TESTE: È davvero molto difficile per me rispondere. Davvero non ricordo: non ho un ricordo a sé stante.
LA CORTE: Senta, lei si occupa di linguaggio, scrive, fa il giornalista. Ora, quando le viene posta una domanda qui, ascolta la domanda e o risponde alla domanda sì, e lo fa, o no, e non lo fa, o non lo so.
TESTE: Ecco, la risposta è non so.
LA CORTE: Solo un minuto, aspetti che le venga posta la domanda e poi può rispondere.
Leggono la domanda.
TESTE: Non lo so.
A un certo punto, le domande vertono sul se e quando ho preso appunti nelle mie conversazioni con David.
TESTE: Sono davvero imbarazzato, ma davvero non lo so.
LA CORTE: Quando scrive qualcosa non cerca di mettere giù per chi legge quelli che lei stesso considera i fatti per come li conosce?
TESTE: Sono molto imbarazzato.
LA CORTE: Può essere imbarazzato quanto vuole, ma risponderà a questa domanda, o sta dicendo a questa giuria che scrive qualcosa quando non ne sa nulla e non è sicuro che quello che scrive sia vero o no?
TESTE: A volte lo faccio.
LA CORTE: Lo fa a volte?
TESTE: Sì.
Se fossi stato un direttore di giornale seduto in aula ad ascoltare la mia testimonianza, avrei pensato: «Che schifo. Questo ragazzo pensa di essere un giornalista? È uno scemo». Mi andava bene.
Dopo diversi batti e ribatti, dopo un discorso a margine del pubblico ministero, dell’avvocato difensore e del giudice, durante il quale Arkin disse di opporsi «a continuare a interrogare questo testimone sul suo ricordo che è già stato vagliato».
LA CORTE: Se si tratta di una richiesta e di un’obiezione, l’obiezione è respinta e la richiesta è respinta.
SIGNOR DOYLE: Quando questa storia [era] sulla macchina da scrivere, signor Myerson, proprio in quel momento si stava apprestando a scrivere ciò che l’imputato Poindexter le aveva detto quando le aveva parlato?
TESTE: [L’] Articolo è stata scritto in gran fretta parzialmente per telefono con la redazione di San Francisco e non ricordo.
LA CORTE: Solo un minuto. Azzeri tutto. Le suggerisco che invece di spiegare perché può o non può rispondere a una domanda, risponda alla domanda, se è sì, se è no o se non lo sa. Leggettegli la domanda e sentiamo la risposta.
La domanda viene letta.
TESTE: Non lo so.
Sulla sedia del testimone, ero essenzialmente seduto proprio accanto al giudice. Ma percependo la frustrazione nella sua voce, non lo guardavo. Concentravo la mia attenzione sul pubblico ministero. Gli era stato assegnato questo incarico schiacciante dopotutto, David era stato arrestato insieme ad Angela, le loro foto erano sulle prime pagine di tutto il mondo – e ora stavano interrogando questo sciocco che stava essenzialmente dicendo al mondo che era il giornalista più inetto, se non senza scrupoli, del paese. Avrebbero preferito strozzarmi piuttosto che interrogarmi.
Poi giunse lo scambio seguente.
MR DOYLE: Ora, come giornalista, qual è la sua prassi riguardo alla scrittura di articoli? Normalmente si concentra sulle sue capacità di scrivere o ricorda davvero quello che le è stato detto?
TESTE: Dipende dal tipo di storia.
MR DOYLE: In quanto giornalista, di solito scrive un resoconto veritiero di ciò che le è stato dettto; è la sua pratica normale?
TESTE: Dipende anche dalla storia.
Se avessi pisciato sul piede del pubblico ministero, non sarebbe stato più sconcertato. E il giudice era sempre più agitato.
MR DOYLE: Stava cercando di scrivere un resoconto non veritiero di ciò che le è stato detto dal signor Poindexter?
LA CORTE: Ha già risposto a questa domanda e non credo che ci aiuterà perché penso che la sua risposta sarà la stessa, quindi non vedo alcun motivo per farlo rispondere allo stesso modo. Sono più vicino a lui e lo ascolto meglio. Essenzialmente non so cosa sto ascoltando, ma sono più vicino.
Potreste, entrambi gli avvocati, venire qui di lato? Perché questo valzer potrebbe andare avanti all’infinito.
Al lato, il signor Arkin chiese una dichiarazione di annullamento del processo a causa dei «commenti di Vostro Onore secondo cui non sapete cosa state ascoltando». Al che il giudice replicò: «Va bene, va bene e la mozione è respinta». Quindi, il giudice chiese al pubblico ministero di mostrarmi l’articolo di Ramparts e l’interrogatorio tornò in mano al pubblico ministero.
MR DOYLE: Ha scritto le parole che sono indicate tra parentesi, signore?
TESTE: Davvero non ricordo. Non posso dirlo con certezza.
LA CORTE: È questo il suo articolo?
TESTE: Sì.
LA CORTE: Quella è la sua firma?
TESTE: Sì.
LA CORTE: E ci sta dicendo ora che non sa se questo ha a che fare con l’articolo che ha scritto, è questo che sta dicendo?
TESTE: È nell’articolo, ma non so se l’ho scritto io.
LA CORTE: È la sua firma?
TESTE: Ho cercato di spiegare prima, signore, che parte di esso è stato scritto nell’ufficio di San Francisco dai redattori.
LA CORTE: Usando la sua firma.
TESTE: È una pratica molto frequente, pratica comune.
LA CORTE: Ma lei sta dietro la sua firma, no?
TESTE: Quello è il mio nome.
LA CORTE: Che senso ha metterci la sua firma se non riguarda lei e riguarda qualcuno della redazione di San Francisco, me lo può dire?
TESTE: Questo è un problema che noi autori abbiamo sempre con gli editori.
Dopo diversi minuti di questo, il pubblico ministero chiese la parola, ma il giudice lo zittì.
LA CORTE: Ha affermato fin dall’inizio che non può riconoscere questo articolo perché non sa cosa è stato detto a lei e cosa è stato detto a quelli di San Francisco. È una versione corretta della sua testimonianza?
TESTE: La prima parte, non la seconda.
LA CORTE: Cosa intende per «prima parte»?
TESTE: Che non riesco a riconoscere quel testo.
LA CORTE: Può riconoscere qualcosa in questa roba?
TESTE: Lei era stato preciso su questo.
LA CORTE: Cosa c’era di impreciso in quello che ho detto?
TESTE: Non lo so – non ho nessun tipo di ricordo su cosa lì dentro corrisponda al vero e cosa [non lo sia]. Non ho appunti di quel periodo.
Ormai il pubblico ministero era uno spettatore confuso, e il giudice era incazzato. Dopo qualche altro minuto di scemo e più scemo, il pubblico ministero cercò di entrare in una domanda.
LA CORTE: A questo ha già detto ‘No’.
MR DOYLE: Credevo volesse che ponessimo questa domanda, Vostro Onore.
LA CORTE: Chiariamo questo fatto: non mi interessa cosa chiede al signor Arkin. Mi regolo in base alla domanda. Non potrebbe importarmi di meno di quello che chiede, quindi non mi dia alcun ruolo di comando. Non sto dirigendo niente.
L’accusa era alla deriva, disse che non aveva ulteriori domande. L’avvocato di David disse che non doveva fare un controinterrogatorio e venni licenziato dal banco dei testimoni. Non avevo idea di cosa avrei fatto o detto quando mi ero messo sulla sedia del testimone per la prima volta. Mio fratello maggiore ha avuto una carriera di grande successo dirigendo, producendo e insegnando teatro di improvvisazione. Quel pomeriggio avrei potuto renderlo orgoglioso.
Me ne andai dal tribunale e tornai a casa per cucinare la cena e rilassarmi. Più tardi quella notte, il telefono squillò. Era David. «Sei stato fantastico, amico. Ce l’abbiamo fatta. È finita e io sono libero. Andiamo a bere».
*Michael Myerson è un autore e attivista da sempre per i diritti civili, la pace e i diritti dei lavoratori. Vive nella valle dell’Hudson. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
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