I gilet gialli contro il presidente dei ricchi
La Francia non è nuova alle proteste di massa. Ma il movimento dei “gilet gialli” che sta bloccando le strade del paese rappresenta un inedito fronte di lotta contro il presidente neoliberale Emmanuel Macron
Lo scorso fine settimana più di 300mila persone sono scese in strada – e in autostrada – in tutta la Francia manifestando, disturbando il traffico e bloccando le arterie per protestare contro l’aumento del costo del carburante. Uniti dalla rabbia e dal crescente costo della vita, hanno risposto alla chiamata dei social media per “bloccare il paese” e manifestare solidarietà indossando “gilet gialli”, un indumento che gli automobilisti sono obbligati a indossare in caso di incidente.
La mobilitazione è scemata dopo sabato 17 novembre, il primo giorno, quando secondo il ministro dell’interno 290 mila persone hanno preso parte a più di 2 mila blocchi e cortei in tutto il paese. Nonostante gli appelli a mantenere alta la pressione, appena in 46 mila hanno partecipato domenica e 20 mila lunedì. Comunque, il movimento non pare affatto morto. I manifestanti si stanno organizzando per un corteo nella capitale per sabato prossimo. “Atto secondo: da tutta la Francia a Parigi”, promette l’evento Facebook.
L’establishment politico si è fatto trovare impreparato. Il primo ministro Edouard Philippe, appartenente al partito del presidente Macron En Marche, ha promesso che non abrogherà l’aumento programmato della tassa sulla benzina così criticata dai manifestanti. Ma ha anche detto di comprendere le “sofferenze” della gente. Nel suo stile caratteristico, Macron non si è ancora espresso sull’argomento, dicendo che lo farà soltanto “a tempo debito”.
Anche la sinistra è stata colta di sprovvista. Nonostante sindacati e partiti di sinistra fino a questo momento abbiano sostenuto la maggior parte delle proteste sotto la presidenza Macron, sono stati dati per dispersi o ridotti a ruolo di sostenitori di minoranza dei “gilet gialli”. Nessuna delle grandi confederazioni sindacali ha sostenuto la protesta. Non lo hanno fatto neppure i principali partiti, dai socialisti ai Verdi fino a France Insoumise. Il leader di questi ultimi, Jean-Luc Melenchon, ha offerto il suo personale sostegno sostenendo che “la gente ha ragione a ribellarsi”. Lo stesso ha fatto l’estrema destra: personaggi come Marine Le Pen del Rassemblement National (il partito un tempo noto come Front National) e Nicolas Dupont-Aignon di Debout la France, un sedicente sovranista che sarebbe stato primo ministro se Le Pen l’anno scorso avesse vinto le elezioni presidenziali.
Le proteste sono confuse e rischiose. La loro forma di base – la gente si mette in mezzo alla strada e cerca di fermare il traffico – invita allo scontro e a volte anche peggio. Il ministro dell’interno ha contato 500 feriti. Una manifestante anziana è stata uccisa dopo essere stata investita da una donna nel panico che stava portando sua figlia ad un ambulatorio medico.
Rabbia dal basso
Forse l’elemento più rilevante di questo movimento sono le sue origini genuinamente di base. La destra mainstream di Les Républicains così come l’estrema destra del Rassemblement National e Debout la France hanno stampato manifesti e volantini di appoggio al movimento, facendo appello alla difesa degli “automobilisti”, ma sembrano aver poco a che fare con l’attuale direzione delle proteste. In mancanza di leader formali o portavoce, questo movimento è nato online.
A maggio, Priscilla Ludosky, pendolare e impiegata di banca trentatreenne, ha lanciato una petizione su Change.org chiedendo la diminuzione del costo della benzina ai distributori. Poco dopo due camionisti hanno lanciato un appello per una manifestazione nazionale per il 17 novembre, creando una pagina Facebook per un “movimento nazionale contro l’aumento delle tasse”. “Non siamo anti-ecologisti”, ha detto uno di loro in un video. “Questo è un movimento contro una tassa abusiva, punto”.
Questi due appelli sono diventati virali, per una ragione molto semplice: il costo della benzina in Francia è andato alle stelle nel corso dell’anno passato. Molti automobilisti francesi usano il diesel, il cui prezzo è cresciuto del 23 per cento negli ultimi dodici mesi fino a 1,51 euro al litro, raggiungendo un picco massimo dall’inizio degli anni 2000, secondo quanto afferma l’agenzia Afp. In più, il governo ha tirato avanti con le tasse sul carburante – parte del suo programma sull’ambiente – che hanno alzato il prezzo del diesel di 7,6 centesimi al litro e della benzina di 3,9. Nel gennaio 2019 si prevede un incremento ulteriore di 6,5 centesimi sul diesel e di 2,9 centesimi sulla benzina.
Questi aumenti si sono sentiti pesantemente nelle zone rurali e in quella che viene definita Francia periurbana, la parte esterna agli agglomerati cittadini del paese. Il peggioramento della qualità del trasporto pubblico – e dei servizi pubblici – in queste zone contrasta palesemente con la solida rete su ferro e gomma di Parigi, alimentando un senso di risentimento culturale condiviso da molti manifestanti.
Molti di quelli che indossano i “gilet gialli” sono parte della classe lavoratrice: un mix di lavoratori a basso salario, pensionati e disoccupati. Tra di essi ci sono persone come Bertrand Rocheron, quarantenne con tre figli che attualmente lavora part-time come assistente scolastico e pendola per 70 chilometri al giorno dalla sua casa nella rurale Bretagna. “La mia paura più grossa è che la mia auto si rompa, è alla fine dei suoi giorni”, dice ai giornali locali. Altri appartengono più solidamente al ceto medio: manager di medio livello o colletti bianchi come Nathalie, psichiatra cinquantunenne nella Parigi suburbana che guadagna poco sopra il minimo richiesto per il sussidio di stato. Ha detto al quotidiano Le Parisien di sentirsi come “decaduta nello status sociale”, nonostante abbia investito cinque anni in studi universitari.
È eloquente il fatto che il sito nazionale dei blocchi non ha una pagina con le rivendicazioni. I manifestanti sono uniti più da quello a cui si oppongono che dalle cose che sostengono, e anche quello non è particolarmente articolato. C’è la sensazione che i prezzi del carburante siano fuori controllo, che il sistema fiscale in generale sia ingiusto e che ciò stia impedendo alla gente perbene di fare la vita che gli piacerebbe condurre.
Una giusta causa?
Il sommovimento ha generato paragoni con le pesanti jacqueries della Francia medievale, ribellioni rurali disorganizzate e di corto respiro che seminarono pochi risultati politici. Altri hanno tracciato parallelismi con i poujadisti, un movimento anti-tasse che negli anni Cinquanta venne diretto dagli elementi più reazionari della borghesia francese.
Altri hanno paragonato i “gilet gialli” al Tea party statunitense sotto la presidenza Obama. Questo sembra particolarmente scorretto. Come ha sostenuto Alexis Spire, sociologo e autore di un libro recente sulle rivolte antifiscali in Francia, i “gilet gialli” non chiedono allo stato di uscire dalla vita civile. Gli stanno chiedendo di agire in modo più equo, e stanno scendendo in strada per rispondere alle prestazioni decrescenti del servizio pubblico. A volte, sono state espresse posizioni di classe più chiare: alcuni manifestanti hanno criticato il governo per aver difeso la tassa sul carburante, che colpisce i ceti medi e bassi, e allo stesso tempo sostenuto l’abrogazione della tassa sulla ricchezza, che si applica solo su quelli che dichiarano un patrimonio di più di 1,3 milioni di euro.
Non si capisce ancora se i “gilet gialli” si dimostreranno un movimento duraturo contro un governo sempre più impopolare, o se si riveleranno un fuoco di paglia. Per adesso, molti a sinistra sono intenti a scansare del tutto le proteste, respinti dalla ostilità verso le tasse e la regolazione ambientale o dalla simpatia che hanno raccolto presso l’estrema destra. Queste riserve sono comprensibili. Tuttavia forse non vale la pena consegnare il dibattito nazionale senza colpo ferire a Le Pen e a mostri imprenditori della paura come lei.
Dal canto loro, ai leader del Rassemblement National questa sembra un’occasione di visibilità, così tanto da, pare, mettere da parte la loro storica avversione verso proteste di piazza e disobbedienza civile. Se il partito sta facendo un’eccezione per i “gilet gialli”, è per il fatto che la rivolta pare incarnare il loro elettorato idealizzato: una “Francia dimenticata” di lavoratori e bianchi di ceto medio-basso che vivono al di fuori delle principali aree urbane e che vogliono punire le elites parigine. Il sostegno del Rassemblement National al movimento, a dispetto dei violenti scontri con la polizia, sta anche in netto contrasto con la loro storica venerazione di legge e ordine. Il partito critica regolarmente il minimo uso della forza da parte dei manifestanti di sinistra contro le restrizioni della legge. E quando i lavoratori in sciopero bloccarono le strade, giusto l’anno scorso, i vertici del partito non esitarono a condannarli e accusarli di danneggiare i normali pendolari.
Sarebbe un’onta terribile consentire che il Rassemblement National e i suoi alleati definiscano i termini di questo dibattito. In fondo, la ragione di questo conflitto è chiara: non si tratta di aree rurali e suburbane contro Parigi o di contrapporre ambientalisti a pendolari. Il vero obiettivo di questa lotta è un governo che si occupa dei francesi più ricchi e ignora chiunque altro sia stato messo da parte.
*Cole Stangler, giornalista, vive a Parigi e scrive di politica e lavoro. Ha collaborato con International Business Times e In These Times, e pubblica anche su VICE, the Nation, e Village Voice. Qui l’articolo originale su jacobinmag. Traduzione di Giuliano Santoro.
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