
I latinoamericani, il Partito democratico e Bernie
La storia delle comunità latine negli Stati uniti, e il loro essere poco organiche alla storia dei democratici, ci aiuta a capire perché si siano mostrate particolarmente ricettive al messaggio di Sanders
Nel corso delle primarie per la nomination democratica di quest’anno, il consenso di Bernie Sanders ha ruotato intorno a due categorie demografiche principali: giovani e latini. Volendo essere precisi, va detto che i due segmenti spesso si sovrappongono, essendo l’età media tra i latinoamericani nel paese molto bassa. Eppure le ragioni di questa ondata di preferenze ispaniche, l’unica vera svolta in positivo per il senatore del Vermont rispetto al 2016, sembrano avere radici ben più profonde del semplice dato anagrafico.
La storia delle comunità latine negli Stati uniti è una storia di esclusione che ha origine intorno alla metà del diciannovesimo secolo, con la guerra messicano-americana. Un’analisi degli sviluppi e delle ripercussioni di questa marginalizzazione, che ha attraversato tutto il Novecento fino ai giorni nostri, appare tanto più interessante se si considera che i latinoamericani sono al momento la prima minoranza del paese e dal punto di vista strettamente elettorale rappresentano un blocco che difficilmente può essere ignorato.
Questa circostanza interessa soprattutto i democratici, che sembrano intenzionati in maniera sempre crescente a costruire lo zoccolo duro del proprio consenso attorno alle componenti non bianche della società americana, ma a guardar bene è anche una questione più generale, relativa al coinvolgimento di un gruppo di persone enorme, che tradizionalmente ha sempre votato poco e che una volta coinvolto nel processo politico non potrà che alterarne drasticamente le dinamiche complessive.
Ma quindi perché Bernie Sanders? E perché i latini si sono dimostrati così ricettivi al messaggio del senatore nativo di Brooklyn quando un’altra grande minoranza, gli afroamericani, lo ha respinto in maniera inequivocabile?
Come detto, è una questione che va presa alla larga. Il 2 febbraio del 1848 gli Stati uniti firmarono il trattato di Guadalupe Hidalgo, che poneva fine alla guerra con il Messico andata in scena nei due anni precedenti. L’accordo certificava l’annessione di alcuni territori del Sudovest, che oggi corrispondono grosso modo agli stati del Nevada, California e Utah – più porzioni significative di Colorado, New Mexico e Arizona. Il trattato, inoltre, avrebbe dovuto garantire ai messicani che abitavano quei territori tutti i diritti di base che si accompagnano all’acquisizione della cittadinanza statunitense. Ma diciamo che non andò esattamente così.
Come scrive lo storico Paul Ortiz nel suo libro An African American and Latinx History of the United States, «in risposta alla possibilità che i latini diventassero cittadini, gli stati in questione approvarono misure che impedivano alla popolazione messicano-americana e ai loro discendenti di acquisire una cittadinanza piena, di fatto condannandoli al ruolo di outsider permanenti. Gruppi di vigilanti bianchi armati presero ad aggredire queste comunità, linciarne i membri, e sottrarre loro la terra di cui erano legittimi proprietari». Lungo la storia degli Stati uniti scene simili si ripeteranno senza soluzione di continuità, a dimostrazione del fatto che la natura di queste manifestazioni di violenza è tutt’altro che occasionale, ma ha caratteristiche pienamente sistemiche.
Negli anni Venti, quasi tutti i coltivatori statunitensi pensavano che non esistessero braccianti migliori dei messicani, perché ogni volta che si azzardavano a chiedere salari più alti o condizioni d’impiego più dignitose, bastava la semplice minaccia della deportazione a farli tornare nei ranghi. Mario Barrera, professore emerito in Studi Etnici all’Università della California di Berkeley, ha ricostruito come nel corso della prima metà del ventesimo secolo i lavoratori chicani ricevessero paghe nettamente inferiori rispetto ai loro omologhi bianchi in quasi tutti i grandi settori industriali e non: agricolo, minerario, ferroviario, edile e anche nei trasporti. Le difficoltà che le comunità ispaniche hanno da sempre incontrato negli Stati uniti sono una dimostrazione plastica di come spesso classe, razza e immigrazione si sovrappongano in un unico macro tema. E la storia del Bracero Program è probabilmente una delle manifestazioni più lampanti in questo senso.
Nel 1942 gli Stati uniti firmarono con il Messico il Mexican Farm Labor Agreement, lanciando così il programma. In pratica il paese centroamericano accettava di fornire forza lavoro a basso costo per il settore agricolo statunitense, mentre il governo di Washington, a corto di manovalanza a causa della guerra, s’impegnava a garantire ai lavoratori messicani condizioni di vita decorose e un minimo salariale di 30 centesimi l’ora, oltre ovviamente all’esenzione dal servizio militare.
La realtà delle cose però si dimostrò da subito ben diversa. Le condizioni lavorative erano tutt’altro che accettabili e le paghe non sempre corrisposte. In generale i braccianti non avevano alcun controllo sui termini del loro impiego e anche qui la deportazione veniva spesso usata come deterrente a qualunque iniziativa di tipo sindacale (che comunque gli sarebbe stata preclusa per legge). Il Bracero Program fu cancellato nel 1964, dopo anni di controversie intorno al fatto che questa mole gigantesca di braccianti arrivati da fuori avesse un effetto negativo su condizioni e salari dei lavoratori statunitensi. Nonostante nel 2018 uno studio pubblicato sull’American Economic Review abbia dimostrato che l’impatto sulla forza lavoro locale fu pressoché inesistente, e che i salari dei lavoratori agricoli americani non aumentarono dopo la fine del programma, è impossibile non sentire in tutte le discussioni che circondarono questo passaggio della storia dei latinoamericani negli Stati uniti l’eco di argomenti e polemiche in voga ancora oggi.
In estrema sintesi, possiamo dire che la condizione generale delle comunità ispaniche statunitensi non sia mai stata troppo dissimile da quella proprio dei neri. E in quest’ottica non è un caso che Ortiz abbia sovrapposto in un unico libro, raccontandole in parallelo, queste due storie non ufficiali del paese, spesso tagliate fuori o distorte dai resoconti istituzionali. Come gli afroamericani, i latini hanno sempre dovuto lottare, di frequente inascoltati, per i diritti più basici. Ma con una grande differenza.
La schiavitù e la guerra civile, due momenti fondanti della storia americana, hanno fatto sì che il frame della questione razziale negli Stati uniti si sia sviluppato su un canale esclusivamente binario: bianchi da una parte e neri dell’altra. Le ragioni dietro a questa schematizzazione così rigida sono per lo più ideologiche, come spiega bene Ed Morales nel suo saggio Latinx, The New Force in American Politics and Culture: «A causa dell’ideologia razziale dell’ipodiscendenza (una singola goccia di sangue nero fa di te un nero), che ha impedito nel tempo il riconoscimento ufficiale di ogni elemento misto nella conversazione nazionale, o nei media, o anche nel senso comune, le componenti ibride della cultura americana sono sempre state oscurate». E manco a dirlo, anche questo approccio è da ricondurre a motivazioni economiche che hanno origine all’epoca della schiavitù. Secondo molti storici, infatti, la riduzione delle categorie razziali ai soli bianco e nero, che si affermò negli Stati uniti intorno alla metà del diciannovesimo secolo, era motivata dalla necessità per i proprietari di schiavi di mantenere un margine di profitto che fosse il più alto possibile.
Ma la cultura latinoamericana è – sin dalle sue origini europee – mista per costituzione e in questo rigido schema binario ha sempre faticato a trovare posto. La Spagna, che oggi ci appare come un paese quasi esclusivamente bianco, ha in realtà una lunga storia di contaminazioni, essendo passata da secoli di dominio islamico alla conquista del nuovo mondo. Sempre Morales la definisce «il crocevia dell’identità europea, lo spazio dove colonizzatore e colonizzato si sono sovrapposti». E questa impostazione è arrivata fino in America Latina, altro universo ibrido per eccellenza, la cui definizione razziale è sempre passata per termini – mestizo, mulato – che descrivono la coesistenza di elementi diversi. Ritornando al contesto nordamericano, a tutto questo va aggiunto che le principali comunità ispaniche negli Stati uniti (messicani, portoricani, cubani, salvadoregni, dominicani) hanno storie molto diverse tra loro e gli è per natura impossibile presentarsi – ma anche solo percepirsi – come blocco unico. Nel tempo questo background ha avuto un impatto considerevole sulla capacità dei latini d’inserirsi nel dibattito pubblico statunitense, con tutto quello che ne è derivato in termini di rappresentanza e scarsa partecipazione al voto.
Gli afroamericani stanno invece al polo opposto dello spettro identitario, come evidenziato anche dalle proteste di quest’ultimo mese: hanno una forte coscienza di sé prima di tutto come comunità, ma poi conseguentemente anche come soggetto politico. E pure questo dipende, almeno in parte, dallo schema binario di cui sopra. La storia degli Stati uniti ha messo i neri al centro della narrazione nazionale, sebbene ovviamente con un ruolo a uso esclusivo dei bianchi. I latini invece da questa narrazione sono sempre stati esclusi.
Se guardiamo al Partito democratico e all’impalcatura del suo consenso, questa dinamica si rivela in tutta la sua evidenza, come hanno dimostrato proprio le ultime primarie. Almeno finché la gara è stata competitiva, Sanders ha conquistato il voto latino quasi ovunque e spesso con ampi margini: dal Nevada (+34% su Biden) agli stati con le più alte percentuali d’ispanici in ballo durante il Super Tuesday (Texas +21%, California +30% e Colorado +17%). Questi risultati non sono un caso. Puntare sulle comunità latinoamericane è stato fin dall’inizio uno dei cardini della strategia del senatore e il suo staff ha lavorato lungo tutto il ciclo elettorale di conseguenza.
Già per costituzione la campagna di Sanders si prestava particolarmente ad attrarre gli ispanici, essendo costruita intorno a proposte pensate per tutte quelle fasce di popolazione ai margini dello spettro sociale: la copertura sanitaria universale, il salario minimo fissato a 15 dollari l’ora e la promozione di leggi che facilitino il lavoro dei sindacati. Stesse solo qui il punto, però, questi temi avrebbero dovuto sollecitare anche l’elettorato afroamericano, che con quello latino condivide tassi di povertà molto alti, un accesso alla sanità precario e una lunga storia di discriminazioni a livello di mercato del lavoro. E invece la comunità nera, come nel 2016, si è mostrata piuttosto fredda nei confronti del senatore del Vermont.
Allora, cosa ha fatto la differenza? Be’, proprio la diversa posizione che i due gruppi occupano all’interno della narrazione nazionale in generale e di quella dei democratici in particolare. Sanders, che si è candidato per la nomination in opposizione ai valori tradizionali del partito, ha attratto i latini proprio perché loro di questa tradizione non hanno mai fatto parte – al contrario degli afroamericani, che sono invece senza dubbio la minoranza più organica agli ultimi sessant’anni di storia dem e che infatti lo hanno vistosamente respinto, preferendogli un candidato come Joe Biden, che a questa storia è come loro profondamente legato.
Certo, come ogni comunità di grandi dimensioni, anche i latini non vanno considerati un monolite. Buona parte del discorso appena fatto non si applica per esempio ai cubano-americani, che per ragioni legate alla storia recente del loro paese d’origine hanno inclinazioni più conservatrici rispetto alla media degli altri gruppi ispanici. E non va dimenticato nemmeno come sin dai tempi di Nixon ci sia un 30% circa di latinoamericani che vota quasi immancabilmente repubblicano, confermato persino nel 2016 con Trump. Ma all’interno dell’elettorato democratico le ultime primarie hanno indubbiamente evidenziato una tendenza, tanto più significativa se consideriamo che proprio questo blocco orientato più a sinistra rimane comunque maggioritario.
Eppure, nonostante l’entusiasmo nei confronti di Sanders, anche durante questo più recente passaggio elettorale, la partecipazione dei latini è stata limitata, a ulteriore conferma di come il loro processo d’inclusione, che pure ha subito un’impennata nel corso degli ultimi anni, sia tortuoso e vada pensato sul lungo termine. Anche perché, come abbiamo visto, un eventuale successo in questo senso dovrà passare necessariamente per una ridefinizione dei valori portanti della società americana, in direzione di un più profondo multiculturalismo che crei spazio di rappresentanza anche per le componenti più sfumate del quadro sociale.
*Mario Aloi si occupa di Stati uniti per Esquire e Rolling Stone.
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