I migranti ci aiutano casa nostra
Per la propaganda delle destre i migranti sono un "costo" che lo stato italiano non si può permettere. L'analisi dei dati mostra chiaramente come i cittadini stranieri contribuiscano al bilancio dello stato molto di più di quanto ne usufruiscano
L’immigrazione è ormai una materia molto vasta di discussione e i suoi aspetti economici vengono trattati dalla propaganda xenofoba per tentare di dimostrare che gli immigrati rappresentano un costo e non un beneficio per la finanza pubblica, soprattutto nell’utilizzo dei servizi di welfare.
Per i paesi anglosassoni non è un dibattito recente. I primi studi significativi possono essere considerati quelli condotti negli Stati uniti nel corso degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, quando il Congresso degli Stati uniti nominò una Commissione per la riforma dell’immigrazione, la quale chiese all’Accademia Nazionale delle Scienze di esaminare l’impatto fiscale complessivo del fenomeno. I risultati sono contenuti in un rapporto curato dai professori Smith ed Edmonston. (J.P. Smith e B. Edmonston, The New Americans: Economic, demographic and fiscal effects of immigration, Washington DC, National Academy Press, 1997). Nella difficoltà di esaminare dati per l’intero territorio federale, gli autori si concentrarono su due stati ad alta intensità di migranti: California e New Jersey. Emersero così importanti differenze: una famiglia media di immigrati riceveva 3.463 dollari di spesa pubblica annui in California, mentre solo 1.484 dollari annui nel New Jersey. Le ragioni di queste differenze risiedevano nella struttura demografica e negli schemi di welfare: in particolare la popolazione straniera della California era più giovane e più povera e aveva più bambini dipendenti dai sussidi pubblici. È importante notare che i maggiori trasferimenti pubblici a favore degli immigrati erano determinati quasi esclusivamente dal settore dell’istruzione. La ricerca stabilì che in una prima fase i costi degli immigrati superavano i loro contributi, ma che dopo due decenni di permanenza negli Usa il rapporto si rovesciava e l’impatto fiscale diveniva positivo soprattutto nei casi di maggiore istruzione. Una seconda importante scoperta dello studio fu che lo scarto tra guadagno fiscale a livello federale e perdite a livello dei singoli stati (California e New Jersey) era destinato ad aumentare nel tempo. Ciò è dovuto al fatto che i servizi forniti a livello federale (Usa) sono servizi il cui costo non aumenta con l’immigrazione (perché destinati prevalentemente alla popolazione anziana), mentre molti servizi pubblici usati dagli immigrati, come la scuola, negli Stati Uniti sono strutturati a livello locale.
Nel Regno Unito troviamo l’altro esempio di ricerca sul tema direttamente promosso dalle istituzioni: il ministero dell’interno pubblicava pochi anni dopo una ricerca (C. Gott e K. Johnston, The migrant population in the UK: fiscal effects, London, Home Office, 2002), condotta tra il 1999 ed il 2000, che individuava uno scarto positivo del 10% tra benefici e costi degli immigrati (rispetto ad un 5% per i nativi). I ricercatori notavano come si trattasse di anni in cui il bilancio britannico si trovava in attivo. Nel 2005 l’Institute for Public Policy Research (Ippr) produceva stime aggiornate, basate su un metodo simile e calcolando per il periodo 2003/2004 un contributo per il 10% alle entrate dello Stato a fronte di un 9,1% di spese. Questi risultati venivano però contestati dall’osservatorio Migration Watch (Migration Watch “The fiscal contribution of migrants” 2006) che criticava la metodologia seguita dalla ricerca che considerava come britannici tutti i minori nati nel Regno Unito, sostenendo che una proporzione del 50% sarebbe stata più corretta e ciò avrebbe modificato l’esito finale.
Dagli anni Novanta in poi si sono susseguite diverse ricerche, prevalentemente a opera di università, soprattutto nei paesi anglosassoni e scandinavi. Dal Canada all’Australia, dalla Germania alla Svezia, la maggior parte di queste ricerche ha descritto come positivo l’impatto fiscale dell’immigrazione.
Per quanto riguarda un paese con esperienza migratoria simile all’Italia, si può citare uno studio pubblicato nel 2010 sui costi e benefici dell’immigrazione in Spagna dai docenti Maria Bruquetas Callejo e Francisco Javier Moreno Fuentes. Gli autori non sembrano nutrire dubbi sui benefici fiscali del fenomeno: gli immigrati erano il 10% degli iscritti alla sicurezza sociale ma solo l’1% dei percettori di pensione. La proporzione di spesa pubblica a essi dedicata sta crescendo nei settori della sanità e dell’istruzione (dall’1% del 2000 al 5% e 6% rispettivamente nel 2007) pur rimanendo considerevolmente inferiore al loro peso relativo sulla popolazione totale. Gli autori hanno notato che l’uso che gli stranieri fanno del sistema sanitario è inferiore a quello della popolazione spagnola (consultano un 7% di meno i medici di base e un 16,5% di meno gli specialisti).
In sintonia con queste ricerche si possono anche considerare il sito internet americano immigrationimpact.com dell’American Immigration Council, ma anche (almeno in parte) l’autorevole settimanale inglese The Economist, che considera da sempre le migrazioni come aspetti necessari del fenomeno della globalizzazione all’interno delle politiche di libero mercato.
Questa breve e parziale panoramica sugli studi esteri sulla materia ci può aiutare a comprendere quanta strada si debba ancora percorrere in Italia per approfondire la conoscenza di questo importante aspetto del fenomeno migratorio. Già da alcuni anni il Centro Studi e Ricerche Idos di Roma, che pubblica annualmente il Dossier Statistico Immigrazione (dal 1990 in collaborazione con Caritas Italiana e dal 2015 in collaborazione con il Centro Studi Confronti), e la Fondazione Leone Moressa di Mestre, che pubblica dal 2011 il Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione (edita dalla casa editrice “Il Mulino” di Bologna) dedicano appositi capitoli al tema dei costi e dei benefici dell’immigrazione. Tuttavia nel nostro paese il peso dei pregiudizi sull’incidenza economica dell’immigrazione è notevole: l’esempio più chiaro è forse quello sulla presenza degli immigrati negli alloggi a locazione pubblica (case popolari) ove è diffuso il seguente concetto: «in questo comune gli immigrati sono il 10% dei residenti, ma nelle case popolari sono il 15% quindi occorre limitarne la presenza, ecc.». Si omette di dire che l’80% delle famiglie italiane possiede una casa in proprietà e quindi non è interessata a questo tipo di bandi. Così sul versante sanitario si considera la spesa pro-capite degli stranieri pari a quella degli italiani fingendo di ignorare il differenziale di età, mentre sulla spesa assistenziale si enfatizzano singole voci, tacendo sul fatto che gli stranieri sono solo l’1% dei sedici milioni di pensionati in Italia. Certamente la distinzione tra migranti economici (che pagano tasse e contributi) e richiedenti asilo, che non possono lavorare in attesa della risposta alla loro domanda, ha complicato il quadro di analisi soprattutto dopo il 2011.
Sul versante delle entrate possiamo affermare che i redditi degli stranieri sono circa del 25% inferiori a quelli degli italiani e quindi il loro gettito fiscale è inferiore alla media, mentre sul versante della spesa la loro quota è ancora inferiore a causa della giovane età in un paese come l’Italia che privilegia la spesa pubblica per gli anziani.
I 2,3 milioni di lavoratori stranieri contribuiscono per il 9,9% al Pil nazionale. L’analisi del reddito medio dichiarato conferma il gap esistente tra contribuenti italiani e stranieri: ciascun contribuente nato in Italia ha dichiarato mediamente 21.647 euro (dichiarazioni 2017, anno d’imposta 2016), quasi 10 mila euro in più rispetto a un contribuente straniero (12.016 euro). Il differenziale si ripercuote anche sull’aliquota media, che risulta essere del 18,8% per gli italiani e del 12,1% per gli stranieri.
Il gettito Irpef (3,3 miliardi di euro) rappresenta la principale componente del gettito fiscale riconducibile ai contribuenti stranieri. Vi sono però altre voci da considerare tra cui l’imposta indiretta sui consumi, che può essere stimata applicando un’aliquota media del 10%; ipotizzando che il reddito delle famiglie straniere sia speso in consumi soggetti ad Iva per una quota del 90% (escludendo rimesse, affitti, mutui e altre voci non soggette a Iva), il valore complessivo dell’imposta indiretta sui consumi ammonta a 2,4 miliardi di euro.
Vi sono poi le imposte sui carburanti, che possono essere calcolate a partire dai dati Aci e Ministero dei trasporti, considerando che il 6% del parco auto complessivo è di proprietà di cittadini stranieri, per un totale di circa 1 miliardo di euro. A questa somma si possono aggiungere circa 240 milioni di euro derivanti da gioco del lotto e lotterie.
Una ulteriore fonte di introito per le casse dello Stato è rappresentata dalle spese per il rilascio e il rinnovo dei permessi di soggiorno (280 milioni di euro) e circa 40 milioni di euro dovuti alle acquisizioni di cittadinanza italiana. All’interno del “decreto sicurezza” ha trovato spazio un aumento di queste imposte.
Sommando tutte le voci sopraelencate, si ottiene un ammontare di 7,3 miliardi di euro di imposte versati dai cittadini stranieri nel 2016.
Infine tra le voci versate ci sono i contributi previdenziali che normalmente non dovrebbero rientrare nel calcolo costi e benefici, rappresentando almeno in parte un salario differito, ma le numerose riforme che si sono succedute nel corso degli anni hanno costruito elementi di peculiarità nel rapporto tra immigrati e sistema previdenziale che non possono essere ignorati. Nell’attuale sistema «a ripartizione» gli 11,9 miliardi versati (ad esempio nel 2016) dagli stranieri vengono utilizzati per pagare le pensioni di tutti, ma la quasi totalità degli immigrati andrà in pensione con il sistema contributivo potendo vantare solo pochi anni di contributi antecedenti il 1996. Peraltro nel corso degli anni precedenti la «riforma Fornero» molti immigrati che sono rientrati nei paesi di origine senza fare domanda di pensione (soprattutto nei paesi non comunitari e privi di un accordo di reciprocità con l’Inps) hanno perduto quanto versato (se non ne abbiano fatto esplicita richiesta al compimento dei 66 anni). L’ex presidente dell’Inps Tito Boeri ha stimato una cifra di quasi 15 miliardi di euro «incamerati» in questo modo dall’istituto previdenziale. Per dare un’idea potremmo dire che si tratta di una cifra 75 volte superiore ai canoni annuali per stranieri nelle case popolari italiane.
Sul versante della spesa pubblica, la quota attribuibile agli immigrati può essere stimata attraverso due diversi metodi di calcolo: il costo «medio» determinato dal rapporto tra i costi totali e la quantità totale della produzione, oppure il costo «marginale», inteso come misura dell’incremento del costo a seguito di un aumento della quantità di produzione.
Il settore della sanità è il più importante dopo quello della previdenza con i suoi 111 miliardi di spesa nel 2016, dei quali circa un terzo di spese per il personale; va evitato l’errore di considerare il costo della spesa procapite degli immigrati analogo a quello degli italiani; l’80% delle risorse sanitarie è infatti assorbito dagli anziani e ricerche come quella dell’Agenzia Nazionale Sanitaria del 2013 e quella della regione Emilia-Romagna del 2017 hanno dimostrato che la spesa procapite per gli immigrati è notevolmente inferiore a causa di degenze più brevi e patologie meno gravi. Questi dati, in aggiunta al calo delle già modeste spese per gli irregolari, generano per il 2016 una stima di spesa di circa 4,1 miliardi di euro.
Nel settore della scuola italiana, con l’esclusione dell’università, la spesa totale si attesta sui 44,8 miliardi di euro (una delle più basse d’Europa, con un valore preponderante dei costi per il personale, oltre il 90%) il numero degli alunni con cittadinanza non italiana ha superato le 815.000 unità (dato 2016) pari al 9,2% del totale degli iscritti, e ciò comporta una spesa di 3,8 miliardi. Il dato percentuale degli studenti stranieri determina ogni anno un lievitare del costo medio che è più apparente che reale, poiché la struttura degli investimenti pubblici rimane immutata.
Il terzo settore è quello dei servizi e degli interventi sociali a livello comunale, che da anni è fermo a una spesa inferiore ai 7 miliardi, dei quali circa 600 milioni relativi agli immigrati, soprattutto nei settori dei minori e della povertà (sarà interessante verificare in futuro l’impatto dei provvedimenti relativi al reddito di cittadinanza e se le misure limitative all’accesso per gli immigrati supereranno il vaglio della costituzionalità e della legittimità). Nei servizi sociali le voci relative all’integrazione degli immigrati come i corsi di italiano e i mediatori culturali rappresentano appena il 2,5% della spesa (circa 190 milioni di euro annui) cui si devono sommare le voci nelle quali gli immigrati compaiono come utenti dei servizi generali.
Il quarto settore, quello della casa, è quello che vede contemporaneamente le più accese polemiche pubbliche e il minore impiego di risorse. Infatti la presenza di immigrati tra i beneficiari di alloggi popolari si attesta attorno all’8,5% del totale (in linea con l’incidenza media della popolazione, 8,3%) per una spesa pubblica calcolabile in circa 200 milioni di euro annui.
Il quinto settore è quello della giustizia (tribunali e carcere), in cui la spesa complessiva è oggi di 7,8 miliardi di euro. Considerando l’alta incidenza di condannati e detenuti stranieri (30%), il metodo dei costi medi porta a stimare circa 2 miliardi di euro per la componente immigrata. Tuttavia anche in questo caso così come nella scuola, la voce preponderante è quella del personale in servizio, mentre l’aumento di detenuti non ha causato maggiori investimenti pubblici.
Il sesto settore esaminato è quello che include gli aspetti di competenza del Ministero dell’interno che sono raggruppati sotto la denominazione «immigrazione, accoglienza e garanzia dei diritti», per un totale di 3,6 miliardi nel 2016. All’interno di questa voce generale si ritrovano tutti i segmenti del frammentato sistema italiano dell’asilo: per lo Sprar (Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati) la Corte dei Conti ha reso nota la cifra ufficiale di 265 milioni di euro per il 2016 dopo un preventivo di 400 milioni (comprendente anche i minori). Il 2016 è stato uno degli anni con il maggior numero di sbarchi e in cui hanno rivestito un rilievo notevole le operazioni di soccorso in mare (circa 900 milioni di euro) e gli interventi di tipo sanitario (circa 220 milioni) e scolastico (circa 267 milioni): tutte cifre in aumento rispetto agli anni precedenti ma che ora subiranno un calo. Tali costi sono, in piccola parte, finanziati anche da risorse europee che, per il periodo 2014-2020, sono state raggruppate in due fondi: il Fami (Fondo asilo, migrazione e integrazione) con 54 milioni di euro destinati all’Italia, e il Fai (Fondo sicurezza interna) con 9 milioni annui per il nostro paese. Decrescenti sono invece le risorse per i Cie (Centri di identificazione ed espulsione), ormai inferiori a 90 milioni di euro a causa della chiusura di alcuni di essi.
Il settimo e ultimo settore preso in esame è quello dei trasferimenti monetari diretti. Le spese riguardanti l’assistenza sociale (cassa integrazione, mobilità, disoccupazione, assegni familiari) sono stimate in 2,4 miliardi di euro, mentre la spesa previdenziale per le pensioni degli immigrati non supera gli 800 milioni di euro. Occorre ricordare che, pur se la crisi economica ha attenuato i suoi effetti, i beneficiari immigrati degli interventi Ines per l’assistenza sono circa il 20% del totale mentre gli immigrati ultrasessantacinquenni sono circa 150.000 su 16 milioni di pensionati (meno dell’1%).
Complessivamente il totale delle spese a costo medio nel 2016 ammonta a 17,5 miliardi, pari al 2,1% della spesa pubblica italiana.
Abbiamo osservato come, in settori quali la scuola o la giustizia (ove il costo del personale è preponderante) la crescita percentuale progressiva dell’utenza immigrata determina una lievitazione dei costi a essi relativa che è più teorica che reale. il calcolo basato sui costi marginali consente di ovviare a questo inconveniente, considerando la componente immigrata come una spesa aggiuntiva che usufruisce di servizi nei quali l’utilizzo del personale, dei beni strumentali, delle strutture, ecc. era preesistente e di cui si è esteso progressivamente l’utilizzo. Questo ragionamento vale per quella produzione di servizi che implica l’utilizzo di personale pubblico, di beni e servizi, di spese in conto capitale, ecc. Non si applica naturalmente ai trasferimenti economici in quanto tali.
La spesa pubblica italiana ammontava a 740 miliardi di euro nel 2007 e nel 2016 ha raggiunto gli 830 miliardi; se si esclude l’inflazione, l’aumento reale si può calcolare in circa 12 miliardi medi l’anno. La domanda che dobbiamo porci è dunque quanto di questo aumento sia da imputare all’utenza immigrata.
La presenza media degli immigrati nel decennio in esame è stata del 7% (dal 5,8% di residenti nel 2007 all’8,3% nel 2016). Ne consegue che l’aumento marginale dei costi loro riferiti non supera gli 840 milioni annui (cioè il 7% di 12 miliardi). Sommando i 3,5 miliardi dei trasferimenti monetari (3,2 più 0,2 per la casa e 0,1 per le quote monetarie dei servizi sociali) agli 840 milioni di incremento marginale annuo, si ottiene un totale di 4,34 miliardi di euro, pari allo 0,5% della spesa pubblica italiana.
La differenza tra questo valore e il gettito fiscale precedentemente analizzato (7,3 miliardi) produce così un saldo positivo di 3 miliardi, confermando la divergenza tra i risultati delle due metodologie di calcolo.
In entrambi i metodi di calcolo il risultato finale produce un saldo positivo tra entrate ed uscite imputabili all’immigrazione (con un range che va da +1,7 a +3 miliardi di euro) nonostante il peso significativo del fenomeno dei richiedenti asilo nel periodo in esame.
*Andrea Stuppini collabora con il sito “lavoce.info” e con l’ Istituto Cattaneo di Bologna. Fa parte della redazione della rivista Africa e Mediterraneo. Ogni anno redige uno studio sulla spesa pubblica per gli immigrati in Italia che viene pubblicato sul “Dossier statistico immigrazione” Idos Roma e sul “Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione” (il Mulino) a cura della Fondazione Leone Moressa di Mestre.
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