I non rappresentati in cerca della soggettività perduta
Una ricerca nelle periferie delle grandi città mostra che l’individualismo non ha ancora colonizzato tutto. A essere rifiutati non sono i sindacati e le organizzazioni in generale ma la loro attuale forma concreta
Non è un mantra nuovo, ma è sempre in voga: siamo nell’epoca della post-rappresentanza, della crisi dei corpi intermedi, dell’individualismo diffuso, nelle città e sui luoghi di lavoro. Un assunto su cui si basano molte narrazioni mainstream e militanti. Le identità collettive sono deboli, i luoghi sconnessi e abbandonati, il «popolo» sempre più lontano dalla politica, apatico e disinteressato. Se si accetta questa descrizione, le analisi si dovranno concentrare (come in effetti hanno fatto) sulle cause e conseguenze politiche e sociali di questi processi.
Ma è davvero così che stanno le cose? Alcune ricerche ci dicono che i termini della faccenda non sono così semplici. Individualismo e frammentazione sono certamente presenti all’interno delle classi popolari italiane degli anni post-crisi. Quest’ultime si percepiscono socialmente divise e incapaci di protagonismo politico diretto, tuttavia – e rispetto all’apatia di qualche anno fa è un dato da non sottovalutare – non rifiutano totalmente il terreno della politica, anzi ritengono le istituzioni pubbliche necessarie per curare i principali mali da cui sono afflitti, ossia la mancanza/sfruttamento del lavoro e il degrado sociale vissuto nel proprio quartiere. Insomma, se è vero che la rabbia c’è (ed è giustificata), siamo sicuri che abbia a che fare con la furia cieca e con il qualunquismo del «fanno tutti schifo» come fino a poco tempo fa?
Isolati e precari: i territori come le persone
Insieme ad altri autori e autrici (ricercatrici e attiviste di varie realtà italiane sotto il nome di Cantiere delle Idee) abbiamo cercato di indagare problemi, prospettive e rappresentazioni delle periferie italiane tramite circa 60 interviste in profondità tra Milano, Firenze, Roma e Cosenza. Una ricerca qualitativa e non dal valore statistico, ma dalla quale emergono trend che vale la pena esplorare. Per esempio, le persone intervistate – quelle che i giornali e i politici descrivono come conquistati da istinti primordiali, incapaci di fare scelte ragionate – hanno ben chiaro quali sono i problemi che li affliggono: lavoro, casa, manutenzione dei luoghi comuni, trasporti, cura dei familiari (anziani e bambini) a carico. E la maggior parte di loro sa anche benissimo chi sono i responsabili: i politici (e non la politica) che anziché impegnarsi in progetti di lunga durata hanno preferito andare alla ricerca del consenso elettorale. In modo più o meno esplicito, l’approccio emergenziale che contraddistingue ormai da diversi anni amministrazioni locali e politica nazionale è riconosciuto come la causa del fatto che i luoghi della vita quotidiana non siano a misura delle esigenze di chi li abita. C’è la percezione chiara di interessare alla politica solo in quanto elettorato e non come destinatario di politiche strutturali.
Tutte le difficoltà che ci sono state descritte però non hanno effetto solo sulle relazioni nel presente, ma anche nel futuro: siamo incapaci di fare progetti su di noi perché, molto semplicemente, il futuro non esiste, è un lusso pensare a qualcosa di diverso dallo sforzo di sbarcare il lunario. Come la politica non ha progetti per i territori, così i suoi abitanti non li hanno per loro stessi. Lottare per i propri sogni è qualcosa che «si può permettere» solo chi parte da una condizione avvantaggiata. Questo è visibile soprattutto nelle risposte che molti intervistati ci hanno dato quando abbiamo posto alla loro attenzione la frase: «se nella vita una persona si impegna, alla fine ce la fa». Tutti coloro che hanno risposto positivamente a questa affermazione, hanno espresso entusiasmo e fiducia nelle capacità delle persone e nella tenacia della loro volontà. Ma quelli – i più – che hanno dimostrato perplessità hanno sollevato un’osservazione importante: non tutti hanno le possibilità materiali di provare fino alla fine.
Se ci soffermiamo sulle difficoltà e il sentimento di abbandono descritti, non apprendiamo molto di più di quello che già percepiamo attraversando le strade e recandoci nei luoghi di lavoro. Al tempo stesso però emerge qualcosa di potente e inesplorato. Se è vero che l’isolamento e la delusione predominano, è altrettanto vero che non c’è solo questo. Si guarda con rancore allo stato attuale, si pensa al passato con nostalgia. Non ci sono identità nazionali, ma anzi: ci si riconosce simili a chi soffre come noi, senza però creare legami e sodalizi. Non c’è niente che dica che le scappatoie personali a problemi comuni siano le uniche risposte possibili. Solitudine e individualismo non hanno niente di eterno e immutabile. Non siamo forse nemmeno così lontani da praticare delle alternative. Anche se in forma caotica, da queste interviste emerge che un divario c’è ed è percepito come forte, ed è un divario fra chi sta dentro e chi sta fuori dalla città, fra chi comanda e chi è comandato, fra chi sta in alto e chi sta in basso. L’individualismo non ha ancora colonizzato tutto, e da questo si può ripartire.
Alla ricerca della soggettività perduta: i luoghi di lavoro come i territori
Tuttavia il dato che emerge dalla maggioranza delle interviste è una certa disillusione nella possibilità di migliorare le proprie condizioni di lavoro e sociali tramite il coinvolgimento in prima persona in organizzazioni sociali, sindacali o politiche. Anche sui luoghi di lavoro si corrobora quello che emerge nei territori: la tendenza alla «privatizzazione» e all’«individualizzazione» dei rapporti sociali e di lavoro. Sembra non esserci una chiara consapevolezza che i problemi connessi alla condizione lavorativa siano problemi sociali e quindi, in senso lato, politici, cioè capaci di essere contrastati e risolti dal coinvolgimento personale in mobilitazioni collettive. In altre parole, «privatizzare» i problemi sul lavoro sembra essere l’unico modo in cui tali problemi possono essere posti ed eventualmente risolti. In questo senso, nelle visioni di diversi intervistati si assiste a un ritorno al privato di tematiche che fino a poco tempo fa erano considerate pubbliche.
La maggioranza di queste persone non si riconosce in una narrazione collettiva, ma nella propria biografia individuale, i cui fallimenti anche in campo professionale sono da addebitare solo ed esclusivamente a loro stessi. In poche parole, i loro problemi non sono percepiti come condizionati da qualche struttura sociale, ma come personali e, quindi, tali da essere trattati e risolti nella sfera privata. Non si riesce a vedere la «politica» nei rapporti sociali e di lavoro, perché tra gli intervistati in declino è l’impatto, la diffusione e l’identificazione con visioni del mondo che facevano della critica di quei rapporti la leva del cambiamento sociale. Assente in tutte queste storie e biografie personali è la dimensione del sentire e agire collettivo, quello che fino alla caduta del Muro di Berlino e del mondo diviso in due blocchi si chiamava visione ideologica.
Se tutte le nostre interviste sembrano confermare la «crisi dei corpi intermedi» anche nell’attuale contesto italiano, questa crisi non va considerata immutabile e naturale. Gli intervistati non rifiutano i sindacati in generale, non mettono in discussione il concetto di rappresentanza degli interessi in sé, ma la forma concreta della loro attuale espressione, cioè specifici sindacati, giudicati come inadeguati rispetto ai tempi presenti o collusi col potere economico/politico. Anche tra le persone più critiche emerge con forza una richiesta di (nuova) organizzazione, capace di difendere realmente gli interessi dei non rappresentati.
In questo senso – e a dispetto di diversi critici – non ci sembra corretto parlare di fine inesorabile delle organizzazioni della rappresentanza e della mediazione sociale. Crisi profonda sì, irrecuperabile no. Il materiale uscito dalle nostre inchieste sembra indicare una richiesta nei loro confronti: quella di «fare un passo indietro per farne due avanti». In altri termini, vari intervistati chiedono ai sindacati (o a non meglio identificate nuove organizzazioni) di tornare a studiare e capire le trasformazioni sociali che hanno accompagnato lo sviluppo dei nuovi lavori, rimettendosi al fianco dei lavoratori senza compromessi, con l’unico scopo della difesa dei loro interessi, per invertire la dinamica di sfruttamento e precarizzazione nei quali si sentono (e ci sentiamo) ingabbiati.
«Non più, ma non ancora».
Scardinando una descrizione ormai data per assodata, anche le riflessioni sulle cause e conseguenze assumono toni diversi. Le tendenze non sono irreversibili, e accanto alla rabbia si fa strada la richiesta di alternative radicali, che non facciano sconti a nessuno. Diverse persone hanno infatti prefigurato la possibilità della ricostituzione di un Noi sociale a partire dalle proprie condizioni di sofferenza con il contributo di nuove (o radicalmente riformate) organizzazioni della rappresentanza sociale, capaci di difendere in maniera più efficace gli interessi della nuova e numerosa classe dei non rappresentati e non garantiti. In altre parole, la creazione di un nuovo «Noi collettivo» capace di sovvertire i rapporti sociali esistenti è una possibilità attualmente difficile da realizzare ma ancora possibile da costruire.
Tuttavia, questo «Noi collettivo» non deve più essere cercato e costruito esclusivamente nelle fabbriche o nei luoghi di lavoro, ma emergere e svilupparsi anche sul terreno sociale, nei luoghi stessi della precarietà, nei territori privi di servizi e tutele. Questa rinnovata consapevolezza è utile e necessaria, perché contribuisce a riscoprire una dimenticata intuizione marxiana, per cui l’opposizione al capitalismo non è da restringersi alla resistenza allo sfruttamento nel luogo di lavoro.
Bisogna allora superare lo stretto economicismo del vecchio movimento operaio per sviluppare una critica radicale del capitalismo contemporaneo che parta certamente dalle lotte sul lavoro, ma che vada anche oltre, investendo le città. Forse è questa la difficile via che dovremmo intraprendere per ripoliticizzare le sofferenze private e l’esperienza personale di coloro che vivono le periferie urbane delle città italiane. Siamo in una fase storica – come direbbe Gramsci – in cui «il vecchio muore e il nuovo non può nascere»: «non più, ma non ancora» appunto. Il cammino è però tracciato, spetta a noi iniziare a percorrerlo. Se il «popolo» non è, insomma, non è detto che non possa essere o che non sarà.
* Carlotta Caciagli e Lorenzo Cini fanno parte del Cantiere delle idee, la rete nazionale di ricercatori che ha condotto la ricerca collettiva pubblicata nel volume Popolo chi? (Ediesse, 2019).
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