I padroni a casa nostra
Dodici ore di assedio e poi lo sgombero: trecento persone e molti bambini sono in mezzo a una strada. A vincere a Roma è la linea di Matteo Salvini, che blindando i confini assolutizza anche la difesa della proprietà privata
Trecento persone, tra di esse ottanta minori, gettate in mezzo a una strada. Accade nella periferia settentrionale di Roma, nel quartiere popolare di Primavalle, dove una scuola abbandonata era diventata una casa per molte persone. Centinaia di poliziotti schierati, 45 camionette idranti e due cannoni-idranti, un quartiere terrorizzato rappresentano materialmente le conseguenze della linea dura imposta da Matteo Salvini. Dimostrano che la qualità della vità non si può perimetrare, che urlare «Padroni a casa nostra» e scatenare i più bassi istinti razzisti significa sempre abbassare il livello dei diritti per tutti e tutte. «Padroni a casa nostra», nella stagione degli sgomberi che Salvini vorrebbe aprire con l’operazione spietata di via Cardinale Capranica, significa che la proprietà non deve neanche essere vincolata a fini sociali, come prevede la Costituzione, e che il suo esercizio deve essere garantito prima di e contro tutti gli altri diritti.
Lo spazio vitale che i razzisti vorrebbero rendere impermeabile, gerarchizzato, destinato prima agli italiani, rimanda alla proprietà privata come valore assoluto. Salvini traccia un filo che unisce i respingimenti agli sgomberi: si chiama guerra ai poveri, da qualunque parte essi provengono e qualsiasi confine proprietario intendono violare, che si tratti di quello di una nazione o della soglia di un fabbricato lasciato all’incuria dalla speculazione edilizia e dall’inefficienza della legge del profitto.
«La proprietà privata è un diritto intangibile». Aveva usato proprio queste parole il ministero dell’interno giusto un anno fa, rispondendo ad una lettera dei grandi proprietari immobiliari riuniti in Confedilizia. L’associazione di categoria padronale aveva chiesto esplicitamente di cambiare una norma del «decreto sicurezza» di Marco Minniti, non certo un buonista. In quella norma si stabiliva si dovesse considerare anche la situazione sociale degli occupanti prima di procedere ad uno sgombero. Il ministro annunciava al contrario «una rigorosa politica degli sgomberi». Da allora sono cominciate a circolare liste di edifici da liberare, mappe di una città da addomesticare a spese di masse di sfrattati.
Il Viminale calcola che, solo a Roma, ci siano 92 gli stabili occupati, di cui 66 ad uso abitativo. Di certo più di 10 mila uomini e donne, 3 mila dei quali hanno lo status di rifugiati politici, vivono in posti strappati all’abbandono. Dal 2014, a causa del cosiddetto Decreto Lupi, emanato dall’allora ministro delle infrastrutture del governo Renzi, gli occupanti non possono più richiedere la residenza, proprio come ai tempi delle leggi fasciste contro l’urbanesimo. Eppure queste persone hanno riqualificato pezzi di città abbandonati, restituito all’uso sociale migliaia di metri cubi di cemento e inventato nuove forme di mutualismo e conflitto. Hanno anche un effetto costituente, avendo strappato alla Regione Lazio una delibera sull’emergenza abitativa che sancisce che una fetta delle nuove case sia destinata agli occupanti. Clausola che l’amministrazione grillina vorrebbe disapplicare in nome di un astratto principio di «legalità». Raggi non ha voluto saperne di inserire nelle graduatorie i diritti degli occupanti di case, previsti invece nella delibera regionale che stanziava i quattrini.
Dunque, c’è la faccia truce di Salvini e c’è l’ottusa legalità dei grillini. Ma ci sono anche le responsabilità pregresse del centrosinistra, del citato Decreto Lupi ma anche dello sciagurato Piano regolatore di Roma del 2008 che ha dato il via libera alla rendita. Di fronte a una politica per la casa inesistente ormai da circa trent’anni, negli scorsi mesi si è mobilitato un cartello ampio e plurale, che ha coinvolto in maniera inedita i movimenti e la Cgil, associazioni studentesche e quelle di inquilini, comitati e sindacati di base. Di fronte a queste richieste, l’assessore alla casa Rosalba Castiglione ha di nuovo alzato un muro.
Questo schema viene confermato dai fatti delle ultime ore, e dal fallimento della trattativa last minute tra gli occupanti di Primavalle e l’assessora Laura Baldassarre, che pure viene da incarichi dirigenziali in Unicef e dell’attenzione verso i minori dovrebbe fare un suo tratto distintivo. Il fatto è che questa gente, che si è organizzata per costruire dal basso la garanzia di un suo diritto, chiede soluzioni alternative. Per la giunta, invece, i poveri devono finire in strutture di emergenza. Come è emerso in questi anni, la proposta dell’amministrazione grillina è che gli occupanti sgomberati finiscano in luoghi di accoglienza temporanea, posti di solito riservati alle emergenze sociali estreme, rischiando separazioni familiari e andando incontro all’abbandono forzato di rapporti sociali consolidati. Ciò equivale a far nascere altri ghetti e nuove esclusioni. Al contrario, le tante occupazioni romane non sono espressione di marginalità sociale. Tutt’altro. Da queste esperienze sono nate forme di welfare autogestito e sperimentazioni culturali riconosciute che lo scorso 21 giugno hanno manifestato a migliaia nel centro di Roma.
Come aveva provato a spiegare Paolo Berdini da assessore all’urbanistica della giunta Raggi poi costretto alle dimissioni, una delle soluzioni consisterebbe nel recupero del patrimonio dismesso, nel riutilizzo di costruzioni e di pezzi di città, piuttosto che nella costruzione di nuovi quartieri che rischiano di diventare periferie abbandonate a se stesse, senza spazi pubblici e in preda alla guerra per difendere i piccoli cortili privati da invasori via via più miserabili. Ecco perché la barricata in fiamme di Primavalle non è soltanto il disperato grido di allarme di uomini, donne e bambini che difendono la loro abitazione. È la luce che proviene da una città possibile. Una città che la politica quest’oggi, ancora una volta, ha rifiutato di ascoltare. Alla quale ha dichiarato guerra.
*Giuliano Santoro, giornalista, scrive di politica e cultura su il Manifesto. È autore, tra le altre cose, di Un Grillo qualunque e Cervelli Sconnessi (entrambi editi da Castelvecchi), Guida alla Roma ribelle (Voland), Al palo della morte (Alegre Quinto Tipo).
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