I videogame kolossal. La politica è in gioco
L’industria del videogame muove miliardi e miliardi di dollari, colonizza l’immaginario, racconta storie. Possibile che questo mondo, per condizioni di lavoro e trame sviluppate, sia impermeabile al contesto sociale?
La fine di ottobre ha visto la release di uno dei giochi più importanti degli ultimi anni. Red Dead Redemption 2 soltanto nel primo fine settimana ha incassato la cifra record di 725 milioni di dollari, secondo unicamente a Grand Theft Auto 5, che al lancio incassò ben un miliardo. Dodici giorni dopo l’uscita ha già staccato di molto gli incassi del primo Red Dead Redemption.
Eppure il clima d’eccitazione è stato parzialmente rovinato dalla sparata del direttore Dan Houser, che si è vantato col New York Times di aver costretto il suo team a lavorare «100 ore a settimana» per garantire l’uscita del gioco. In un articolo uscito su Kotaku, il giornalista Jason Schreier ha fatto notare come un commento del genere sia sintomatico dell’attitudine della Rockstar Games di Houser a mettere sotto pressione i propri dipendenti, in un clima che spesso li porta a spaccarsi la schiena sotto carichi di lavoro eccessivi. Secondo Keza MacDonald, critica del Guardian, simili condizioni lavorative sono tipiche di un’industria che «dà molta più importanza agli straordinari che al benessere dei propri dipendenti».
La recente consapevolezza della brutalità delle condizioni di lavoro nell’industria videoludica fa il paio con un altro elemento fonte di frustrazione: i messaggi politici sottesi alle trame dei videogiochi. Sempre dal Guardian, il critico Alfie Brown lamenta la totale mediocrità della maggior parte di questi messaggi. Il sito di gaming Kotaku tocca una corda simile, scagliandosi contro l’obbligo, per i giocatori, di sopportare la visione politica che traspare nella maggior parte dei giochi mainstream. Anche quando non è direttamente reazionaria, risulta comunque poco interessante.
Tuttavia, i giornalisti di settore non riescono ancora a vedere la connessione esistente fra le due criticità. Il contenuto politico dei giochi è reazionario, tuttalpiù inesistente, proprio in virtù delle condizioni di lavoro in cui i giochi stessi sono prodotti e venduti. I grandi kolossal del videogaming sono spesso molto divertenti da giocare, ma soffrono di un immaginario politico ristretto e stantio. Pensati e venduti per fare da eco alle speranze e alle paure contemporanee, questi giochi sono il frutto di un mercato del lavoro caratterizzato da condizioni pesanti, oppressive dal punto di vista di genere e razza, e dall’accumulazione di ricchezza e benessere nelle mani di pochi gruppi aziendali.
Visioni politiche scialbe sono il risultato scontato di queste realtà. La rivoluzione nel gaming caldeggiata da Alfie Brown non potrà realizzarsi se non a patto di contrastare lo sfruttamento che ne sta alla base.
Profitto e castigo
La crisi finanziaria del 2008 è stato uno spartiacque della politica mondiale e molte forme artistiche hanno affrontato in maniera convincente la realtà nuova e turbolenta che ne è derivata. Ciò vale di meno per i videogiochi, anche se non sono mancati i tentativi. Detroit: Become Human ha tratto ispirazione dal movimento Black Lives Matter, promettendo ai giocatori la possibilità di guidare una campagna politica di successo. Far Cry 5 e Wolfenstein II hanno consentito ai propri giocatori di dare corpo, senza conseguenze, a fantasie di vendetta contro nazisti e fanatici reazionari.
Altri giochi invece drammatizzano e giustificano la violenza del governo degli Stati uniti. Ghost Recon Wildlands, ad esempio, nel quale il giocatore interpreta un agente statunitense che deve far fuori un giro di droga in Sud America, presenta questo tipo di interventi come azioni militari necessarie a risolvere i problemi del mondo. In Tom Clancy’s The Division 2 lo scopo dei giocatori è sopravvivere all’apocalisse e ristabilire l’ordine attraverso l’uccisione a freddo del sottobosco criminale. Nell’impresa è stato coinvolto persino il nostro amichevole SpiderMan di quartiere, che ora aiuta la polizia a reprimere violentemente i banditi di New York.
Ma anche quei videogame che provano a mettere a tema le paure del nostro tempo sono prodotti in condizioni che ne limitano la capacità di immaginazione politica. Investire poco nella scrittura di molti grandi kolossal del gaming è un modo facile, per le compagnie che li producono e li pubblicano, di fare profitto. Come per moltissime altre industrie, ricchezza e potere sono saldamente in mano a pochissimi attori; e i videogame non fanno eccezione.
La maggior parte dei giocatori conoscerà bene nomi quali Activision o Electronic Arts, entrambi famosi per la loro consuetudine di divorare i piccoli sviluppatori. Grossi conglomerati mediatici come Vivendi o la Disney stanno provando a entrare in quest’industria da 100 miliardi di dollari. L’attore più importante di tutta l’industria è il colosso cinese Tencent, una delle corporation che ha investito maggiormente nel settore a livello mondiale e proprietaria di giganti come Blizzard o Ubisoft.
Oltre a ciò, va tenuto in conto che queste aziende sono interessate solo a un flusso costante di profitti. E lo stanno ottenendo: Activision Blizzard ha fatturato più di 7 miliardi di dollari nel 2017, l’Electronic Arts più di 5 miliardi. Per loro lo status quo funziona, dunque è improbabile che decidano di raccontare storie dal contenuto politico col rischio di far deragliare il treno dei guadagni. Anche se in questo articolo sono presi in esame i kolossal del mondo del gaming, dinamiche e pressioni diverse ma connesse a queste valgono anche per il mercato indipendente.
La pressione riguarda il fatto che creare un videogioco è un processo lungo e costoso. Una release importante può richiedere anni, e può costare dai 10 ai 100 milioni di dollari tra l’essere concepita, realizzata e distribuita. I grandi franchise come Call of Duty o Grand Theft Auto hanno costi di produzione che superano i 200 milioni di dollari, senza nulla da invidiare ai blockbuster hollywoodiani. Ciò significa che un passo falso su un titolo del genere può costare carissimo, persino a una casa di produzione importante.
Così assistiamo a strane manovre promozionali, con Bethesda che dichiara che il suo gioco sul rovesciare un regime nazista – venduto con la tag-line «Make America Nazi-Free Again» – non ha nulla a che vedere col contesto politico attuale. O il capo della Quantic Dream David Cage che insiste nel dire che il suo gioco Detroit è semplicemente la storia di alcuni androidi che chiedono diritti civili, non è mica politica. Più i riferimenti alla politica sono vaghi, meno sarà probabile che qualcuno sia scoraggiato dal comprare il gioco di ultima uscita.
Questa reticenza nel fare dichiarazioni politiche ha permesso ad alcuni dei soggetti più reazionari del mondo del gaming di proliferare indisturbati. E le case di produzione sono state molto attente a non fare nulla che potesse offendere un simile target. Quando una dipendente dello sviluppatore ArenaNet ha reagito alle provocazioni di un fan che le aveva rivolto un commento indesiderato, la compagnia ha provveduto prontamente a licenziarla, insieme alla collega che l’aveva difesa. La dipendente, Jessica Price, stava reagendo a una diffusa cultura sessista fatta anche di mansplaining, e diretta principalmente alle dipendenti donne. Ma invece che supportare la propria dipendente, il suo capo si è accodato al sentimento misogino dei giocatori.
Alla ricerca di una reazione
La debacle di ArenaNet ci parla anche di un altro problema del mondo dei videogame. In quest’industria, i lavoratori sono soggetti a condizioni di lavoro disumanizzanti e umilianti. Straordinari infiniti sono considerati normali, abbondano i casi di sessismo e molestie, e battute e provocazioni razziste non sono poi così rare.
Non sorprende allora vedere che l’attenzione alle questioni di genere lasci in diversi casi molto a desiderare. In Detroit, ad esempio, la protagonista femminile è ripetutamente soggetta ad abusi fisici, e sembra essere più uno attrezzo retorico che un personaggio vero e proprio. Come ha sottolineato la giornalista Anita Sarkeesian nella sua serie di articoli dedicati alle donne nel mondo dei videogame, la disumanizzazione dei personaggi femminili è molto diffusa.
Secondo Sarkeesian, una visione politica scadente sulle questioni di genere e un focus patologico sulla violenza sono stati per molti anni il marchio di fabbrica del settore. Agli albori dell’epoca del videogaming compagnie come Atari disegnavano i giochi di guerra per conto del governo degli Stati uniti. Sparare a delle cose su uno schermo si è rivelata una formula vincente, che ha permesso di vendere una miriade di giochi nel corso degli anni.
Con Grand Theft Auto, un gioco in cui il giocatore può aggredire le prostitute senza alcuna conseguenza, la Rockstar Games è diventata famosa per la sua misoginia ingiustificata. Red Dead Redemption 2, il titolo più recente della Rockstar, fortunatamente si discosta da questo genere di eccessi. È considerato una pietra miliare del settore, che stabilisce nuovi standard di ricchezza e realismo. Allo stesso tempo, ha costretto l’industria a una resa dei conti interna, con reazioni che si sono divise in due fra chi lodava la maestria artistica del gioco e chi condannava lo sfruttamento del lavoro che l’ha resa possibile.
Red Dead Redemption 2 è una bellissima e dettagliata raffigurazione dell’America di fine Ottocento. È una critica alle fantasie di potere, con al centro temi come il fallimento e la fragilità umana. Ma in tantissimi punti non riesce ad essere serio politicamente. Ad esempio, mette in scena il Ku Klux Klan per strappare una risata facile, evitando di confrontarsi con la storia del gruppo di suprematisti bianchi, fatta di terrore e violenza politica.
Questo non vuol dire che l’industria non produrrà mai un gioco con effetti politici interessanti. Dopo tutto Hollywood, che presenta condizioni lavorative simili, ci ha regalato Black Panther e Moonlight. Nel mondo dei videogiochi, Wolfenstein II, malgrado sia uno sparatutto frenetico, ci mette davanti una rappresentazione realistica di come potrebbe essere la Resistenza sul suolo americano in uno scenario distopico in cui la storia ha preso pieghe diverse. La coalizione multirazziale di socialisti, anarchici e sopravvissuti ebrei, misti ad attivisti dei diritti dei neri e ad ogni sorta di ex-militari statunitensi non è frutto di pura fantasia, ma è realmente esistita nei momenti di maggiore disagio sociale e lotta di classe.
Nel complesso, tuttavia, le realtà legate alle condizioni di lavoro e di consumo rendono questo tipo di giochi meno probabili. Il mercato è dominato dai grandi produttori abituati allo sfruttamento del lavoro. Tutto ciò produce essenzialmente due risultati: da un lato le aziende videoludiche esitano a proporre seriamente contenuti politici, soprattutto se di sinistra, dall’altro i dipendenti delle stesse aziende rischiano grosso nel criticare i contenuti di gioco, viste le condizioni lavorative cui devono sottostare. Fintanto che questa situazione andrà avanti, non potremo che aspettarci trattazioni politiche superficiali e ristrette.
Non dev’essere per forza così
I produttori di videogiochi sono spaventati da come potrebbe rispondere il loro pubblico al minimo accenno di simpatie progressiste o di sinistra. Sono interessati a fare riferimento alla politica nei giochi o nel materiale promozionale solo quel tanto che basta ad essere in sintonia con le mode e suscitare interesse. Raramente questi accenni politici sono approfonditi in maniera significativa nel prodotto finale.
Gli sviluppatori, i giornalisti, e molti videogiocatori stanno iniziando ad esserne infastiditi. Sostengono che i giochi potrebbero essere migliori, che la loro capacità artistica è sottosviluppata a causa del conservatorismo e della paura che domina oggi l’industria videoludica. È difficile trovare un’industria che tratti il suo pubblico con altrettanta condiscendenza e piaggeria. Immaginate come potrebbero fiorire le idee se ci liberassimo della cappa che ci opprime adesso.
I giocatori si meritano, e i mezzi a disposizione possono offrire, visioni politiche decisamente più coinvolgenti. Ma sarà difficile ottenerle senza cambiare il mondo materiale in cui sono prodotti i videogiochi. Creare dei sindacati degli sviluppatori potrebbe essere un buon primo passo. Un’organizzazione già esiste, la Game Workers United, e sta premendo per una maggiore organizzazione dei lavoratori nell’industria. Per dei lavoratori organizzati è più facile avere voce in capitolo sul funzionamento di un gioco o la sua trama.
Tutto ciò si inserisce in un quadro in cui i lavoratori del settore tecnologico hanno già iniziato ad organizzarsi. Hanno mostrato i muscoli a Microsoft e Amazon, chiedendo alle due compagnie di smetterla di supportare la politica di separazione familiare della Ice. Proprio a inizio novembre i dipendenti di Google hanno inscenato un’astensione dal lavoro per protestare contro la reazione del colosso della tecnologia alle accuse di molestie sessuali. A cosa porterebbe una simile dimostrazione di forza nel mondo del design e dello sviluppo dei videogiochi?
Un buon giornalismo, come la copertura di Riot Games da parte di Kotaku, è un ulteriore passo. Rivelando la pervasività del sessismo in un’azienda da 2 miliardi di dollari, Kotaku sembrerebbe aver provocato una crisi all’interno della dirigenza, sperabilmente aprendo la porta per condizioni di lavoro meno pesanti. La già citata cultura del superlavoro della Rockstar Games ha provocato una discussione larga su quanto di meglio possano e debbano pretendere sia i lavoratori che i giocatori.
I videogiochi non saranno mai una semplice e apolitica fuga dalla realtà. Come tutta la cultura, portano con loro il marchio del mondo in cui viviamo. Perché possano dire qualcosa di significativo su questo mondo, devono cambiare le modalità in cui vengono prodotti.
*Laura Bartkowiak è un’attivista e scrittice, si occupa di analisi dei dati. Vive a New York. Brian J. Sullivan è un sindacalista, si occupa di difendere gli inquilini e fa lo scrittore. Anche lui vive a New York. Qui la versione originale dell’articolo su jacobinmag.com. Traduzione di Gaia Benzi.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.