Il backlash della Sardegna
Meloni sconfitta dall'eccesso di sicurezza. Dopo la vittoria di Todde le opposizioni hanno qualche carta da giocare, ma non devono limitarsi al politicismo e alle manovre di piccolo cabotaggio
Non sappiamo se davvero «cambia il vento» come dice Elly Schlein dopo il risultato della Sardegna e la vittoria di Alessandra Todde, sostenuta dal Pd, dal M5S, dai rossoverdi e da un’altra serie di liste. La candidata pentastellata ha raggiunto il 45,4% dei voti che le basta contro il 45,1 del candidato di centrodestra Paolo Truzzu. La distanza di circa tremila voti dice che la destra non è crollata e, anzi, in termini di liste sopravanza il centrosinistra di 43 mila preferenze. Se non ci fosse stato un voto disgiunto a favore di Todde – è questo, al momento, l’elemento di polemica interna al fronte governativo e che viene imputato soprattutto a Matteo Salvini – Giorgia Meloni starebbe festeggiando il candidato che ha voluto con determinazione, uno di quegli esponenti della «generazione Atreju», i giovani del Movimento sociale italiano che hanno compiuto con la presidente del Consiglio la lunga traversata dai boschi del neofascismo alle dorate stanze del potere.
Ma Truzzu ha perso, Todde ha vinto e il risultato è lì a incrinare la spavalda sicumera dell’inquilina di palazzo Chigi e a conferire un po’ di vitalità a un fronte delle opposizioni finora tremebondo e diviso, più intento a marcarsi a vicenda che a costruire un’idea di società e di alternativa in grado di realizzare, anche sul piano del governo, la disponibilità al cambiamento che anima questo paese. Disponibilità certo confusa, frammentata, priva di un’omogeneità ideologica, spesso strattonata verso l’ultimo nome in città, il più nuovo e più dinamico del momento, ma che esiste. E che può spezzare i disegni di chi pensa di avere in mano il paese o il consenso.
Si tratta, infatti, soprattutto di una sconfitta di Giorgia Meloni non tanto per le solite alchimie elettoralistiche per cui si utilizza un’elezione locale per gettarla nel computo, diverso, degli equilibri politici complessivi, ma perché Truzzu è stato il candidato da lei scelto personalmente, imposto a una coalizione dubbiosa sacrificando il, pessimo, presidente uscente, Christian Solinas, chiamato dalla storia a sporcare il nome del Partito sardo d’azione dall’altare delle vicende di Emilio Lussu alla polvere di Salvini. Meloni ha pagato l’eccesso di sicurezza, succube del tic della megalomania che sembra colpire i vari leader di turno (dallo stesso Salvini a Matteo Renzi) inebriati dal successo personale, spesso privi di un’adeguata rete di strutture e radicamento sociali che consentano di scegliere come classe dirigente complessiva piuttosto che come uomini/donne sole al comando. Un backlash leaderistico che mostra come la presunta egemonia politica e culturale sia soprattutto una chiacchiera da palazzo che una realtà conclamata dai fatti.
Ma c’è anche la vittoria di Todde, nuorese, 55enne, manager e già viceministra allo Sviluppo economico del secondo governo Conte. Una delle figure, a volte femminili, si pensi a Chiara Appendino, che incarna la classe dirigente a cui pensa Giuseppe Conte: progressista, ma saldamente impiantata nel M5S, in grado di attrarre anche un voto di sinistra, e di influire sostanzialmente anche sulla linea del Pd che viene spostato verso una posizione più netta che pure in passato incubava al suo interno. Si pensi al grande sostegno che Todde ha avuto da Pierluigi Bersani e l’esultanza della sinistra interna ai Democratici che pensa così di aver controbilanciato il potere e l’attivismo dell’ala destra (si chiama così, il termine riformisti è un espediente furbesco) capeggiata da Stefano Bonaccini.
Una vittoria di sinistra che incarna un «cambio del vento», quindi, un punto di svolta dopo un anno e mezzo circa di melonismo, di destra che sembrava invincibile? Non proprio. Il dato dell’astensionismo viene, ad esempio, troppo rapidamente rimosso: circa metà dell’elettorato non si è recato alle urne, e questo dato, con un’ulteriore lieve diminuzione rispetto alle ultime elezioni regionali sarde, costituisce una chiara presa di distanza di una fetta ancora troppo ampia di elettori ed elettrici. Un chiaro segnale di disaffezione, di critica, di estraneità al dato politico-istituzionale che rende credibile anche un’altra analisi di fase e cioè che il voto è anche frutto della volontà di fermare l’avversario di turno e quindi un voto «contro». Non va escluso, lo scrive più chiaramente di tutti Marcello Sorgi su La Stampa, che a un consenso in extremis verso Alessandra Todde abbia influito anche l’emozione dei manganelli di Pisa, la sensazione che il governo in carica abbia troppo potere e che, soprattutto, voglia conquistarne molto di più e chiudere gli spazi di espressione.
Ma Todde è riuscita comunque a costruire anche un’alleanza «per»: come lei stessa ha spiegato presentando il suo programma e poi in campagna elettorale si tratta di una alleanza che riconosce «l’importanza dell’equità sociale, della tutela dei beni comuni, dell’emancipazione femminile, della salvaguardia del lavoro e dei salari, della lotta alla precarietà, dello sviluppo socialmente responsabile ma, soprattutto, della tutela dell’ambiente e della lotta contro il cambiamento climatico». La Transizione ecologica e la salvaguardia dell’ambiente in un territorio esposto alla speculazione immobiliare e finanziaria, come la Sardegna, è certamente un punto qualificante su cui sarà comunque da verificare quanto riuscirà a mantenere le promesse.
Todde è una chiara espressione di quel progressismo democratico che il M5S è riuscito a coltivare spesso più di quanto abbia fatto il Pd, partito totalmente risucchiato nelle logiche istituzionali e di élite, profilo che non a caso Schlein cerca di recuperare. Sul piano della manovra politica, del resto, è il punto su cui si può innescare sia un rapporto virtuoso tra lei e Conte, ma anche una competitività insidiosa di cui i due hanno dato finora una chiara prova. Su questa linea si può governare la Sardegna, sempre che le scelte – sull’energia rinnovabile, sul blocco della speculazione immobiliare e su misure sociali nette in una regione ad alto tasso di disoccupazione e sostanzialmente deindustrializzata – siano davvero coerenti con le promesse e le attese della campagna elettorale. Non è detto che basti, però, per una prospettiva di governo nazionale se davvero si vuole improntarla al cambiamento sostanziale: delle politiche ecologiche, certo, ma anche di quelle economiche e sociali, ancora sottoposte ai diktat dell’austerità europeista, e delle nuove logiche di guerra che permeano il mondo occidentale. Si tratta di un dibattito nazionale, ovviamente, in cui le forze della sinistra radicale sono soprattutto spettatrici e oggi prive di una forza d’urto tale da modificare il quadro.
Resta il dato politico. Le opposizioni hanno qualche carta in più da giocare e ora devono dimostrare di saper stare al tavolo e quindi di non limitarsi al politicismo o alle manovre di piccolo cabotaggio (sostanzialmente lo sport preferito di tutta la politica nazionale). Per fare opposizione al governo Meloni, sfruttando vittorie come quella sarda – che mette ancora una volta la sordina ai deliri centristi di Renzi e Calenda – occorre passare all’azione sul piano sociale. L’unico momento in cui Pd, M5S, Alleanza Verdi e Sinistra in quel caso anche con Azione, hanno messo in difficoltà, momentanea, Giorgia Meloni è stato con l’iniziativa sul salario minimo troppo presto dispersa e soprattutto mai resa disponibile a un’iniziativa di massa. Si potrebbe aprire un’altra finestra, sulla base della discussione referendaria sui temi del lavoro e dell’autonomia differenziata che riguarda la Cgil e un vasto mondo di associazioni e che potrebbe riguardare anche altri soggetti, specialmente se il fronte fosse davvero democratico e ramificato territorialmente. Se l’opposizione vuole davvero essere utile dovrebbe sostenere queste iniziative, dare sponda ai movimenti – la condanna dei manganelli della polizia non può essere fatta solo quando al governo c’è la destra, ma ricordata sempre – e mantenere un profilo nettamente alternativo (le mozioni bipartisan sulla guerra, ad esempio vanno proprio nel senso opposto).
Resta anche un tema troppo spesso eluso eppure vitale: la guerra. Che il no al massacro di Gaza, urlato ricorrendo all’unica parola che oggi, al di là di disquisizioni giuridiche pure ammissibili, sembra descrivere l’ingiustizia subita dai palestinesi – «genocidio» – venga solo dagli artisti è emblematico della fase. Prima Ghali a Sanremo poi gli autori di No other land al festival di Berlino, il palestinese Basel Adra e l’israeliano Yuval Abraham, con tanto di proteste inaudite da parte di Israele, hanno dato voce a un sentimento di indignazione diffuso, che riguarda soprattutto i più giovani e che la politica delle opposizioni non coglie. È un tema fondamentale perché per contrastare Meloni e le politiche della destra, culturali ed economiche, non basta solo dichiararsi di sinistra, occorre esserlo davvero.
*Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme).
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