Il bluff della tassa sugli extraprofitti
Quello che viene definito «contributo delle banche», oltre 3 miliardi in due anni, non è un contributo aggiuntivo, ma un anticipo di tasse future
Questa volta tocca dare ragione ad Antonio Tajani, quando dice che nella nuova finanziaria «non c’è nessuna tassa sugli extraprofitti». Non quando afferma che non esistono gli extraprofitti o che (contraddicendo immediatamente il fatto che non esistono) tale tassa sarebbe da Unione sovietica o da Venezuela di Maduro. Dalle prime notizie sull’accordo trovato in Consiglio dei ministri, infatti, il provvedimento sembrerebbe ridursi a un anticipo sulle tasse che gli istituti di credito dovrebbero fornire successivamente.
Dunque non propriamente una tassa: le banche non vedrebbero aumentare la loro pressione fiscale in relazione a un altro anno in cui i loro profitti sono saliti alle stelle, in particolare grazie a una politica monetaria che ha stabilito un costo del denaro più alto, passato in breve tempo dallo zero al 4%. Negli ultimi due anni così le banche italiane hanno realizzato profitti lordi pari a 25 miliardi nel 2022 e a 40 miliardi nel 2023.
A settembre si ipotizzava che una tassa sugli extraprofitti avrebbe potuto far incamerare allo Stato 1,3 miliardi a fronte degli oltre 65 realizzati nel settore. Nulla di trascendentale, come si può intuire. Ma gli annunci sul rigore di Giancarlo Giorgetti hanno immediatamente spaventato i famigerati mercati, mandando in fibrillazione la Borsa di Milano. La stessa cosa era accaduta lo scorso anno quando ad annunciare la tassa sugli extraprofitti era stato niente meno che Matteo Salvini. Alla fine l’elefante aveva partorito il solito topolino. Il governo aveva stabilito che le banche potevano pagare volontariamente tale tassa oppure rafforzare il proprio patrimonio indisponibile, cioè quello che non può essere monetizzato ai propri azionisti, per un valore due volte e mezzo superiore alla tassa prevista. Considerando il periodo di vacche grasse per gli istituti di credito, somme perlopiù equivalenti per il rafforzamento dei propri patrimoni erano già state preventivate e non andavano a intaccare particolarmente la remunerazione degli azionisti e neppure quella dei supermanager. Contribuivano semplicemente a rendere più solide le banche stesse. Indovinate quale è stata l’opzione preferita?
Oggi, al termine di una lunga disputa, la maggioranza di governo sembrerebbe aver optato, in accordo con le banche, per un contributo sotto forma di anticipo su tasse future, in particolare le cosiddette Imposte differite attive, cioè quelle tasse che vengono individuate a esercizio di bilancio ormai concluso e che vengono solitamente pagate successivamente. Quindi quello che viene definito contributo delle banche, pari a oltre 3 miliardi in due anni, non è un contributo aggiuntivo, ma un anticipo di tasse future. La riprova è che i mercati non vanno in fibrillazione, non sono spaventati dalla manovra. E come potrebbe essere diversamente?
Ancora una volta si decide non solo di non intaccare, seppur minimamente, alcuni di quei soggetti che in maniera ingiustificata guadagnano di più da questo momento di difficoltà, ma si pone l’ennesima ipoteca su qualsiasi principio di riequilibrio sociale e di giustizia. Inoltre si pone una pietra tombale su qualsiasi idea di far compartecipare con decisa progressività al risanamento di quel debito pubblico che viene addotto come motivo per i peggiori tagli lineari sulle spese sociali. Tagli che riprenderanno a pieno ritmo con il ritorno del principio austeritario in Europa nel nuovo Patto di stabilità.
Insomma il mercato teme le tasse sui ricchi, ma teme anche un debito pubblico eccessivamente alto, dunque ci obbliga a scaricare il prezzo sempre sui soggetti più deboli, non fosse altro perché vedranno tagliare le prestazioni di welfare. E qui sarebbe lunga la serie di esempi. Altro che i 3 miliardi aggiuntivi alla Sanità appena stabiliti che non servono neppure a recuperare ciò che ha eroso l’inflazione. In definitiva una blindatura ideologica che non lascia scampo.
Eppure abbiamo un sistema fiscale tra i più iniqui, incentrato sui consumi piuttosto che su ricchezza e patrimoni, dove i ricchi in proporzione sono meno tassati dei poveri, dove viene legalizzata una disparità di pressione fiscale tra lavoro dipendente e lavoro autonomo a parità di reddito. Dove c’è un’evasione fiscale enorme che nessun condono riesce a intaccare strutturalmente. E dove il principio in voga è quello secondo cui per far pagare le tasse bisogna ridurle, cioè ridurle a chi non le paga oppure prevalentemente alle imprese che non perdono mai l’appetito (il caso Stellantis è solo la punta dell’iceberg).
Ci sarebbero tutti gli elementi per mettere al centro una battaglia che ribalti il principio che le tasse devono essere sempre meno o, meglio ancora, inesistenti. Tale assunto in definitiva avvantaggia fasce sociali minoritarie, ma la loro egemonia culturale oggi è sotto gli occhi di tutti.
In un recente pamphlet dall’eloquente titolo Hanno vinto i ricchi, Riccardo Staglianò ricorda che l’Irpef, cioè l’imposta sul reddito delle persone fisiche, viene pagata prevalentemente da lavoratori dipendenti (53,5%) e pensionati (29,5%), mentre è evasa per il 69,7% da lavoratori autonomi. Le imposte di successione poi contribuiscono solo per lo 0,05% del Pil. Numeri ufficiali che gridano vendetta e che arrivano dal Mef, una fonte che, al di là di qualche annuncio, finisce sempre per non comprendere la portata delle sue stesse indagini.
La sinistra, invece di denunciare che la destra non rispetta gli impegni sul ridurre le tasse, cosa aspetta a mettere al centro la questione fiscale? Cosa aspetta a ripartire da una battaglia politica e culturale per far comprendere il vero oggetto del contendere?
Per non fare la brutta fine di tutti quelli che hanno annunciato una patrimoniale, bisognerebbe iniziare a descrivere dettagliatamente e in modo trasparente chi paga le tasse che utilizziamo per ospedali e scuole. Da dove arrivano le entrate e dove finiscono. Fare una bella radiografia socio-economica del paese in relazione al suo sistema fiscale. Viva le tasse, dunque, se a pagarle sono innanzitutto i ricchi! Da qui si dovrebbe ripartire. Uno slogan semplice che potrebbe nuovamente essere compreso.
*Marco Bertorello lavora nel porto di Genova, collabora con il manifesto ed è autore di saggi su economia, moneta e debito fra cui Non c’è euro che tenga (Alegre, 2014) e, con Danilo Corradi, Capitalismo tossico (Alegre, 2011) e Lo strano caso del debito italiano (Alegre, 2023).
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