Il capo politico e Jean-Jacques Rousseau
Un movimento nato contrapponendo la democrazia diretta digitale a quella rappresentativa va in crisi intorno alla figura del leader. Servirebbe forse rileggere l'opera del tanto citato filosofo del Settecento
Di Maio si è dimesso. Viene così a cadere nel Movimento 5 Stelle la figura del capo politico. Ma il fatto che si sia gradualmente ceduto il potere decisionale dalla base a una sempre più oscura e manipolatoria decisione di vertice e che questo potesse generare delle tensioni interne al movimento stesso, non può sorprendere chi conosca almeno un poco il pensiero politico di Jean Jacques Rousseau.
Primo teorico della modernità a aver ipotizzato la realizzazione di una democrazia diretta, Rousseau ne aveva già annunciato le implicite aporie. Nato a Ginevra da una famiglia calvinista di origine francese, Rousseau è stato uno dei pensatori più rivoluzionari della storia del pensiero politico moderno. Con il suo Contrat Social (1762) pose la teoria politica di fronte a un problema quanto mai attuale: ovvero, quello di far coincidere in un sistema democratico volontà individuale e volontà collettiva.
Secondo Rousseau il soggetto moderno è infatti diviso e scisso tra due dimensioni. In quanto uomo/homme e cittadino/citoyen è allo stesso tempo interessato alla difesa dei suoi interessi privati e chiamato a decidere su questioni che riguardano un interesse generale. Questa sua doppia natura presenta delle contraddizioni nel momento in cui l’individuo privato è chiamato a esprimersi in quanto cittadino riguardo a quelli che sono gli interessi comuni della collettività intera. Per risolvere questo problema, concepì la democrazia diretta a partire dal suo concetto di «volontà generale»: una volontà collettiva che non corrisponde né alla volontà della maggioranza, né alla somma delle volontà particolari, ma in grado di esprimere un’utilità generale e per questo infallibile.
Per creare questa sintesi e indirizzare le volontà particolari verso la volontà generale, Rousseau richiede l’alienazione di ogni diritto individuale alla collettività, attraverso quello che chiama per l’appunto, contratto sociale. Affinché il contratto sociale sussista, scrive Rousseau, «esso racchiude tacitamente l’obbligo, che solo può dare forza agli altri, quello per il quale chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale, vi sarà costretto da tutto il corpo: ciò che altro non significa che lo si costringerà a essere libero».
Nella macchina della democrazia diretta, ogni forma di conflitto interno al corpo sociale si risolve nella volontà generale. Non esiste più un conflitto tra le parti, ma soltanto la partecipazione collettiva dell’intera comunità alle singole decisioni politiche. Lo stesso governo e i suoi membri si presentano come meri esecutori di quella che è la volontà legislativa del popolo. I rappresentanti non hanno, secondo Rousseau, nessuna autorità verso il popolo, unico vero sovrano nelle decisioni legislative.
I 7 paradossi di Casaleggio
Allo stesso modo nel primo dei suoi 7 paradossi, elencati in un articolo del 19 settembre 2019 per Il Corriere della Sera, Davide Casaleggio scriveva: «Il rappresentato dovrebbe decidere sempre, salvo quando lo può fare solo il suo rappresentante» (punto 1). Secondo Casaleggio dovremmo infatti, affidare il più possibile le scelte politiche alla comunità dei cittadini, confidando nel fatto che l’intelligenza di una comunità decida sempre meglio per il proprio futuro, rispetto a un’élite ristretta (punto 5).
I detrattori della democrazia digitale dovrebbero infatti deporre il loro scetticismo ed essere «semplicemente accompagnati nel cambiamento» poiché «Il medium è il messaggio quando si comunica, è un semplice strumento quando si partecipa» (punto 2). Si potrebbe obiettare a questo secondo punto – che si presenta nella forma di uno slogan più che di un pensiero ragionato – che in una società della comunicazione come la nostra, le due cose spesso coincidono. Fare politica significa fare comunicazione: lo stesso Casaleggio più avanti si lamenta del fatto che ci si preoccupi di più che chi vota «sbagli» a votare, che di spiegare all’elettorato le proprie ragioni (punto 4).
Ignorando le implicazioni politiche delle sue affermazioni, Casaleggio paragona la sua rivoluzione digitale all’invenzione del treno o della stampa, proponendo di superare le paure legate a ogni forma di innovazione attraverso la cultura e l’esperienza. Il vero problema, ci dice il figlio del guru fondatore del Movimento, è chi sostiene il modello dei partiti e si lamenta dei propri rappresentanti (punto 3); chi contesta le scelte prese da oltre 100mila persone e spesso tollera che le prendano in cinque; chi si lamenta del mancato rispetto delle istituzioni e affida le proprie scelte a piccoli gruppi di dirigenti di partito non eletti dai cittadini (punto 6).
Il vero problema è dunque lo scollamento della classe dirigente rispetto alla sua base elettorale, che è colpevole a sua volta di lamentarsi di non essere rappresentata. Un problema reale questo, al quale bisogna rimediare, secondo Casaleggio, attraverso una maggiore disintermediazione nelle decisioni politiche, levando potere ai rappresentanti e trasferendolo ai rappresentati.
Dal voto e dalla partecipazione alle scelte politiche, risulterà infatti una maggiore unione e un maggior accordo tra le parti, secondo quello che è il rispetto delle scelte della maggioranza. Ed è proprio quest’ultimo punto quello più interessante: «Una comunità che vota – scrive Casaleggio – si unisce anche se ha opinioni diverse» (punto 7).
Ma vediamo se è proprio così che funziona la democrazia diretta e quanto le sue finalità ideali si distacchino da quelli che sono i suoi problemi effettivi. Già Rousseau nel suo Contrat social era costretto a riconoscere i limiti di una democrazia diretta del tutto priva di un indirizzo politico. Com’è possibile infatti, far confluire la volontà di una moltitudine di singoli in un’unica volontà generale senza che ci sia qualcuno a indirizzarla?
Il legislatore esterno
Nel Cap. VII del Contrat social, Rousseau parla della necessità di un legislatore esterno capace di indirizzare la volontà generale verso il bene comune e che trasformi l’uomo privato in cittadino al servizio della comunità. La figura carismatica del comico Grillo è da questo punto di vista estremamente interessante. Proprio perché esterno a qualsiasi carica politica, Grillo non assume il ruolo di mero esecutore della volontà popolare, ma di vero e proprio influencer politico.
Il comico entra infatti in comunicazione diretta con il popolo ogniqualvolta si pongano questioni che non riescono a mettere d’accordo i rappresentanti del M5S. Trasformando gli spettacoli teatrali in comizi politici o i comizi politici in stand up commedies, Grillo non rinuncia a riscuotere consensi e a dettare la linea politica ai parlamentari del M5S, sempre coesi nel rispettarla dopo le votazioni online, oppure allontanati ed espulsi, se dissidenti.
Grillo è insomma, come direbbe Rousseau, il legislatore perfetto: non ha e non deve avere alcun diritto legislativo e con un’autorità nulla, avere il massimo dell’influenza nell’indirizzare la volonté générale. Si spiega in questo senso anche la disponibilità della base ad accettare prima un’alleanza di governo con una forza che non ha mai tentato di mascherare le proprie tendenze di estrema destra e successivamente con un partito sostanzialmente centrista, tutt’altro che rivolto al cosiddetto «cambiamento».
Alla neutralità delle forme di autorganizzazione interna della democrazia diretta del M5S – come il Non-statuto, le votazioni su Rousseau, il contratto di governo o la figura del garante e «avvocato degli italiani» Giuseppe Conte – corrispondono dunque alcune figure che dall’esterno indirizzano l’opinione pubblica e dall’interno dettano la linea politica, come il sopra citato comico, Davide Casaleggio e per l’appunto, l’ormai ex capo politico Luigi Di Maio.
Dalla democrazia del conflitto alla democrazia del consenso
Ciò che stupisce di più di questo meccanismo politico è la sua incredibile capacità di creare consenso tra gli iscritti e allo stesso tempo di sopprimere il dissenso degli eletti interni al Movimento stesso. Ricorrendo spesso alla piattaforma Rousseau come strumento democratico plebiscitario, i vertici e gestori della piattaforma possono imporre ai rappresentanti di seguire una linea votata a maggioranza online, appiattendo le diverse posizioni interne su un’unica volontà collettiva espressa in un quesito dalla forma referendaria che limita il voto a un «Sì» o «No».
Ogni volta che si è dovuto decidere su questioni spinose – ricordiamo ad esempio, il quesito sottoposto agli elettori del M5S per votare in Parlamento l’immunità dell’ormai ex ministro dell’Interno sul caso della nave Diciotti o la più recente alleanza di governo con il Partito democratico – si ricorreva alla piattaforma online per dettare la linea di voto dei parlamentari pentastellati.
Come dimostrato in un recente articolo di Paolo Gerbaudo, da quando è stato fondato il M5S ha proposto più di 40 quesiti referendari ottenendo in quasi tutte le votazioni un risultato favorevole alla linea dettata dalla sua leadership. Dal 2012 a oggi sono stati espulsi dal Movimento 60 iscritti, tra cui 18 parlamentari e 19 senatori, grazie alla legittimità ottenuta dai leader attraverso le consultazioni referendarie online. A ciò si aggiunge una possibile critica alle modalità opache con le quali viene gestita la piattaforma Rousseau.
Non c’è infatti alcun regolamento ufficiale che stabilisca le modalità secondo le quali devono avvenire i referendum online: Chi formula i quesiti? Chi e quando stabilisce che le votazioni possano avere solo una forma referendaria? Chi stabilisce quando e perché si debba ricorrere al voto online? Su quali materie è chiamato a decidere un iscritto al M5S? Su quali invece no?
Sono queste tutte decisioni ancora affidate all’occasione e al pragmatismo dei vertici del Movimento e che dovrebbero invece essere regolate da uno statuto. Il progetto grillino non nasce come nuova forma di organizzazione partitica interna, ma come sfida paraistituzionale ai partiti tradizionali: un progetto visionario che voleva sfidare le istituzioni con la rete. La sua normalizzazione e l’assorbimento istituzionale lo hanno poi trasformato in un semplice strumento di organizzazione interna a un partito, mostrandone i più recenti limiti.
Quale futuro per la democrazia?
Già in crisi da tempo a causa delle sue derive neoliberali ed elitiste (si è parlato in uno degli ultimi numeri di Jacobin Italia dei fallimenti di una controrivoluzione neoliberale che dura ormai da quarant’anni), il principio rappresentativo sul quale si regge la democrazia rappresentativa è ormai messo in discussione sia dai critici che dai sostenitori di un ricorso diretto alla decisione dei «cittadini». Il problema che si pone è se il superamento della democrazia rappresentativa a favore di una forma di democrazia più diretta, significhi davvero una maggiore democrazia.
Lungi dall’essere uno strumento di maggiore partecipazione collettiva alla vita politica, la democrazia diretta delle piattaforme online rischia infatti di rivelarsi uno strumento di livellamento molto più vicino alle forme di governo dispotico che non a quelle di una partecipazione politica attiva, se non accompagnato dalla determinazione di nuovi contenuti politici che siano in grado di portare a espressione le istanze di una parte della società.
Nella «reactive democracy» delle democrazie online descritte da Gerbaudo, le diverse opinioni politiche sono infatti sostituite dalle decisioni plebiscitarie di una maggioranza di singoli chiamati semplicemente a reagire (come sui social) a delle proposte che vengono dall’alto. La democrazia diretta si appella a una moltitudine più incline a seguire la linea dei vertici che non a formulare un dibattito su nuovi contenuti, ripresentando forse in forma più nascosta ma più accentuata, lo scollamento tra base e vertici che inizialmente intendeva superare.
Non sorprende da questo punto di vista che in un sistema come quello descritto, in cui i rappresentanti non vengono interpellati, ma scavalcati da un sistema plebiscitario facilmente manovrabile dai vertici, la richiesta di abbandonare la figura del capo politico – con le successive dimissioni di Di Maio – non abbia tardato ad arrivare.
La democrazia rappresentativa ha sicuramente bisogno di essere ripensata radicalmente nei suoi meccanismi di rappresentanza. Bisogna tornare a coinvolgere la base popolare della società: eppure, come articolare questo coinvolgimento se non con un ritorno ai contenuti? La ricetta della disintermediazione, condita da slogan come il «non siamo né di destra, né di sinistra», sembra mostrare i suoi limiti. Come rispondere se non ricorrendo a nuovi contenuti, da sinistra?
* Bianca Maria Esposito, laureata in Filosofia all’Università La Sapienza di Roma, è attualmente dottoranda presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, dove si occupa di teologia politica.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.