
Il caso Segre e i limiti dell’antirazzismo di stato
Il dibattito sulla cosiddetta «commissione Segre» rischia di trasformare l'antirazzismo in una condanna morale autoassolutoria, invece che in pratica di ricomposizione sociale e di emancipazione dalle diverse forme di sfruttamento
Come tieni alla tua purezza, ragazzo! Come hai paura di sporcarti le mani. Ebbene, resta puro! A che cosa servirà e perché vieni tra noi? La purezza è un’ideale da fachiri, da monaci.
Nelle ultime settimane è stata al centro del dibattito pubblico la notizia dell’astensione dei partiti di destra nella votazione per l’istituzione della commissione contro il razzismo proposta dalla senatrice Liliana Segre, una delle ultime sopravvissute ai lager nazisti rimaste ancora in vita. Motivazione dell’astensione, il timore che la commissione, lungi dal concentrarsi sul solo antisemitismo, si occupasse di tutti i fenomeni di odio razziale rischiando così di produrre, a detta degli esponenti dell’opposizione, uno scenario distopico sul modello di 1984, il celebre romanzo di George Orwell che racconta una Gran Bretagna futura in cui polizia del pensiero e ministeri morali si occupano di controllare e disciplinare ogni manifestazione di libera espressione. Dai banchi dei partiti di destra qualcuno ha anche giustificato la propria astensione in virtù dell’assenza di qualsiasi riferimento alla «cristianofobia», rovesciando l’accusa di razzismo sulla commissione stessa.
Le vicende che sono seguite, tra minacce via web rivolte alla senatrice, l’esposizione di uno striscione da parte di Forza Nuova e la decisione di assegnarle una scorta, fanno parte di un copione che fatichiamo ormai a considerare nuovo o eccezionale, una sceneggiatura in cui gli argomenti si succedono in modo sorprendentemente simile. Dalla legge Fiano di qualche tempo fa alla costruzione del solito panico morale mediatico che segue a ogni episodio di antisemitismo e razzismo che coinvolge le curve italiane, codificati dai media sempre allo stesso modo per isolare il virus in soggetti (gli ultrà) e spazi (gli stadi, i poveri dei quartieri periferici, ecc.) ben visibili, questo genere di dibattiti sempre uguali a sé stessi ci accompagna ormai da anni. Una ripetizione senza differenza di argomenti, un gioco delle parti del quale crediamo sia giunto il momento di analizzare le dinamiche per chiarire il ruolo che questo «psicodramma» finisce per avere, non solo sulla continua produzione e riproduzione di un certo senso comune su cosa sia il razzismo e su come debba intervenire l’antirazzismo, ma anche nelle modalità di governo dell’attuale congiuntura politico-economica.
Per i fan del politicamente scorretto, di quella destra che dà libero sfogo a qualsiasi pulsione attraversi il proprio elettorato, la questione è semplice: siamo liberi di esprimere la nostra opinione, di manifestare un pensiero, di scherzare senza prenderci troppo sul serio. Come al solito si nega ogni razzismo e si sostiene di essere semplicemente dei portatori di istanze «contro-corrente», ma di buon senso. Dall’altra parte, invece, si evoca il paradosso della tolleranza: l’odio non è un’opinione, il razzismo non è uno scherzo e sostenere ideologie che limitino la libertà d’espressione non è ammissibile, poiché un loro prevalere significherebbe l’abolizione di quella stessa costituzione che ci garantisce il diritto d’espressione. E allora via alle solite soluzioni, ossia repressione e applicazione di leggi contro l’odio razziale e, come due facce della stessa medaglia, promozione della scuola e dell’educazione come nuclei fondamentali di un’azione pedagogica antirazzista. Il razzismo diventa una mera questione di idee brutte e sbagliate; l’antirazzismo, una mera questione di educazione alle idee belle e giuste.
Se la situazione appare sempre più grave, all’epoca delle fake news e della post-verità, come se il razzismo dipendesse unicamente dalla libera circolazione di idee razziste e suprematiste nelle reti sociali, o dalle strategie mediatiche dei vari Bannon e dell’Alt-Right, la sinistra progressista sembra trovare conforto tornando all’ovile dell’illuminismo, alla rassicurante invocazione della (propria) luce contro le tenebre dell’ignoranza e della razionalità democratica contro il barbaro reazionario. Interpretando il quadro politico come una commedia dell’arte, potremmo tradurre le due posizioni come un eterno gioco di specchi tra una maschera demoniaca, quella della minaccia, e la maschera rassicurante del buon cittadino, colui che si indigna. Due maschere che si nutrono vicendevolmente e che, dietro la loro apparente contraddizione, non fanno che contribuire congiuntamente a una più sostanziale sterilizzazione del dibattito. E anche a qualcosa di più perverso: a invisibilizzare ancora di più il razzismo come fenomeno sociale-materiale. Questa forma di visibilizzazione del razzismo (in soggetti e luoghi «altri» ben identificabili) non fa che distogliere l’attenzione sia dalle sue potenti articolazioni silenziose, negli spazi e nella «norma» della vita di tutti i giorni, sia dalle sue imbricazioni nelle strutture di potere della società e delle sue istituzioni (nazionali ed europee).
Sterilizzare l’antirazzismo: il razzismo come hate speech
I molteplici temi che emergono dall’analisi degli eventi intorno alla creazione della Commissione mostrano un implicito accordo su un’interpretazione del razzismo riduttiva e politicamente fuorviante, il cui paradigma è modellato dalla fattispecie del «reato d’opinione»: razzismo uguale a istigazione all’odio razziale. Questione chiarita e dunque finita. Si tratta di un fenomeno sempre più dilagante all’interno del tessuto sociale, certo, ne abbiamo coscienza e istituiamo una commissione apposita, ci viene detto.
Il problema è che il razzismo, inquadrato a partire da questa definizione, viene ridotto a qualcosa di meramente «privato», «intenzionale» e «soggettivo», a una somma di comportamenti e di parole che hanno il fine esplicito di insultare, discriminare e inferiorizzare l’Altro, sulla base di diversità socialmente costruite. In questo modo, il fenomeno viene spogliato da ogni tipo di profondità storica: il lessico corrente, non a caso, tende a catalogarlo tra le forme di hate speech, espressione ambigua che permette di tenere insieme ogni tipo di comportamento o parola violenta, privandola di contesto e di un riferimento ai rapporti di forza e di potere nei quali siamo immersi. È proprio questa riduzione liberal-progressista di razzismo e sessismo a questioni di mera «intolleranza» e pulizia linguistica, a produrre la sua nemesi: a rendere possibile l’equiparazione, come propongono spesso le destre, di razzismo anti-nero e razzismo anti-arabo con nuovi arrivati come la cosiddetta cristianofobia e il razzismo anti-bianco, in un tutto indifferenziato il cui unico comun denominatore sarebbe l’odio.
Il punto è che questa narrazione politico-mediatico-istituzionale su razzisti e antirazzisti continua a produrre e riprodurre un approccio al razzismo come fenomeno sociale-nazionale tanto riduttivo e parziale quanto autoassolutorio: il suo algoritmo profondo risiederebbe in un «difetto di rappresentazione», la sua ragion d’essere viene invece allocata in quelle precise manipolazioni politiche che hanno l’obiettivo principale di approfittare delle ansie, della paura e della credulità popolare, creando così dei falsi nemici, dei moderni Mefistofele e dei capri espiatori. Posto fuori dai confini della democrazia, ovvero del luogo dell’immaginario confronto razionale, il razzismo ne costituirebbe un’anomala escrescenza, irragionevole e passionale, la cui gravità essenziale risiede nel fatto che negli ultimi anni stiamo assistendo a una sua normalizzazione, grazie a quegli imprenditori politici abili a sfruttare le diverse crisi prodotte dalla globalizzazione economica.
È un quadro interpretativo che informa molteplici iniziative antirazziste, e di cui la commissione Segre non ne è che un esempio istituzionale: sconfiggere Salvini per sconfiggere il razzismo, potremmo dire semplificando, è l’imperativo politico che attraversa buona parte delle coscienze sinceramente progressiste, in un arco che va dall’associazionismo Ong alla sinistra istituzionale, fino a quella più radicale e perfino a una parte dei movimenti sociali. Ne consegue un cocktail di prese di posizione a favore di un maggiore impegno nella scolarizzazione, di una più lesta repressione e condanna pubblica da parte delle autorità statali e, alle volte, una perorazione a combattere le disuguaglianze sociali.
La storia del razzismo è anche una storia di comportamenti individuali e di atti brutali, ed è anche la storia di quello che Norman Ajari ha descritto come un dispositivo di insensibilizzazione bianca di fronte a tali eventi. Per chi ne subisce le conseguenze e per chi attraversa le strade facendo della lotta antirazzista una pratica di politica quotidiana, il razzismo non può non essere incarnato anche da quello specifico soggetto contro il quale è necessario agire e reagire con violenza. Tuttavia, a livello di strategia e di analisi più generale, una tale riduzione non può che essere controproducente e autoassolutoria. Non può che generare un approccio di tipo missionario alla politica, il bene contro il male e la sua incarnazione negli «Altri», incapace di osservare le molteplici zone di grigio che caratterizzano il tessuto sociale e destinato a rendere statiche ed eterne le appartenenze politiche. Un approccio che trasforma la politica in una postura morale e che dopo aver esaurito le proprie possibilità educative non può che limitarsi a condannare i «cattivi»: in questo ha la commissione Segre come suo inevitabile punto d’approdo.
Che roba, contessa: i civili contro i barbari
Una volta che il razzismo è stato espulso dal campo del sociale, o confinato all’interno delle sue espressioni più soggettive e visibili, diviene l’oggetto di un processo di «alterizzazione»: a una riflessione sul ruolo centrale che svolge nei meccanismi di gestione statale della crisi, si sostituisce la ricerca del profilo sociale dell’individuo razzista, molto spesso intrisa di diversi riflessi classisti. Ciò risulta ben visibile dall’attenzione ossessiva che, da sinistra, è riservata al campo scolastico e alle carenze di capitale culturale che caratterizzerebbe sia l’elettorato di destra che l’exploit della Lega, finendo molto spesso con il rappresentare il razzismo come un monopolio esclusivo delle classi popolari. Primitive, credulone e congenitamente ignoranti, sono paradossalmente definite attraverso una serie di stereotipi coloniali, prodotti forse di quell’effetto di ritorno che storicamente il colonialismo ha avuto all’interno delle stesse frontiere europee. Si finisce così per ricostruire e alimentare una problematica contrapposizione, storicamente anch’essa classista e coloniale, tra «civiltà» e «barbarie»: da una parte «Noi», colti, civili, e narcisisticamente innamorati delle proprie belle idee, dall’altra i «barbari», coloro (purtroppo) bisognosi di una giusta istruzione.
Non che non si debbano combattere i razzisti per ciò che sono, o sostenere che le classi popolari non siano attraversate, come il resto della società, da una struttura di sentimento razzista, ma questa logica rischia di fare dell’antirazzismo, non una pratica centrale di ricomposizione sociale e di emancipazione dalle diverse forme di sfruttamento, bensì un mero discorso di self-empowerment delle classi medie «colte», un discutibile segno di mera supremazia morale.
Questo tipo di approccio volto a dare visibilità ad alcuni partiti e ai gesti di razzismo più volgare, finisce per apparire funzionale a preservare un sistema fondato sulla sistematica razzializzazione di popolazioni e territori. Svolgendo la funzione mitica di purificare la democrazia, consegnando il «male» a una sua degenerazione, permette di rendere letteralmente invisibile l’intreccio costitutivo tra lo stato, la democrazia liberale e i meccanismi di estrazione di un plus-valore razziale dai rapporti capitalistici. Permette di depotenziare la portata reale dell’antirazzismo trasformandolo in poco più che un elogio dei buoni sentimenti e di un linguaggio attento alle diversità: a poco serve contestare un saluto romano o un ululato quando si accetta, senza rinvenirne alcun problema politico, che la badante sia necessariamente romena, filippina o srilankese; quando non si riconosce quanto la normalità democratica sia intrisa di razzismo e quanto la dimensione di sfruttamento materiale e di segregazione – lavorativa, urbana, scolastica, ecc. – degli spazi non abbia alcun bisogno dell’espressione urlata, dell’odio manifesto, ma possa tranquillamente convivere con un’accettazione compiaciuta del «diverso».
È da questo elogio dei buoni sentimenti che, tra l’altro, si alimenta quella confusione che tende a cancellare ogni differenza tra le molteplici forme di odio, rischiando così di consegnare il monopolio di tale passione alle destre e di buttare nel dimenticatoio un’intera storia in cui le lotte per l’emancipazione e la liberazione hanno sempre intrecciato odio e amore in modo complesso. Rendersi estranei all’odio significa produrre il terreno fertile per l’emergere di discorsi subdoli e assai poco chiarificatori: è così che si apre la strada a quelle discussioni mistificatorie sul «razzismo anti-bianco» o sulla «cristianofobia», la cui logica è completamente all’interno di questa costruzione del razzismo del tutto soggettiva, aspecifica e astorica. Nessun episodio, per quanto spiacevole possa apparire alle nostre coscienze, può rendere equiparabile il «razzismo sdentato» degli oppressi – per riprendere una nota espressione del classico di Albert Memmi Ritratto del colonizzato – e il razzismo degli oppressori, che si presenta e risuona con tutta la forza della storia, delle istituzioni e degli apparati di Stato. Nella nostra società, non si finisce nelle sue nicchie più marginali, non si è vittima della segregazione lavorativa, urbana o carceraria, a causa del colore bianco della pelle o dell’essere cristiano. Razzismo anti-bianco, da questo punto di vista, è una contraddizione in termini.
Parliamo qui di costruzione astorica del razzismo anche perché dentro all’ordine del discorso instaurato dall’istituzione della Commissione, l’unica articolazione storica del razzismo a divenire «dicibile», a modellare (silenziandole) tutte le altre, è l’antisemitismo: ma un antisemitismo concepito in modo assai eurocentrico e autoassolutorio, deprivato da ogni sua connessione con i crimini razziali secolari dell’Europa coloniale. In questo modo, si apre la strada non solo alla rimozione dei formidabili insegnamenti della tradizione nera, Aime Césaire e Frantz Fanon in primo luogo, ma anche di un’ebrea come Hannah Arendt. Stando così le cose, non può colpire più di tanto che nel 2018 siano stati ampiamente (e giustamente) ricordati gli ottant’anni delle leggi antiebraiche dello stato razziale fascista con molteplici iniziative, mentre l’anno precedente l’ottantesimo anniversario delle prime leggi razziali italiane, quelle applicate nel 1937 nelle colonie africane, siano passati del tutto inosservati. Difficile che agli occhi della numerosa popolazione proveniente dall’Eritrea, dall’Etiopia e dalla Somalia (e non solo) residente in Italia, questa discriminazione non appaia come una forma perversa di «razzismo istituzionale».
È solo rendendo al razzismo la sua specificità di fenomeno storico e politico, scrostandolo da una storica sottovalutazione bianca ed europea, che si può restituirgli una dimensione materiale meno eterea e più attenta ai rapporti di produzione: riconsiderarlo come uno dei principali portati economici e culturali della storia (nazionale ed europea) del colonialismo e dell’imperialismo. Allo stesso modo in cui non ci sogneremo di considerare gli atteggiamenti esplicitamente classisti come la sostanza del rapporto tra le classi, così non è l’insulto la grana del rapporto razzializzato. Lo sforzo di ridurre al silenzio, reprimendole, quelle pulsioni razziali che covano in maniera sempre più esplicita in settori ampi della popolazione, è di certo necessario a mantenere intatti i contorni di una buona coscienza: il puro e innocente ha strutturalmente bisogno dell’impuro e del colpevole. Ma come mostra non solo il razzismo esplicito di Salvini e di buona parte del mondo politico, ma soprattutto il continuo susseguirsi di aggressioni, violenze e omicidi razzisti sull’intero territorio nazionale, il tempo dell’innocenza italiana è chiaramente finito..
Dall’antirazzismo di stato all’antirazzismo politico
Uscire da questo tipo di contrapposizione binaria è allora indispensabile per smettere di ragionare sul razzismo in termini di qualità sociologiche, incarnate in quel partito, in quel soggetto o in quell’ideal-tipo sociale. Ci attraversa tutti, struttura i luoghi in cui viviamo e lavoriamo. Piuttosto che renderlo più evanescente, dovremmo immergerci nei conflitti, per forza di cose sempre spuri e contraddittori, consci che la lotta antirazzista non può che passare per la trasformazione delle condizioni di vita e non può limitarsi alle manifestazioni di esplicito odio razziale.
L’antirazzismo di stato promosso dalla commissione Segre, al di là della figura storica della senatrice, promuove un «antirazzismo morale» anziché un «antirazzismo politico»: un discorso antirazzista utile più all’empowerment del buon cittadino, bianco e di classe media, che non a coloro che subiscono le diverse espressioni della violenza razzista sulla propria esistenza sociale. Questo antirazzismo morale non fa che riproporre il razzismo come semplice «(xeno)fobia», come deficit meramente personale/soggettivo e/o culturale. Oscurando la sua dimensione storico-sociale, la sua capacità di regolare un accesso gerarchico e differenziato al mercato del lavoro, così come alla mobilità e alle risorse sociali dei gruppi e dei soggetti, in virtù delle appartenenze di razza, classe e genere, esso finisce per risolversi nella promozione di una retorica apertura (multiculturale o interculturale) alla differenza, lasciando inalterate le disuguaglianze razzialmente strutturali.
Paradossalmente, questa forma di antirazzismo non fa che legittimare e riprodurre non solo lo storico privilegio «bianco» nella sua versione locale, ma soprattutto «il razzismo di stato o istituzionale». L’odio, l’inferiorizzazione e il disprezzo razzista, come il sessismo e la misoginia, non sono semplicemente reati di opinione, né tanto meno il prodotto di fobie o di comportamenti meramente individuali e soggettivi: scorrono nelle strutture sociali, materiali e culturali della nostra società, sono impregnati della sua stessa logica produttiva. L’ipocrisia istituzionale e liberale, sempre pronta ad assolversi scaricando l’origine dei mali sul barbaro di turno, appare qui come parte di un unico dispositivo che intreccia razzismo e classismo come strumenti di governo: è in questo senso che per noi la commissione Segre è parte del problema. L’antirazzismo morale che in qualche modo la sostenta viene perfettamente a iscriversi in ciò che la tradizione africano-americana radicale ha denominato «la bianchezza come sistema ideologico». Un limite che non possiamo più permetterci in una società da tempo non più bianca. Solo un salto di qualità del nostro antirazzismo potrà metterci davvero in salvo da questo pericoloso e mistificante antirazzismo di stato.
* Andrea Caroselli, antropologo, si occupa principalmente di conflitto giovanile e dei processi di segregazione scolastica tra le diverse filiere dell’istruzione secondaria. È attualmente dottorando presso l’Università di Padova. Miguel Mellino è docente di Studi Postcoloniali nell’Università di Napoli “L’Orientale”. Si occupa di migrazioni, razzismo e questioni e conflitti riguardanti l’eredità del colonialismo nell’Europa di oggi. Tra le sue pubblicazioni più recenti Governare la crisi dei rifugiati (Deriveapprodi 2019), Stuart Hall: Cultura, Razza e Potere (ombre corte 2015), Cittadinanze Postcoloniali (Carocci, 2012)
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