
Il delitto di Colli Albani e la città delle diseguaglianze
L'omicidio a Roma di Luca Sacchi è servito ai media mainstream per rilanciare retoriche securitarie e classiste. Nessuno parla delle ingiustizie che attraversano la città e creano terreno fertile per la criminalità organizzata
Sai, ora Bruno è diventato intelligente. Lo sai che fa? Sotto i portoni dove vende chiama quelli per pulire… gli fa pulire i prati… gli sta rifacendo i prati sotto casa della gente… qua dice, ho le piazze, la gente mi deve volere bene a me. Ha chiamato anche quelli che puliscono, rastrellano… ha comprato i fiori… ha piantato i fiori, la gente è contenta. Dà i soldi a tutti quanti, fa la spesa della gente in difficoltà. Lo vedo con le buste: una busta a questo, una busta a quello… la gente ti deve volere bene dove hai la piazza.
Per descrivere il ruolo sociale che ha assunto lo spaccio e il consumo di droga a Roma basta leggere le intercettazioni criminali riportate nel libro scritto da Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino, Modelli Criminali (Laterza). Il graduale arretramento delle istituzioni dai quartieri più poveri insinua nelle comunità la scorciatoia di un welfare criminale che punta alla pace sociale per preservare la propria attività. In questo quadro vanno probabilmente letti gli ultimi drammatici avvenimenti che hanno portato all’omicidio di Luca Sacchi, 24 anni, intervenuto a soccorrere la compagna, Anastasiya, aggredita da due ragazzi che volevano rubarle lo zainetto dove, da quello che sembra emergere dalle indagini, erano contenuti dei soldi da utilizzare per l’acquisto di marijuana.
L’apparente insensattezza del fatto, la giovane età dei ragazzi coinvolti, il quartiere dove è avvenuto l’omicidio e quello da dove provenivano i presunti autori del reato, hanno dato la stura alla retorica securitaria in salsa classista di chi addita gli abitanti dei quartieri popolari come responsabili degli eventi criminosi che accadono in città. I giornali e i siti online si sono subito buttati a capofitto sulla notizia, iniziando a sciorinare una serie di banalità, luoghi comuni, come il Corriere della sera che scrive: «l’altra Roma che acchiappa questa per i piedi, cerca di trascinarla giù, nei luoghi comuni di ghetti come Torpignattara o Tor Bella Monaca, la Roma problematica che ci tramandiamo come un esorcismo (bordi di periferia…)». Laddove l’altra Roma sarebbe quella dove vive la maggioranza dei cittadini romani espulsi dal centro e dalla città consolidata a causa di un costo della vita sempre più insostenibile mentre Colli Albani – dove è avvenuto il delitto – ma soprattutto l’Appio Latino, rappresentano gli archetipi sociali della città bene.
Ecco come la descrizione di un delitto si trasforma in un racconto classista pieno di stereotipi, dove la gravità del fatto non è connaturato all’omicidio commesso, ma all’essere stato commesso in un «quartiere bene» di Roma. Quasi a dire che finché si ammazzano là, nell’«altra Roma», è un fatto loro, mentre se si inizia a commettere reati anche «qui», da «noi», allora la questione comincia a essere un problema.
Delle 100 piazze di spaccio di Roma che fruttano ognuna anche 20 mila euro al giorno, degli scippi, delle 200 aggressioni sui mezzi pubblici dell’Atac dall’inizio dell’anno, della città fuori controllo, se ne parla quasi solo quando le vittime sono quelle della «Roma di Sopra», per usare la metafora del non più mafioso Carminati. Finché la violenza, la criminalità organizzata, lo spaccio alla luce del sole rimangono confinati nella «Roma di Sotto», nella Remoria di cui parla Mattioli nel suo splendido affresco sulle periferie romane, allora va tutto bene. Quando la violenza esce, invece, fuori dai luoghi deputati alla sua commissione, tracima in quella che ironicamente viene chiamata la Roma della Ztl (acronimo di Zona a Traffico Limitato), allora vengono arruolati stuoli di sociologi, criminologi, opinionisti per raccontare – al milione e mezzo di romani che vive nella «Roma di Sotto» – dell’influenza negativa delle fiction alla Gomorra sui costumi sociali dei giovani, dei tatuaggi usati per riprodurre le gesta degli antieroi che popolano il loro immaginario ideale, dei quartieri bunker dove i cittadini vivono asserragliati nelle proprie case per non infastidire gli spacciatori.
In questa sciatteria informativa, dove non capisci più dove finisce il classismo e inizia l’ignoranza, avviene poi che per due giorni si criminalizza un intero quartiere – quello di San Basilio – noto alle cronache per la soffocante presenza dello spaccio di droga, additandolo come quartiere di provenienza dei criminali che hanno ucciso Luca Sacchi che invece provengono da un altro quartiere che dista ben tre chilometri da lì, segnatamente Casalmonastero, e che non potrebbe essere più diverso da San Basilio. Casalmonastero, infatti, è il classico quartiere fatto di piccole villette e da palazzine di 5/6 piani, come ce ne sono tanti a Roma, edificati per mimare il canone estetico di questi anni, e sopperire al perduto benessere, figlio della cacciata del ceto medio dai quartieri cool della capitale. È quartiere di classe media che in questa periferia è riuscita a ottenere un mutuo per comprare l’agognata casa di proprietà, in una zona incastonata tra la Tiburtina, il Grande raccordo anulare e la Centrale del latte di Roma. San Basilio invece è un quartiere composto quasi esclusivamente da edilizia popolare abbandonata a sé stessa da anni dall’Ater, l’ente regionale che gestisce gran parte del patrimonio pubblico della capitale, senza neanche avere contezza precisa del numero di case che amministra.
Quello che manca del tutto nella lettura interpretativa che condanna alla dannazione i quartieri popolari è l’analisi sociale delle diseguaglianze che affliggono la «città di Sotto» che, analizzate nella loro complessità, consentirebbero di interpretare la correlazione esistente fra il disagio economico e sociale e la diffusa presenza della criminalità organizzata. Quest’ultima infatti si insinua subdola nei quartieri dove la crisi economica, il neoliberismo, il disinteresse della politica, hanno provocato maggiori danni, aprendo varchi inattesi a forme innovative di organizzazioni criminali che riproducono forme di welfare alternativo come strumento con cui costruire reti di consenso sociale e complicità in cui agire e prosperare.
È allora emblematico l’arresto, qualche giorno fa, di 16 persone appartenenti a un’organizzazione criminale con base a Tor Bella Monaca, che aveva messo su un particolare strumento per il commercio delle sostanze stupefacenti, con un’organizzazione articolata su turni h 24 quasi di stampo fordista, e una retribuzione certa e proporzionata al ruolo e all’importanza del lavoro svolto. Il clan Moccia utilizzava una palazzina di proprietà dell’Ater appositamente trasformata in una casamatta dove svolgere le proprie finalità criminali, mediante la realizzazione di una fessura nella parte inferiore del telaio delle cassette della posta presente all’interno dell’ingresso della palazzina pubblica, appositamente praticata per consentire il passaggio di denaro/stupefacente tra l’acquirente e il pusher, con quest’ultimo che rimaneva nel corso del suo turno di lavoro barricato nell’androne, con il portone d’ingresso condominiale sbarrato da una serie di chiavistelli montati ad arte ed apribili manualmente solo dall’interno. Uno stratagemma che consentiva allo spacciatore di ricevere, attraverso il buco il denaro dal cliente a cui consegnava lo stupefacente richiesto, e che per avere successo necessitava ovviamente della complicità, o almeno dell’acquiescenza, degli abitanti dello stabile, a loro volta vittime del modus operandi dell’organizzazione criminale, ma soprattutto del colpevole abbandono del proprio patrimonio edilizio da parte dell’Ater, in tali quartieri gestito direttamente dai clan.
Secondo gli indici di esclusione sociale elaborati dal Blog di Mapparoma (esclusione intesa non tanto come povertà economica quanto piuttosto nel «non disporre dell’istruzione che consenta di cogliere le opportunità per realizzare sé stessi, o non sentirsi pienamente parte della propria comunità a causa della mancanza di lavoro, o essere discriminati per il proprio genere»), San Basilio e Tor Bella Monaca, i quartieri cattivi per eccellenza, sono quelli dove l’indice di esclusione sociale raggiunge il suo apice e dove appare più evidente «il legame tra case popolari, difficoltà economiche e rischio criminale».
E così temi come il fallimento delle politiche neoliberiste di sviluppo e crescita della città o l’inefficacia delle politiche proibizioniste in tema di commercio e vendita delle sostanze stupefacenti – espunti dalla discussione mainstream degli «esperti» attorno all’esplosione del fenomeno criminale a Roma – tornano prepotentemente alla ribalta, per offrire una prospettiva diversa per comprendere la genesi di un fenomeno criminale, quello del commercio della droga, sempre più diffuso e invasivo, e per cercare risposte alternative. È infatti proprio il modello di crescita e sviluppo della città neoliberista ad aver, alla prova dei fatti, non solo acuito le distanze sociali, ma creato il presupposto ideologico dietro cui è cresciuta e prosperata la criminalità organizzata.
*Daniele Leppe fa l’avvocato a Roma da 15 anni, assiste lavoratori e collabora coi sindacati. Si occupa di diritto alla casa e fa parte dell’associaizone Nonna Roma.
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