Il diritto di respirare. Nel nome di George Floyd
Mentre un virus genera una crisi respiratoria globale, un uomo nero viene ucciso da un poliziotto che lo soffoca con un ginocchio sul collo. Per uscirne bisogna comprendere l'importanza della respirazione oltre i suoi aspetti biologici
George Floyd è morto soffocato ieri a Minneapolis sotto al ginocchio di un poliziotto che lo teneva fermo mentre l’uomo in arresto con il poco fiato rimasto ha provato a chiedergli di lasciarlo respirare: «I can’t breathe».
Floyd è stato fermato per un controllo mentre era alla guida, ma era nero e tanto basta per trasformare un contatto con la polizia in una condanna a morte. Anche questo ennesimo omicidio poliziesco a sfondo razziale sarà derubricato a «incidente» a opera di una mela marcia. E ogni reazione allo stato di cose verrà punita come «violenza».
Lo abbiamo visto con Michael Brown a Ferguson, Trayvon Martin a Sanford, Eric Garner a New York, il cui ultimo appello al respiro ha rimbalzato sui social network, gli striscioni e le manifestazioni oceaniche affianco alle parole d’ordine che hanno dato corpo al movimento di #BlackLivesMatter. Ma lo abbiamo visto anche in Francia con Adama Traoré morto asfissiato poche ore dopo il suo arresto (per aver rifiutato di mostrare i documenti), seguito dalla carcerazione dei suoi fratelli per aver animato la protesta. E ancora, con l’affaire Théo, stuprato con un manganello durante un controllo di polizia nelle periferie di Parigi, passato in giudicato come uso legittimo e proporzionato della forza. E lo abbiamo visto anche in Italia, con Vakhtang Enukidze, morto durante un pestaggio della polizia mentre era rinchiuso dentro al Cpr di Gradisca lo scorso gennaio. Dei 14 morti nelle rivolte in carcere all’inizio della pandemia, quasi tutti stranieri, ancora non ci è dato sapere, ma a quanto pare ci dobbiamo accontentare della versione di un’overdose di massa o di un disegno di stampo mafioso.
Il razzismo filtra ogni percezione umana, a partire dal nostro presunto automatismo a distinguere tra una persona nera e una bianca, facendo di ogni Nero un pericolo e di ogni gesto del Bianco verso di lui un atto di «legittima» difesa. Come scrive Colette Guillaumin ne L’idéologie raciste, è la costruzione della differenza razziale a plasmare ogni nostra percezione, visiva in particolare, e che ci permette di fare distinzioni «fisiche» (chiamiamole più precisamente «razziali») e di porle come oggettive, immediate, autoevidenti. Ed è sulla base di questa immediata «schematizzazione razziale delle percezioni» – per dirla con Judith Butler e Elsa Dorlin – che si definisce allo stesso tempo la produzione di ciò che viene percepito e ciò che significa percepire.
Il corpo di Floyd, nel momento in cui è percepito come nero è già pericoloso, già da disarmare, già aggredibile per diritto. E ogni gesto di autodifesa del Nero, non può che essere percepito come riprova della sua natura violenta e aggressiva, da cui «legittimamente» difendersi. Ogni suo appello alla vita è inascoltato per definizione – Floyd non respirava, ma il poliziotto non si è preoccupato nemmeno per un attimo che potesse davvero morire – perchè dai tempi della schiavitù la vita – e la morte – del Nero dura solo fino a che non può essere rimpiazzata con la successiva. È in particolare il corpo del nero uomo che ricade in questo schema percettivo, quello di una maschilità bruta e bestiale, antitetica all’unica riconosciuta, ovvero quella che crea l’associazione immediata tra maschio bianco e essere umano e che fa del nero un non-maschio e quindi non-umano. Un processo di deumanizzazione per devirilizzazione, o meglio ipervirilizzazione.
Ieri a Minneapolis, nel giro di poche ore una massa di persone si è riversata in strada a chiedere giustizia. C’è una risposta spontanea dal basso che non sta ferma a guardare, ma prende immediatamente posizione, di fronte all’abuso e si stringe attorno alla famiglia di Floyd, o meglio alle donne della famiglia di Floyd che piangono l’ennesimo uomo della comunità nera rimasto letteralmente schiacciato sotto al peso del suprematismo bianco. Come scrive l’attivista e docente Keeanga-Yamahtta Taylor le donne nere sono al cuore dei movimenti antirazzisti e contro la violenza della polizia negli Stati uniti dai tempi del movimento contro il linciaggio promosso dalla tenacia di Ida B.Wells. Questo non solo perché vittime esse stesse della violenza suprematista, ma anche in virtù dell’effetto devastatore che la violenza della polizia, colpendo gli uomini in particolare, riversa sulle loro vite, sulle famiglie e comunità nere di cui si trovano a essere le responsabili.
Ma c’è qualcosa che allo stesso tempo mi solleva e mi turba nelle immagini di protesta di ieri. È stata una presa di posizione, politica e fisica, che si afferma nello spazio pubblico a cui la pandemia ci ha costretto per diverso tempo a rinunciare. Quella folla mi solleva ma mi turba, perchè quelle mascherine a coprire naso e bocca di ogni manifestante rendono ancora più sordo il grido di Floyd, morto soffocato, mentre il mondo si fermava per sconfiggere il virus che ha generato una crisi respiratoria globale.
In un poetico pezzo del mese scorso il filosofo Achille Mbembe scriveva di come il Covid-19 abbia fatto emergere un elemento inquantificabile e che travalica ogni presupposto confine tra le forme del vivente: la centralità del respiro. Un gesto originario, l’atto vitale per eccellenza, che immette in una relazione primaria il corpo con il suo essere nel mondo che la stessa attività umana, distorta e deviata dall’oppressione sociale e dallo sfruttamento delle risorse in tutte le sue forme, ha distrutto, inquinato, strozzato. Con le scorie della produzione inquinante e intensiva, con il disboscamento, con le epidemie che hanno devastato il Sud del mondo negli scorsi decenni, con le carenze dei sistemi sanitari. «Prima di questo virus l’umanità era già minacciata di soffocamento», scrive Mbembe. E come abbiamo visto in questi mesi sono state proprio le categorie sociali più fragili ad aver esposto maggiormente la vita a questa pandemia, i Neri negli Stati uniti in primis.
«Se guerra ci deve essere – scrive sempre Mbembe – dev’essere non contro un virus in particolare ma contro tutto ciò che condanna la maggior parte dell’umanità all’arresto prematuro del respiro, contro tutto ciò che attacca le vie respiratorie, contro tutto ciò che nella lunga durata del capitalismo avrà confinato ampi segmenti della popolazione e razze intere a una respirazione difficile, affannata, a una vita pesante. Ma per uscirne bisognerà iniziare a comprendere la respirazione al di là dei suoi aspetti biologici, come ciò che ci accomuna e, che per definizione, sfugge a ogni calcolo. In tal modo stiamo evocando un diritto universale al respiro».
La storia della conquista dei diritti è una storia di conflitti, vinta da chi fino al giorno prima veniva fatto passare per violento o per minaccia dell’equilibrio sociale. Frantz Fanon scriveva che i dannati della terra non si sono ribellati perché hanno fatto un salto di coscienza intellettuale, ma «perché “semplicemente” gli era diventato impossibile respirare». Forse, per questo diritto all’aria che ci tiene in vita, è giunto il momento di entrare in conflitto. Nel nome di tutti i George Floyd che lo hanno rivendicato fino all’ultimo respiro.
*Marie Moïse, attivista, è dottoranda in filosofia politica all’Università di Padova e Tolosa II, scrive di razzismo, femminismo e relazioni di cura. È co-autrice di Future. Il domani narrato dalle voci di oggi (Effequ 2019) e co-traduttrice di Donne, razza e classe di Angela Davis (Alegre, 2018).
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