
Il fallimento di Sánchez fa andare la Spagna a destra
Le elezioni volute dal Psoe sono servite solo a raddoppiare i seggi dell'estrema destra di Vox. Nonostante la scissione Podemos tiene e sfida ancora i socialisti per costruire un'alternativa di Governo. Ma non può rimanere l'unica opzione
Vincono i socialisti, in Spagna, ma è una vittoria amara. Dopo le elezioni del 28 aprile, anche quelle del 10 novembre non producono una maggioranza stabile, ma una sinistra frammentata e una destra sempre più radicale e feroce, con l’esplosione degli ultranazionalisti di Vox. Il Psoe di Pedro Sánchez resta in maggioranza relativa ma perde voti e seggi e resta ben lontano dall’agognata maggioranza assoluta, fermandosi al 28%. A destra, Ciudadanos crolla al 7%, mentre i popolari risalgono al 21% e i neofranchisti di Vox sfondano al 15%, affermandosi come terzo partito. La sinistra di Unidas Podemos (l’alleanza ormai stabile tra Podemos e Izquierda Unida), che Sánchez ha voluto a tutti i costi tenere fuori dal governo, e che ci si aspettava fosse svuotata dal “voto utile” verso i socialisti e dalla scissione di Más País, tiene in termini di voti, scendendo dal 14% al 13%, ma perde in modo più consistente termini di seggi.
La scommessa dei socialisti, di tornare alle elezioni per portare a casa la legittimazione a un governo in solitaria, per quanto di minoranza, è miseramente fallita, e i mesi persi senza affrontare né le questioni sociali né quella catalana hanno permesso all’estrema destra di capitalizzare il risentimento in chiave ultranazionalista. Il Psoe di Pedro Sánchez porta la responsabilità maggiore di questa situazione, e si trova ancora una volta a dover scegliere tra una grande coalizione con i popolari, che accontenterebbe le élite economiche e mediatiche ma rischierebbe di radicalizzare lo scontro sociale e nazionale, e una risicata maggioranza di sinistra, da negoziare con Unidas Podemos e i nazionalisti baschi e catalani, difficile da equilibrare ma tendenzialmente in grado di rilanciare le politiche sociali e di riaprire il dialogo in Catalogna.
Il comizio del leader socialista, ieri notte, è stato interrotto dai cori dei militanti del Psoe che gridavano: «Con Iglesias sì, con Casado no», dichiarando la loro netta preferenza per una coalizione con Unidas Podemos rispetto all’alleanza con la destra. Sánchez si trova di nuovo in una tenaglia tra la base progressista del suo partito e le pressioni dall’alto di chi vede come il fumo negli occhi l’ingresso al governo di ministri di sinistra. Sullo sfondo, un paese che non ha fatto i conti né con le fratture provocate dalla crisi economica né con l’eredità della transizione alla democrazia e dei conflitti nazionali.
Il grande sconfitto e le transizioni incompiute
Se si è votato a poco più di sei mesi dalle precedenti elezioni, è stato principalmente per una scelta di Pedro Sánchez. Nei lunghi negoziati che sono seguiti alle elezioni di aprile, il leader socialista ha sempre rifiutato la proposta di un governo di coalizione con Unidas Podemos, chiedendo al partito di Pablo Iglesias l’appoggio esterno ma negandogli l’ingresso nell’esecutivo, e ammiccando, nello stesso tempo, alla destra liberal-nazionalista di Ciudadanos.
La scomessa di Sánchez era di riuscire a scaricare su Iglesias il fallimento del negoziato, sottraendo alla sinistra un numero di voti e di seggi sufficiente a riprendere la trattativa con maggiore forza e a poter dare il via a un governo di minoranza, sorretto di volta in volta da Unidas Podemos o da forze di destra come Ciudadanos e il Pp. Una sfida miseramente fallita: ben lungi dal guadagnare consensi, i socialisti hanno perso oltre 700 mila voti, mezzo punto percentuale e tre seggi. Riproveranno a chiedere appoggi esterni, ma pretendere di governare da soli con il 28% dei voti e meno di un terzo dei seggi rischia di essere troppo anche per la cultura maggioritaria spagnola.
I socialisti sono rimasti vittime di due transizioni incompiute: la loro, e quella della democrazia spagnola. Il Psoe, sotto Sánchez, non vuole più essere il partito della terza via e del neoliberismo che fu duramente punito dagli Indignados nel 2011, e di conseguenza ha sempre rifiutato di governare con il Pp, temendo di fare la fine del Pasok greco. Ma allo stesso tempo non ha mai avuto il coraggio di invertire davvero la rotta, di guardare a sinistra, di ripensare i meccanismi della socialdemocrazia contemporanea, sulla scia, ad esempio, di quanto sta facendo il Labour con Jeremy Corbyn. Il Psoe resta a metà del guado: chiude al Pp ma non apre a Podemos, propone una legge di bilancio fortemente progressista ma non accetta ministri di sinistra che ne garantirebbero l’applicazione, attacca la destra per aver esacerbato le divisioni in Catalogna ma la insegue sul piano della repressione. La campagna elettorale di Sánchez è stata schizofrenica: da una parte, il 24 ottobre, ha fatto finalmente trasferire il feretro dell’ex dittatore Francisco Franco dalla lugubre Valle de los Caídos, per mettere fine alla celebrazione di stato della memoria del fascismo; dall’altra, pochi giorni dopo, nell’ultimo dibattito televisivo, ha gareggiato con la destra sul piano della repressione contro l’indipendentismo catalano, arrivando a proporre un’apposita modifica del codice penale.
A otto anni dalla sconfitta di Zapatero sotto l’attacco della crisi economica e del 15-M, insomma, il Psoe non ha ancora deciso cosa vuol fare da grande, e come vuole uscire dalla propria crisi. Una transizione incompiuta, quella di un partito che nell’ossessione di restare al centro della contesa, di mantenere l’equilibrio tra la competizione a sinistra sui temi sociali e sull’antifascismo, e quella a destra sulla responsabilità fiscale e sulla questione catalana, non riesce a sfondare su nessuno dei due lati.
La transizione incompiuta del Psoe è però la metonimia di una più grande: quella della democrazia spagnola nel suo complesso, incapace, a 44 anni dalla morte di Franco, di affrontare con maturità la sfida del nazionalismo catalano senza ricadere nel più becero nazionalismo spagnolo, e incapace anche di prendere atto della fine del bipartitismo e della necessità di alleanze parlamentari e governi di coalizione. L’esplosione della questione catalana, scatenata nel 2010 dalla bocciatura da parte del Tribunale Costituzionale, su ricorso della destra, del nuovo statuto di autonomia negoziato tra il governo catalano e Zapatero, e alimentata dalla strategia delle continue forzature unilaterali da parte dell’indipendentismo, ha riportato alla luce tratti mai scomparsi della società e della politica spagnola, in cui autoritarismo, nazionalismo e nostalgia per la dittatura non sono mai tramontati. Anche l’ossessione con cui si è rifiutata a tutti i costi l’ipotesi del governo di coalizione va contestualizzata storicamente: la democrazia postfranchista ha visto, dal ’75 a oggi, solo governi monocolori. Il bipartitismo, la stabilità a ogni costo e l’impossibilità di accedere al governo per le forze radicali sono stati tra i presupposti fondamentali della transizione alla democrazia, costruita per contrapposizione rispetto alla Seconda Repubblica del ’31-‘39, con il suo parlamentarismo, i suoi governi di coalizione e i suoi ministri repubblicani, comunisti e anarchici. Per trent’anni, socialisti e popolari si sono alternati al governo o con la maggioranza assoluta in parlamento o potendo contare sull’appoggio esterno di forze minori, come i nazionalisti baschi e catalani. La crisi del 2008-2011 ha fatto saltare il bipartitismo, e pone oggettivamente la questione delle coalizioni. Ma a un pezzo di establishment spagnolo, l’idea di avere un ministro comunista, o favorevole al diritto all’autodeterminazione del popolo catalano, o anche semplicemente con la barba e i capelli lunghi, tuttora, appare impensabile, e fa tornare alla mente il fantasma della Seconda Repubblica.
La radicalizzazione del nazionalismo spagnolo
A destra, Ciudadanos crolla, a tutto vantaggio di Pp e Vox. Il partito liberal-nazionalista di Albert Rivera si era affermato come «populismo di centro» in grado di fare concorrenza al Pp come Podemos faceva con il Psoe, e nel tempo aveva accumulato vasti consensi tra gli elettori popolari stanchi dei continui scandali per corruzione e desiderosi di una nuova destra dalla faccia pulita, meno compromessa con il governo ma non meno radicale e anzi, in particolare sulla questione catalana, più disposta ad agitare la bandiera e a pretendere repressione. Ma il tempo passa, la memoria degli scandali si attutisce, e di fronte alla possibilità ventilata di un accordo tra Psoe e Ciudadanos, una parte dell’elettorato di quest’ultimo è tornata a casa, a votare per il Pp, che in pochi mesi passa dal 17% al 21% e da 66 a 88 seggi: numeri ancora bassissimi rispetto alla forza storica di quello che era il più grande partito di destra d’Europa, ma comunque incoraggianti.
L’avanzata più netta e terribile è però quella di Vox. Il partito di estrema destra neofranchista era entrato in parlamento per la prima volta nell’aprile scorso con il 10% dei voti e 24 seggi, ora sale al 15% e, grazie alle divisioni della sinistra e alle magie del metodo D’Hondt, a 52 seggi. In un paese che fino ad aprile si vantava (in parte mentendo) di non avere un’estrema destra, oggi i nostalgici della dittatura sono il terzo partito. Il travaso di voti da Ciudadanos a Vox è evidente, segno che a portare consenso al partito di Rivera, più che la retorica liberista, era la faccia dura contro il nazionalismo catalano; e ora c’è qualcuno che fa la faccia ancora più dura. Il leader dell’estrema destra, Santiago Abascal, è un basco di lunga tradizione franchista, un nazionalista spagnolo per cui la lotta ai nazionalismi periferici è il tema per eccellenza, e la sua campagna elettorale, oltre che sulle classiche questioni della destra radicale europea, dall’immigrazione allo spettro del «gender», si è concentrata a lungo sul caso catalano, inanellando proposte autoritarie come l’arresto immediato del presidente catalano Torra e l’abolizione di ogni forma di autonomia per la regione di Barcellona. Proposte provocatorie e irresponsabili in un contesto in cui l’indipendentismo in Catalogna porta a casa il 43% dei voti e, grazie alla legge elettorale, la maggioranza dei seggi. Da segnalare, in quel campo, la nuova affermazione di Erc (centrosinistra indipendentista) sugli alleati di centrodestra, e l’ingresso per la prima volta nel parlamento di Madrid della Cup, sinistra radicale indipendentista, che con l’1% dei voti porta a casa due seggi e promette di schierarsi in prima linea nella battaglia contro Vox.
La destra spagnola non cresce. Nel 2011 il Pp prendeva il 45%, nel 2015 la somma tra Pp e Ciudadanos dava il 43%, in aprile di quest’anno sommando Pp, Ciudadanos e Vox si arrivava al medesimo 43%, e sempre al 43% si arriva anche sommando i risultati delle tre forze di destra nelle elezioni di ieri. Quello che cambia è sicuramente la radicalità dell’espressione di questa destra: se il Pp non era mai stato del tutto un partito di centro-destra europeo mainstream, mantenendo all’interno pezzi di destra radicale e di continuità col franchismo, il 15% di Vox segnala un salto di qualità evidente nell’espressione dell’estrema destra spagnola. Dal «franchismo sociologico», implicito e inespresso, di cui a lungo si è parlato, si torna a un franchismo rivendicato e messo in pratica. Al centro di questa radicalizzazione, ancora una volta, la questione nazionale: nel contesto della transizione incompiuta di cui si parlava, in cui i due partiti maggiori non hanno il coraggio e la forza di negoziare una soluzione stabile con i nazionalismi periferici, e in cui questi ultimi decidono di tentare la strada della forzatura unilaterale, l’estrema destra ha buon gioco a capitalizzare il risentimento di una parte della Spagna profonda, quella delle province rurali, contro le crescenti rivendicazioni, economiche e culturali, di baschi e catalani. Ma non si deve pensare che il risentimento in cui pesca Vox sia solo quello anticatalano: è tutta la Spagna degli ultimi vent’anni, quella del plurilinguismo e del matrimonio gay, della pace con l’Eta e del femminismo, a essere presa di mira da un’ondata reazionaria che è minoritaria ma che inizia a pensare in maniera significativa anche nelle urne.
La sinistra divisa e il coraggio delle scelte
Se la destra ha portato a casa lo stesso 43% di aprile, solo dividendolo diversamente, la stessa cosa è accaduta anche nel centrosinistra. La somma di voti tra Psoe e Unidas Podemos, sei mesi fa, faceva il 43%. Oggi, dopo la scissione di Íñigo Errejón da Podemos e la conseguente nascita di Más País, la somma tra Psoe, Unidas Podemos e Más País fa, di nuovo, il 43%. Ma il sistema elettorale spagnolo non perdona la frammentazione, e il risultato in termini di seggi è impietoso: anche se entrambi i blocchi, rispetto ad aprile, sono rimasti stabili, la destra passa da 147 a 150 seggi, mentre il centrosinistra scende da 165 a 158. Dieci seggi di vantaggio persi, solo a causa delle divisioni e dell’impietosa aritmetica elettorale.
Íñigo Errejón aveva lasciato pochi mesi fa Podemos, di cui era tra i fondatori, ritenendola ormai troppo identificata con la sinistra radicale, dopo l’alleanza con Izquierda Unida, e inservibile rispetto al progetto di un populismo trasversale. Ma Más País, il soggetto lanciato da Errejón, non è mai decollato, e si deve accontentare di poco più del 2% e di tre soli seggi (di cui uno, in realtà, conquistato da una forza regionale valenzana): troppo pochi per poter costituire un gruppo parlamentare autonomo. La scommessa del cofondatore di Podemos era di ampliare l’area del centrosinistra in parlamento per poter fare da broker tra i socialisti e la sinistra, o comunque risultare indispensabile: i risultati, invece, gli consegnano un ruolo del tutto marginale, anche se la sua visibilità mediatica resta notevole.
Unidas Podemos, che molti davano per spacciata dopo la scissione e soprattutto dopo il fallimento del negoziato con i socialisti per la formazione del governo, limita a poco più di un punto percentuale la perdita di voti ma subisce un salasso in termini di seggi, passando da 42 a 35, a causa del sorpasso di Vox come terzo partito in molti collegi. L’alleanza guidata da Pablo Iglesias e Alberto Garzón non ha pagato troppo dazio alle schermaglie con Sánchez e ha dimostrato di poter risvegliare la propria combattiva base in campagna elettorale, ma resta in una situazione difficile, dato che la sua utilità parlamentare resta legatissima alla possibilità di un’alleanza coi socialisti, alleanza la cui fattibilità è tutta da dimostrare, e che in ogni caso non sarebbe indolore. Dopo il fallimento del sorpasso sul Psoe nel 2016, la posizione di Up si è ridotta di fatto alla richiesta di un’alleanza ai socialisti, indebolendo indubbiamente sia il portato di novità e radicalità che caratterizzava la formazione di Iglesias sia la sua posizione negoziale. Se oggi, con l’estrema destra al 15%, è difficile trovare voci rilevanti contrarie a un’alleanza col Psoe, ciò non significa che questa eventuale alleanza sarebbe esente da rischi, date le ambiguità dei socialisti sia in campo sociale ed economico sia sull’immigrazione e la linea, niente affatto ambigua ma decisamente aggressiva, mantenuta sulla questione catalana. Quando l’intera strategia di Podemos si basa sulla proposta di un governo guidato dallo stesso Sánchez la cui affidabilità come interlocutore e la cui volontà riformatrice sono state ampiamente illustrate in questi mesi, è evidente che la situazione non è delle migliori.
La linea, per ora, è quella di fare pressione sui socialisti e sfruttare il fallimento della loro offensiva per convincerli a riaprire le trattative per un governo di coalizione: «Queste elezioni sono servite solo a rafforzare la destra e a farci avere un’estrema destra tra le più forti in Europa – ha commentato Iglesias – Si dorme peggio con oltre 50 deputati dell’estrema destra che con ministri e ministre di Unidas Podemos».
«Nessuna persona democratica e progressista può essere contenta oggi – gli ha fatto eco la sindaca di Barcellona Ada Colau – L’estrema destra avanza per l’incapacità della sinistra. Pedro, le tue elezioni sono state un fallimento. E in generale, o le sinistre fanno un fronte ampio, o andiamo tutti a fanculo».
La scommessa è quella di un governo che provi a sminare il risentimento di cui si nutre Vox, in termini sociali e nazionali: «Quest’ascesa fulminante – ha scritto nel suo editoriale la rivista di sinistra Ctxt parlando di Vox – costituisce un’emergenza democratica che ha solo una risposta possibile: un governo plurale e progressista, più e migliori politiche sociali, più diritti civili e apertura del dialogo e fine della repressione in Catalogna».
I numeri parlano chiaro. Solo due opzioni possono raggiungere la maggioranza assoluta di 176 voti in parlamento: o una grande coalizione tra Psoe e Pp, uniti intorno al dogma neoliberista e alla repressione del nazionalismo catalano, o un governo di coalizione tra Psoe e Up, sostenuto anche da forze minori come i nazionalisti baschi, e con la necessaria astensione di almeno una parte degli indipendentisti catalani. Una sfida difficilissima, perché presupporrebbe un coraggio che la leadership socialista finora non ha dimostrato, nonché la volontà di aprire un dialogo serio in Catalogna, che non può che passare da un indulto ai politici inquisiti per il referendum unilaterale, e da una contemporanea apertura di credito da parte del fronte indipendentista. L’alternativa, del resto, è che la già malridotta democrazia spagnola si avviluppi in un loop senza fine, arrivando in breve alla quinta elezione in meno di cinque anni. A un decennio dallo scoppio della crisi, i problemi strutturali della società spagnola restano irrisolti, le domande di cambiamento e progresso sociale senza risposta, e il sistema politico, fermato l’assalto del populismo di sinistra, oscilla tra una volontà di normalizzazione bipolare e l’impossibilità di realizzarla.
*Lorenzo Zamponi, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica.
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