Il femminismo non può escludere le donne trans
Un manifesto dal titolo "Per l'inviolabilità del corpo femminile" propone di lottare contro patriarcato e sessismo escludendo altri soggetti discriminati dalla stessa oppressione
Terf ovvero Trans Exclusionary Radical Feminist è il termine per indicare quella parte di femministe radicali che ritengono giusto escludere le persone trans e in particolare le donne trans dal dibattito e dalla lotta femminista. Questo termine è stato coniato in maniera puramente descrittiva di una posizione politica ed è finito per essere considerato un insulto dalle Terf stesse. Le Terf sono radicali ed escludenti, e sono radicalmente escludenti.
Primo interrogativo. Perché nel contesto di una lotta politica contro il patriarcato e il sessismo gli stessi soggetti discriminati si sentono legittimati nel poter escludere altri soggetti discriminati dalla stessa oppressione? Più concretamente: perché alcune donne cis (semplificando al massimo: donne non trans) si sentono legittimate a escludere tutte le donne trans da un discorso politico?
Una delle risposte: perché alcune donne cis reputano uomini tutte le donne trans. Un’altra risposta: perché hanno paura.
In questi giorni a Milano avrebbero dovuto svolgersi due giornate di formazione costruite da una rete antirazzista in un circolo Arci. Due giornate su Femminismo e Transfemminismo invitando, nella prima, Sheila Jeffreys femminista lesbica radicale, trans escludente, inglese ex docente universitaria. Le comunità trans e Lgbtqi hanno organizzato un motivato mail bombing di protesta e le due giornate di formazione sono state cancellate. Nonostante tutto il presidente di Arci Milano rifiutando di ammettere l’errore ha affermato che «l’Arci è fatta anche di discussioni difficili, per fortuna». E Arcilesbica Milano recupera Sheila Jeffreys e le affianca Julia Long, un’altra femminista lesbica radicale antipornografia, per riproporre l’incontro, al momento rinviato causa coronavirus. Non un’iniziativa di formazione ma di affermazione della propria politica, contestualmente a un manifesto di iniziative per il mese di marzo.
Il manifesto «In Radice – Per l’inviolabilità del corpo femminile» porta avanti il discorso radicale lesbico femminista in Italia: transfobico, antipornografia, anti sex work, anti Gpa (gestazione per altri) e ostile al transfemminismo (conosciuto anche come femminismo intersezionale). Una contestazione su ogni tipo di «mercificazione» e di scambio economico del corpo femminile, che sia una gravidanza o una prestazione sessuale, che sia frutto di una scelta, di una necessità o altro.
Secondo interrogativo, che aggiunge una semplice parola: Perché nel contesto di una lotta politica contro il patriarcato e il sessismo gli stessi soggetti discriminati si sentono legittimati nel poter escludere le scelte autodeterminate di altri soggetti discriminati dalla stessa oppressione?
Le Terf italiane, alle quali possiamo facilmente associare gli ultimi anni di Arcilesbica, hanno come riferimenti le Terf di tutto il mondo (soprattutto quelle inglesi) e il femminismo della differenza, che però essendo nato e sviluppatosi negli anni Settanta nei suoi scritti (ma non nelle pratiche che come persone trans dovremmo riscoprire) ha storicamente un approccio ai generi ancora binario. Insomma il pensiero Terf tende ad autoalimentarsi escludendo le voci dissonanti rispetto alla propria visione e, soprattutto sui social network e sempre in nome dell’inviolabilità, anche con una certa violenza.
Senza dimenticare quanto l’accademia continui a essere un luogo di pratiche patriarcali discriminatorie e sessiste contro le quali le stesse Terf hanno dovuto scontrarsi, molte di loro hanno la possibilità di trovarsi nella posizione di essere invitate, ascoltate, sostenute in quanto accademiche. Questa posizione di relativo privilegio è un’automatica fonte di esclusione per un confronto paritetico con persone che non hanno avuto lo stesso accesso a cultura e formazione, come ad esempio sex worker e persone trans, e sex worker trans. Queste ultime, oltre a non essere contemplate né in un dibattito sul femminismo né spesso sul sex work o sulle lotte trans, come emerge dai dati riguardanti gli omicidi con matrice transfobica sono il bersaglio principale. E questo 61% di tutti gli omicidi di matrice transfobica è solo una parte delle molteplici forme della violenza, transmisogina e di genere che devono subire le persone trans e in particolare quelle in zone più povere, non bianche, con una bassa scolarizzazione.
Il grosso limite delle posizioni anti sex work, (o Swerf – Sex worker exclusionary feminism ) è che non fanno distinzione fra tratta e prostituzione coatta da una parte, e sex work dall’altra, inteso come lavoro (che per alcune è una combinazione di lavoro di cura, emotivo e manuale): due situazioni molto distanti tra loro.
Alla base della violenza transfobica c’è la negazione del diritto di scelta del proprio genere, qualsiasi siano le ragioni e le storie (che non sempre hanno alla base «corpi sbagliati» e «sofferenza») e in particolare la negazione di scelta del genere femminile. Questa violenza si può tradurre in insulti, minacce, microaggressioni, violenza fisica, violenza psicologica, mobbing, accesso vietato al lavoro, svalutazione.
Oltre che nelle università le Terf hanno la possibilità di lavorare e gestire servizi del terzo settore per le donne, storicamente gestite da donne femministe. In questo caso la transfobia agita, e non solo parlata, può avere conseguenze molto difficili nel caso ci fossero donne trans tra le richiedenti assistenza. Le posizioni RadFem (cioè femministe radicali) vanno ad affiancarsi paradossalmente e per alcuni versi a quelle della destra cattofascista che vede la donna come madre e procreatrice per la propria famiglia. Inviolabile seppur con un segno diverso, anche perché se parliamo di violenza sulle donne, la violenza viene agita principalmente in casa e in famiglia.
All’autodeterminazione delle persone trans le Terf oppongono un essenzialismo biologico che riduce se non proprio tutto ma molto ai genitali e ai cromosomi. Molte di loro, tra cui la sopracitata Sheila Jeffreys, reputano le riassegnazioni chirurgiche dei genitali (quello che viene comunemente chiamato «cambio di sesso») una mutilazione che alcuni uomini fanno su di sé nella speranza di sembrare donne. Le Terf inglesi ad esempio si sono scagliate contro due provvedimenti del governo volti a semplificare la rettifica anagrafica delle persone trans (Gender Recognition Act del 2004 ed Equality Act del 2010). Secondo loro non può essere così facile cambiare genere anche perché (come sostengono anche le Terf italiane) negano l’esistenza di una identità di genere disgiunta dal sesso biologico.
La famosa scrittrice J.K. Rowling ha espresso su Twitter posizioni transfobiche anche grazie a questo diffuso clima di intolleranza (che insieme alla Brexit ci suggeriscono il generale clima da quelle parti). In sostanza le donne trans vengono ritenuti uomini impostori che possono introdursi in quegli ambienti separati per genere, e agire violenza verso le donne cis, cioè le vere donne. Ambienti separati per genere come gli spogliatoi, e le carceri. Non fosse che in carcere è più facile che una donna trans finisca nel reparto maschile e che ne paghi le violente conseguenze.
Che ce l’abbiano davvero o meno, le donne trans sono portatrici di un fallo predatore. Ogni singolo caso – non neghiamo che ci siano – di donne trans che hanno agito violenza e molestie verso altre persone, viene usato come prova inconfutabile delle loro teorie. Come dicevo, si autoalimentano, e non in maniera troppo diversa e meno paranoica da chi crede nei complotti. Secondo loro la biologia non può mentire. Se nasci uomo (con potenziali cromosomi XY e un organo genitale maschile), uomo rimani, a dispetto di qualsiasi tipo di cambiamento, sentire e autodeterminazione (gli uomini trans difficilmente entrano in questo discorso).
La transfobia di Jeffreys è una conseguenza sicuramente radicale ma coerente fino al parossismo della critica dell’oppressione della donna da parte dell’uomo. Per Jeffreys qualsiasi forma di abbellimento del proprio aspetto e qualsiasi modificazione del corpo, make up, abbigliamento (in particolar modo i tacchi, considerati strumenti di tortura), chirurgia estetica, pornografia, fino alla stessa eterosessualità sono da considerarsi dominio dell’uomo sulla donna.
Non fosse violenta, autoritaria e transfobica la critica di Jeffreys meriterebbe un approfondimento. Mette in luce la costruzione del genere attraverso delle tecniche e quanto queste vengano percepite come naturali rispetto all’essere donna. Queste tecniche vengono così immesse in un regime di innaturalità e di subordinazione. Jeffreys ha prima di tutto delle posizioni di esclusione degli uomini che lei stessa ha incarnato: «Pensiamo che tutte le femministe possano e debbano essere lesbiche. La nostra definizione di lesbica politica è una donna che si identifica come donna che non scopa con gli uomini. Ciò non comporta attività sessuali obbligatorie con le donne».
In questa radicale opposizione ci finiscono anche le donne trans che nell’uso delle tecniche sopracitate trovano uno strumento per costruire un corpo considerato conforme rispetto al genere percepito, o per autodifendersi dalla violenza transfobica e transmisogina che colpisce soprattutto quelle non conformi alle aspettative sociali di genere. Più si ha un aspetto conforme a tali aspettative, più si è al sicuro. Si chiama passing, ma anche eterocisnormatività, cioè una normatività sociale e implicita che vuole l’individuo eterosessuale e cisgender (cioè, di nuovo, non trans) come obbligatorio e normale. Questo le Terf sembrano dimenticarlo (come anche molto altro).
Come persone trans siamo soggetti politici ancora emergenti perché in costante mutamento ed espansione. Per una serie di concause e invisibilizzazioni il soggetto trans degli anni Settanta e Ottanta era univoco. La donna trans eterosessuale, iperfemminilizzata, favolosa, che aveva trovato nei movimenti gay e nel sex work il proprio ambiente di vita e in gran parte di sopravvivenza. La trans era anche il viado, la trans latinoamericana che si prostituisce, un individuo ipersessualizzato predatore e alieno sia come provenienza che come aspetto.
Oggi gran parte dell’esperienza trans è il risultato di una politica psichiatrizzante e quindi patologizzante che parte dagli anni Cinquanta del Novecento, per cui una parte della definizione dell’essere trans deriva dall’aderenza a determinati criteri psichiatrici che servono anche a escludere diverse patologie mentali ma che soprattutto decretano la possibilità di accedere ai servizi sanitari statali. E questa è un’altra di quelle cose che le Terf sembrano dimenticare, come il cosiddetto Real Life Test, che valuta di fatto la performance di genere di una persona che vuole fare una transizione.
L’intero percorso di transizione è puntellato da momenti in cui c’è una valutazione di qualche tipo da parte dei cosiddetti gatekeeper, ovvero quelle figure che hanno il potere di decidere chi può accedere e chi no a una determinata opportunità. Dai colloqui psicologici obbligatori, all’accesso alle terapie ormonali, alle istanze giudiziarie (cioè un/a giudice) che deve decidere se una persona può cambiare nome o eseguire delle operazioni chirurgiche demolitive (la rimozione del seno o dei testicoli) o ricostruttive (i genitali). Questo in base al proprio orientamento politico, alle proprie idee rispetto al genere e a una relazione psichiatrica, con tempi che si aggirano intorno ai due anni.
La parola «transessuale» (che parla di sesso e non di genere), così come la definizione di «disforia di genere» (che parla di malattia), o «FtM» e «MtF» (che indicano un percorso ben stabilito e binario), sono un retaggio di questa cultura binaria e psichiatrizzante dell’esperienza trans ma sono anche le parole più diffuse che abbiamo per parlare di noi stesse. Se mancano le parole non possiamo narrarci, se non muoviamo una critica all’ideologia implicita delle parole rimarremo sempre impigliate in parole altrui. La conseguenza è che in quanto persone trans veniamo parlate: una passività lessicale e di autosignificazione.
Accanto alle donne trans, che sono state i pilastri del movimento trans per decenni e che in Italia hanno fatto approvare nel 1982 l’unica legge tuttora esistente in tema di transizione di genere (la Legge 164), si sono affiancati le transmascolinità e le transfemminilità (altre parole che potremmo usare), sessualità non etero, persone e minori gender variant (altra parola nuova), persone non binarie, persone trans non medicalizzate (vedi altre parentesi) cioè che decidono di affrontare solo una transizione a livello sociale e non tramite le tecniche mediche (ormoni e chirurgia).
Di fronte a questa complessità, le femministe radicali trans escludenti hanno un atteggiamento di difesa e di paura. Prima di paura e poi di difesa, aggressione, intolleranza. Hanno paura che chiunque possa dirsi donna e quindi che il soggetto donna venga cancellato o annacquato da altre istanze, quando buona parte della teoria politica lesbica parte dall’assunto che in quanto tale (e quindi non dipendente da un uomo) la lesbica non è una donna. Non capendo e non volendo riconoscere però l’oppressione sistemica e patriarcale subita dalle donne trans sia in quanto donne che in quanto persone trans.
Le Terf vedono dei problemi, ma non sanno trovare delle soluzioni che non siano l’esclusione. Hanno verso le persone trans lo stesso atteggiamento che il patriarcato ha verso le donne cis e trans. Sono considerate inferiori, incapaci e, negando l’autodeterminazione, ridotte all’impotenza a causa della propria conformazione biologica.
Carla Lonzi ci invitava a sputare su Hegel, ora però non costringeteci a sputare su Carla Lonzi.
*Antonia Caruso, scrittrice, sceneggiatrice di fumetti, formatrice e attivista trans/femminista. Ha scritto per The Vision, La Falla, DWF, Frute, FortePressa, Golena Edizioni. Ha da poco aperto la sua casa editrice Edizioni Minoritarie. Si occupa di formazione su temi trans e comunicazione. https://linktr.ee/antoniacaruso
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