
Il fenomeno del Momentum
Il basso e l’alto, il verticale e l’orizzontale, i movimenti e il partito, la passione e il pragmatismo. Dalla tensione tra queste coppie concettuali nasce l’organizzazione che si propone come contrappeso ai ciclici tradimenti della rappresentanza
Quando chiesero a Margaret Thatcher quale fosse stato il maggior successo del suo periodo al governo, lei rispose: «Tony Blair e il New Labour». Era il 2002, Tony Blair era da poco stato eletto primo ministro per la seconda volta. Non serve entrare nel dettaglio di dieci anni di governo New Labour per comprendere il senso di questa affermazione. Ma bisogna cogliere la continuità ideologica e culturale tra il cambiamento egemonico avvenuto durante i governi Thatcher e il suo consolidamento sotto Blair: l’ingresso della logica di mercato in ogni ambito di governo, l’indebolimento dei sindacati per liberalizzare il mercato del lavoro, tagli al welfare accompagnati dalla violenta stigmatizzazione dei suoi parassiti e un imperialismo moralista volto ad affermare i valori di patria e democrazia. Ci sarebbe molto altro di cui parlare si pensi alle ripercussioni odierne del disastroso multiculturalismo blairiano, ma questa non è la sede per farlo.
È importante invece notare che dal 2015 l’elezione inaspettata di Jeremy Corbyn alla leadership del partito sembra aver messo in dubbio il triste mantra thatcheriano poi adottato anche Oltremanica da Gerhard Schröder: «There Is No Alternative». Corbyn, che si autodefinisce socialista democratico, nelle elezioni del 2017 ha portato il Labour al più grande incremento della sua parte del voto dal 1945, nonostante una stampa apertamente schierata contro di lui. Parte di questo successo è stato ascritto a Momentum, movimento-organizzazione nato nel 2015 per portare Corbyn al governo, democratizzare la struttura del Labour e far da ponte tra l’universo dei movimenti e della politica locale e quello del partito. Abbiamo intervistato Jon Lansman, il fondatore di Momentum, per parlare della sua evoluzione, del rapporto tra movimenti e partito, e della tensione tra organizzazioni verticali e istanze di orizzontalità.
In un periodo di grande sfiducia nella politica tradizionale, il Labour di Jeremy Corbyn ha attratto più di 200 mila nuovi iscritti. Qual è il motivo principale di questo cambiamento? E che ruolo ha avuto Momentum nella sua evoluzione?
Il motivo è semplice, e non farò nulla per provare a renderlo più complesso. Prima dell’arrivo di Jeremy Corbyn, sezioni intere della popolazione nel Regno unito non avevano una voce che rappresentasse la propria visione politica o le proprie aspirazioni. Alcune di queste avevano lasciato il Labour già negli anni Ottanta e Novanta, o più recentemente dopo la guerra in Iraq. Altre, generalmente più giovani, non erano mai state membri di un partito, appartenendo invece al mondo dei movimenti, come Uk Uncut, Occupy, organizzazioni contro il cambiamento climatico e altro. Quando Corbyn parlò di alternative all’austerity nella corsa alla leadership del partito nel 2015, molti capirono che era arrivato qualcuno che finalmente prendeva le parti delle masse di persone rovinate da trent’anni e passa di neo-liberismo. In un primo momento quindi, l’attrazione derivava dal fatto che Corbyn rappresentava un’alternativa alla politica dominante. Ma penso anche che molto velocemente la gente si è rifatta all’idea che la politica non sia prerogativa di politici di professione, ma qualcosa alla quale ognuno di noi può prendere parte. Personalmente, sono sempre stato coinvolto con il Labour ma sempre in compagnia di persone della sinistra del partito, che venivano da un numero disparato di contesti sociali e politici. Ciò ha significato molto per me, perché col tempo ho imparato a condividere percorsi con persone dalle idee diverse e in competizione tra di loro.
Avevamo pensato che il compito di Momentum fosse quello di avvicinare questi mondi della sinistra al Partito laburista in modo tale da sostenere Corbyn e il suo Manifesto. Ma, come sempre in politica, nulla è così semplice e lineare. L’evoluzione, invece, è stata lenta e complessa. Basti pensare che inizialmente i gruppi locali nacquero organicamente, senza nessuna spinta centralizzata e con nessuna comunicazione tra loro. Ispirati dalla novità del programma di Corbyn, cittadini in varie zone di Londra ma non solo, si sono riunite per mostrare il loro sostegno all’ala sinistra del Labour. Inizialmente non si chiamarono nemmeno Momentum, utilizzarono nomi tipo «Quartiere x per Corbyn». Solo Successivamente, quando un paio di mesi dopo l’elezione di Corbyn a segretario nacque Momentum, questi decisero, spontaneamente, di riunirsi con questo nome.
Chiaramente fu allora che nacquero i primi problemi. Nello stesso gruppo sono confluite persone diverse, non tutte pronte a condividere metodi e visioni. Avevamo lanciato Momentum prima di definirne la struttura, quindi non avevamo un regolamento che definisse anche solamente un codice di condotta. Dovevamo darci una struttura, e quello fu un momento difficile, perché non si può mai far contenti tutti. Ma troppi di noi avevano condiviso la frustrazione di vedere organizzazioni di sinistra indebolirsi in preda a un violento settarismo, ed eravamo decisi ad evitare che si potesse ripetere anche questa volta. Fu in quel momento, per esempio, che decidemmo che per essere membro di Momentum era obbligatorio essere membri del Labour – solo così potevamo evitare che gli espulsi dal partito potessero usare la nostra organizzazione per tornare ad avere un’influenza sul partito.
Parla di un’organizzazione costituita fin dalle origini da persone provenienti da mondi diversi. Puoi descriverci meglio il processo di formazione di Momentum? Credi che il risultato finale rispecchi questa composizione eterogenea?
Questo è un aspetto importante. Bisogna innanzitutto sottolineare che per un primo periodo eravamo senza struttura e senza soldi, e la nostra autorevolezza derivava solamente dall’endorsement di Corbyn e John McDonnell, altra figura storica della sinistra Labour. Sono stati loro a incoraggiarci a non disperdere l’entusiasmo che avevamo raccolto con la campagna per la leadership del partito, e a creare un gruppo che potesse difendere le battaglie vinte e sostenere quelle da vincere. Da lì sono sorte alcune evoluzioni parallele che non possono essere assolutamente ridotte a un singolo processo di decisione dall’alto. I volontari più instancabili si sono riuniti per formare un gruppo che poi è diventato lo staff permanente. Nel frattempo l’interesse si è diffuso in vari frangenti alla sinistra del partito e dei sindacati, anch’essi rinvigoriti da un cambiamento che nessuno si aspettava. Non per ultimo, quando si è trattato di tracciare una struttura e di prendere delle decisioni, concordammo che era necessario rivolgersi anche a chi aveva già legittimità politica, e per questo creammo un “gruppo di contatto” con i parlamentari più vicini a Corbyn, forti delle loro vittorie elettorali.
Solo a quel punto la discussione relativa all’organizzazione che volevamo darci ha potuto entrare nel vivo, e lo scontro è stato spesso vivace. La maggior parte dei volontari, per esempio, voleva una struttura che fosse aperta a tutti. Io, insieme ad altri, con una vita passata tra gruppi settari incapaci di cooperare, volevo evitare a tutti costi che si potessero creare divisioni distruttive. Allo stesso tempo, chi voleva un movimento laburista tradizionale, con una struttura basata su una forma di centralismo democratico di stampo leninista, si scontrava con chi invece coglieva ispirazione dalla forma organizzativa di Podemos, basata sul principio «Una testa, un voto». A quel punto eravamo sicuri soltanto di due cose. La prima: eravamo tutti uniti da un obiettivo in comune, portare Corbyn e il suo Manifesto al governo. La seconda: non ci saremmo riusciti senza una struttura e delle regole che ci tenessero in piedi. Col tempo quindi abbiamo cominciato a imparare gli uni dagli altri, nonostante le grandi differenze culturali che ci dividevano, finendo per adottare una struttura caratterizzata da un forte centro e una forte autonomia dei gruppi locali, senza una grande burocrazia intermediaria e basata sui voti dei membri individuali, come avviene per i “circoli” di Podemos.
Al momento abbiamo un Gruppo di coordinamento nazionale (Ncg) composto da ventisei persone che rispecchiano la composizione dei nostri membri, con posti assegnati specificamente agli iscritti, ai sindacati, a persone con incarichi pubblici e ai membri di organizzazioni affiliate. All’interno di questo gruppo ci sono quote obbligatorie per garantire la presenza di donne e persone che si identificano come Bame (Black, Asian and Minority Ethnic), disabili, Lgbt+ e almeno due persone al di sotto dei 30 anni. Questo è il centro che prende le decisioni a livello nazionale, non senza prima sottoporle al voto di ciascun membro. I membri poi possono firmare petizioni per cambiare il nostro statuto o per decidere la direzione delle nostre campagne. Non è una farsa. Bastano mille firme per sottoporre una proposta all’Ncg. Se questa non viene accolta all’unanimità si passa al voto di tutti i membri. E anche se l’Ncg si oppone, una petizione firmata dal 10% dei membri porta la questione al voto collettivo. Abbiamo anche un altro gruppo di cui andiamo molto fieri, un Consiglio dei membri composto da cinquanta persone elette ogni 6 mesi in modo casuale tra coloro che avanzano la propria candidatura. Questa è la voce dell’autonomia locale, che può avanzare proposte direttamente all’Ncg senza bisogno di raccogliere firme. Ma è anche un riconoscimento del contributo che ciascuno di noi può dare a un’organizzazione, non importa quanto grande.
Penso quindi che siamo riusciti a portare questo disegno ancora più avanzato rispetto a Podemos, ma non per particolari capacità personali. La verità è che Podemos è un partito, noi no. Il nostro obiettivo è cambiare un partito, e penso che questa struttura risulti più facile da sostenere perché il gruppo tende a prediligere quello che i propri membri condividono rispetto a quello che li mette in disaccordo. Abbiamo tutti opinioni contrastanti su molteplici aspetti del Manifesto di Corbyn, ma quelle sono discussioni che possiamo portare all’interno del partito, dove saranno discusse, votate e così via. All’interno di Momentum lavoriamo per portare Corbyn al governo, democratizzare il partito e portare avanti le battaglie sociali nelle nostre comunità. Su questo siamo tutti d’accordo.
In Buio a Mezzogiorno, Arthur Koestler fa dire all’alto funzionario del partito Nicola Rubashov che anche se siamo d’accordo sul voler spegnere un incendio, c’è chi vuole farlo con l’acqua, e chi con la benzina e che tra i due non vi può essere compromesso. Momentum invece sembra cercare di offrire un compromesso tra la verticalità di una politica di partito più tradizionale, e l’orizzontalità ereditata e pretesa dai movimenti sociali. Secondo te il compromesso è riuscito o la necessità di una struttura ha finito per alienare questi ultimi?
Ironicamente, quelli che io definisco genericamente come gli elementi più anarchici del nostro movimento si sono trovati d’accordo con la costituzione che avevamo creato, perché hanno accettato il principio di un’elezione aperta a tutti i membri e quello dell’autonomia dei gruppi locali. Si è venuta a creare una strana alleanza che ha attraversato questo divario tra modi diversi di intendere una struttura. Questa tensione, per me, è stata risolta anche per motivi strumentali agli obiettivi finali. Da una parte abbiamo la necessità di disporre di un’organizzazione, non solo per motivi culturali o ideologici ma per essere efficaci nelle battaglie interne al partito a livello nazionale. Dall’altra, abbiamo necessità di mantenere forme orizzontali di organizzazione per incoraggiare la partecipazione politica al livello locale.
Questa componente è fondamentale anche per dare una direzione alle strategie nazionali, che ora si concentrano sulle campagne a difesa dei lavoratori precari: i lavoratori di McDonald’s, gli autisti di Uber e molti altri. Anche nella scelta delle nostre battaglie combiniamo politiche centrali al Labour, come quelle sul lavoro o al diritto alla casa, ad altre che raccolgono l’eredità dei movimenti sociali e su cui il Labour è carente, come quella contro il cambiamento climatico che ci sta impegnando in questi giorni. Penso che le nostre azioni riescano a rispecchiare entrambe queste anime, e i risultati che abbiamo ottenuto mi spingono a credere che siamo riusciti a farlo con successo. Si tenga presente che più di un terzo dei candidati scelti per rappresentare il Labour nei seggi in cui i conservatori hanno una maggioranza minima sono stati appoggiati da Momentum. Cosa che potrebbe rivelarsi importante alle prossime elezioni.
Studiando la vostra organizzazione ho avvertito la presenza, mai apertamente dichiarata, di teorie diverse, come quelle sul populismo di Chantal Mouffe ed Ernesto Laclau da una parte e del teorico del community organizing Saul Alinsky dall’altra. Sono stati fonte di ispirazione?
Sono sempre stato un organizzatore, non un teorico. Chiaramente ciò non significa che non conosca queste teorie e che a modo loro non mi abbiano formato, specialmente quando ero più giovane. Ho letto l’ultimo libro di Chantal Mouffe, Per un populismo di sinistra, e l’ho trovato interessante. Semplicemente, non ho mai cercato nella teoria politica una guida pratica per il mio lavoro di organizzatore. Ma dico questo a titolo personale. Tra i nostri organizzatori invece ci sono molte persone che vengono da associazioni come Citizens UK, che trae forte ispirazione da Alinsky, e sicuramente le idee di Mouffe e Laclau hanno avuto molta influenza sui volontari che poi sono diventati membri dello staff permanente. Basta leggere il manifesto scritto da Adam Klug, Emma Rees e James Schneider nel 2016 per notare fino a che punto avessero ereditato l’idea di un progetto contro-egemonico che unisse le battaglie di diversi blocchi sociali uniti da un nemico in comune, l’élite. Inoltre, lo slogan con il quale Corbyn ha fatto campagna nel 2017, For the Many, Not the Few, fa capire che ci fossero teorie simili anche dietro quell’approccio. Tra l’altro, non avete avuto qualcosa di simile anche voi?
Sì. L’anno scorso Pietro Grasso si è candidato alle elezioni politiche con lo stesso slogan ma non ha funzionato granché: ha preso il 3,4% dei voti.
Ma lo sai di chi sono, originariamente, quelle parole? Tony Blair. Due anni dopo essere diventato leader, nel 1995, Blair riuscì a modificare l’articolo IV dello statuto del Labour, che descrive gli obiettivi del partito e inserisce una frase che afferma che il potere, la ricchezza e, penso, anche le opportunità debbano essere nelle mani dei molti e non dei pochi. La cosa divertente è che questa mossa venne giocata in aperta opposizione al socialismo dei fondatori, perché prima che Blair lo cambiasse, l’articolo IV indicava come obiettivo finale la proprietà collettiva dei mezzi di produzione. C’è qualcosa di meravigliosamente ironico nel fatto che la frase con cui Blair ha abbandonato il percorso socialista del Labour sia stata utilizzata per rimettere il partito sul suo tracciato originario.
Nel mondo della sinistra britannica si respira un’aria molto diversa da quella alla quale siamo abituati in Italia. Adesso avete un candidato premier apertamente socialista a capo del partito di sinistra più grande d’Occidente, eppure solo quattro anni fa il modello blairiano del New Labour sembrava regnare indiscusso. È un cambiamento specifico al Regno Unito o anche in Italia potrebbe accadere qualcosa del genere?
È sempre difficile fare paragoni di mutazioni in corso tra paesi tanto diversi, quindi mi limiterò a rispondere alla prima metà della domanda. Io resto convinto che il Labour sia un partito unico tra quelli social-democratici in occidente a causa del rapporto che ha con il sindacato. Innanzitutto perché non abbiamo avuto il suo frazionamento in diverse correnti politiche e poi perché i sindacati in Gran Bretagna hanno avuto storicamente un rapporto molto stretto con il Partito laburista, dalla fondazione fino al giorno d’oggi. Questo ha permesso al partito di mantenere un rapporto più o meno stabile con la working class, evitando che questo settore dell’elettorato andasse a cercare rappresentanza altrove. Il crollo dei socialisti in Francia, così come del Pd da voi, quella che viene chiamata “pasokificazione”, non è avvenuto da noi anche per questo motivo. Chiaramente conta anche il nostro sistema elettorale, il maggioritario a collegi uninominali, che non incentiva scissioni e avventurismi. Per noi non vi era mai stata una vera alternativa; o si provava a cambiare il partito da dentro, o si concedeva ai tories di vincere per decenni, perché rischiavamo di non aver alcuna rappresentanza in parlamento.
La combinazione di questi due fattori ha spinto gente come me a rimanere nel partito anche durante gli anni del New Labour. Non che questo sia necessariamente un argomento a favore del sistema maggioritario, che presenta anche delle forti lacune democratiche. Ma è un aspetto fondamentale da tenere in considerazione. Basta dare uno sguardo alla storia della vostra sinistra post-Pci per capire di cosa sto parlando. La verità è che se siamo arrivati fin qui è anche perché all’interno del Labour ci siamo rimasti pure mentre si riassestava in chiave neo-liberista dagli anni Ottanta in poi. Sconfitta dopo sconfitta, il nostro sforzo ha rallentato lo spostamento a destra del partito e ha garantito quelle vittorie democratiche nella sua struttura interna che hanno permesso a Corbyn di stare dove sta oggi.
Non si può sottovalutare l’importanza di questo fatto, ed è qui forse che il ragionamento si può estendere oltre al Regno unito. Perché è evidente che la sinistra deve trovare la sua ragion d’essere nel sostegno popolare, dove saremo sempre più forti, ed è da lì che devono venire le sue idee e la sua forza, tra la gente che si avvicina al partito per cambiare le cose. I politici ai vertici, per la natura stessa del loro mestiere, sono costretti a negoziare e trovare compromessi, diventano istituzionalizzati e facilmente tradiscono le promesse fatte agli elettori. Per questo è necessario costruire strutture democratiche all’interno dei partiti, che permettano un dialogo tra centro e periferia, tra politica nelle istituzioni e politica fuori dalle istituzioni. Questo è uno degli obiettivi principali di Momentum, e non penso sia un caso se nel Labour sono entrati più di 200 mila nuovi membri dal 2015, in un periodo in cui si scrivevano libri sulla fine dei partiti.
Questa funzione di collegamento tra alto e basso può essere incorporata nel partito stesso, in un mondo in cui Momentum non sarà più necessario? O al contrario ci sarà sempre bisogno di un’organizzazione, con un certo livello di indipendenza, che veicoli le pulsioni democratiche della base contro le tendenze centralizzanti degli organi di partito?
È una domanda che mi faccio spesso anch’io. Non ho una risposta vera e propria. Sono assolutamente convinto che un partito di sinistra che non sappia sostenere le politiche dei movimenti sociali e delle associazioni cittadine sia un partito destinato a fallire. Ma ho qualche riserva quando si afferma di voler trasformare il partito in un movimento sociale. I movimenti devono nascere e crescere organicamente, non devono essere gestiti dall’alto. Questa è la loro forza, ma anche, penso, la loro debolezza. La loro sfiducia nelle strutture e nei programmi, la loro tendenza alla disgregazione, li rendono vulnerabili e smorzano la loro efficacia nella battaglia contro forze ben organizzate. Per questo servirà sempre un partito progressista, che si prende l’impegno di sostenere le battaglie che nascono dal basso e che può offrire loro gli strumenti organizzativi, ma anche economici e tecnici, per trasformare quelle battaglie in vittorie. Questa specie di alleanza deve esistere nella completa indipendenza delle parti che la compongono, perché le forme e i metodi scelti parlano alle diverse anime della sinistra, ma forti del convincimento che il cambiamento radicale di cui abbiamo bisogno necessita della passione e l’impegno di entrambe.
* Niccoló Barca studia nel dipartimento di Media e comunicazione dell’Università di Goldsmiths, Londra. Si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica.
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