Il fronte interno
I segnali sul campo di battaglia ci dicono che la Russia non sta vincendo la guerra. Tuttavia, chi ha deciso questa sciagurata invasione ormai non può tirarsi indietro. Soprattutto per le contraddizioni del regime di Putin
Anche per i funzionari più fidati di Vladimir Putin la decisione di iniziare la guerra non è stata facile. L’intera Russia ha visto il modo in cui la voce del capo dell’intelligence straniera Sergey Naryshkin si è spezzata quando il presidente gli ha chiesto di esprimersi chiaramente sul progetto di riconoscere le «Repubbliche popolari» di Donetsk e Luhansk (Donetskaya Narodnaya Respublika, Dpr; Luganskaya Narodnaya Respublika, Lpr). Ma quanto le élite russe abbiano avuto paura a imbarcarsi nell’impresa ha poca importanza di fronte al fatto che uscirne potrebbe essere ancora più complesso.
Prima della fine della terza settimana di guerra, in Russia avevano iniziato a circolare voci sulla possibilità di un accordo di pace. Tali affermazioni trapelavano dai partecipanti ai negoziati ufficiali e da alti funzionari. «Certo, preferiremmo di gran lunga che tutto ciò accadesse molto più velocemente; questa è la sincera aspirazione della parte russa. Vogliamo arrivare alla pace il prima possibile», ha affermato il capo dei negoziatori russi ed ex ministro della cultura Vladimir Medinsky. Anche il ministro degli esteri Sergey Lavrov ha affermato di avere «una speranza particolare nel raggiungimento di un compromesso».
Il fatto che la parola «compromesso» abbia cominciato a fare capolino nei discorsi di burocrati e diplomatici russi, non è venuto fuori dal nulla. La guerra si è svolta in modi che hanno sfidato le aspettative degli strateghi russi. Mosca si è resa conto che non poteva più contare su una «piccola guerra vittoriosa» con la rapida capitolazione del nemico. La domanda è: quanto sono significative le concessioni che il Cremlino dovrà fare adesso? Anche l’altra parte lo capisce.
Ihor Zhovkva, vicecapo dell’ufficio del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, ha detto ai giornalisti che se all’inizio Mosca aveva usato un linguaggio da ultimatum, esortando «l’Ucraina ad arrendersi, deporre le armi e far firmare una capitolazione al presidente, ora la Russia ha un tono diverso». Il consigliere presidenziale e uno dei principali negoziatori Oleksiy Arestovych ha annunciato che la parte ucraina sta prendendo l’iniziativa nei negoziati:
Non siamo pronti a rinunciare a nulla. Al contrario, stabiliamo termini piuttosto rigorosi. Capiamo chiaramente che se otteniamo meno di quanto avevamo prima della guerra, per noi è una sconfitta. Proponiamo alcuni termini, che non possiamo ancora rivelare… Posso dire che questi termini daranno soddisfazione al popolo ucraino che lotta per la libertà.
Ma forse la cosa più sorprendente è che queste parole – che generano l’ansia dei governanti russi – sono state pubblicate dai media russi interamente sotto il controllo dell’ufficio di censura. Ciò ha dato origine a voci nel «campo patriottico» secondo cui alcune persone al potere si sarebbero mosse verso quella che considerano una «posizione capitolazionista». Lo ha detto, ad esempio, il nazionalista Igor Strelkov, che ha occupato la città di Sloviansk nel Donbas nel 2014, causando l’immediato innesco della guerra che ne è seguita. Intanto dai vertici del governo russo continuano ad arrivare nuovi segnali sul fatto che Mosca è pronta ad alcune pesanti concessioni, rispetto agli ultimatum dei primi giorni di guerra. In primo luogo, la portavoce del ministero degli esteri Maria Zakharova ha spaventato tutti annunciando che la Russia non ha intenzione di estromettere l’attuale governo ucraino (in precedenza Putin aveva affermato direttamente il contrario). Poi, il capo del dipartimento del ministero degli esteri russo per la Comunità degli stati indipendenti (Csi) post-sovietica, Alexey Polishchuk, ha espresso il pensiero ancora più blasfemo che la questione del ritorno di Dpr e Lpr in Ucraina rimane aperta e deve essere «decisa dai cittadini delle repubbliche». Il sito di Rt ha pubblicato queste parole.
Le posizioni negoziali di Mosca in questo momento sembrano peggiori rispetto a prima della guerra. In sostanza, ciò che si considera qui è la sconfitta, anche se ammorbidita da concessioni reciproche che saranno difficili per l’Ucraina. Per il «campo patriottico» radicale, equivarrà a una catastrofe. Coloro che sostengono attivamente la guerra stanno già parlando di un «nuovo Khasavyurt». Il termine si riferisce all’accordo di pace firmato con i separatisti ceceni nel 1996, che considerano «vergognoso» per la Russia perché accettò di ritirare le truppe dalla Cecenia e concesse il riconoscimento (seppur temporaneo) ai separatisti. Il governo di Boris Eltsin accettò allora la sconfitta nella prima guerra cecena. Questi sedicenti «patrioti» parlano anche di un processo «Minsk-3» analogo ai falliti colloqui di pace del 2014 e del 2015.
A parte una conquista assoluta dell’Ucraina, che la trasformerrebbe in una parte del nuovo «Impero russo», è chiaro che qualsiasi accordo di pace di compromesso sul fronte ucraino includerà alcune dure conseguenze per il governo.
Almeno 200 mila soldati torneranno a casa dal fronte traumatizzati dalla guerra. Avranno visto coi loro occhi tutto ciò di cui ora i media del Cremlino tacciono: la rivolta patriottica del popolo ucraino; l’odio per gli occupanti; la massiccia distruzione e le vittime civili; le gravi perdite subite dall’esercito russo che venivano negate dalla leadership del fronte interno; e la sensazione generale di una guerra perduta e ingiusta.
Coi soldati arriverà anche un certo numero di politici e attivisti «filorussi» della stessa Ucraina, che hanno scommesso sulla Federazione Russa e dovranno fuggire. A quel punto la ritirata assumerà anche il sapore del tradimento. Ma ai pochi collaboratori ucraini si aggiungeranno i piuttosto numerosi patrioti e nazionalisti russi, per i quali il rifiuto della «guerra fino alla vittoria» significa tradimento nazionale.
Ma queste sono tutte questioni banali in vista del risultato complessivo: in cambio di vaghi guadagni diplomatici – l’ipotetico status neutrale dell’Ucraina e, forse, il riconoscimento della Crimea – il paese si ritroverà con un’economia al collasso, una moneta svalutata, sanzioni, un Occidente unito e contraddittorio, e il dolore delle sue perdite umane. Gli effetti di tutto questo sembrano destinati a sostituire le valutazioni precedentemente elevate di Putin con un «buco nero», una gigantesca attrazione gravitazionale di odio verso il presidente che ha trascinato il paese in questo disastro.
Pace a ogni costo
Eppure, la classe dirigente russa ha molte ragioni per cercare la pace, anche se ha un costo elevato. Il principale sta nel fatto che questo costo con il tempo è destinato ad aumentare.
Secondo le previsioni più ottimistiche degli esperti del governo, la Russia dovrebbe vedere un calo dell’8% del Pil quest’anno, anche se la guerra finirà presto. La disoccupazione dovrebbe raddoppiare. L’inflazione sarà a un tasso annuo del 20-25%. Ma se la guerra si trascina, queste valutazioni potrebbero diventare un sogno irrealizzabile. Un possibile accordo con l’Iran e la recessione economica globale potrebbero abbassare i prezzi del petrolio e indebolire la dipendenza dell’Unione europea dai combustibili fossili della Russia. Quindi la Russia può aspettarsi una crisi finanziaria più estesa, fino a un calo del 30% del Pil, secondo alcune stime.
Oltre a un possibile crollo catastrofico della credibilità delle autorità presso la gente comune, c’è anche la minaccia del rapido crollo del regime e della sua macchina amministrativa. L’azione contro la guerra dell’impiegata della televisione di stato Marina Ovsyannikova, apparsa in diretta streaming con un cartello che chiedeva la fine della guerra, mostra che anche la macchina della propaganda è in profonda crisi. Di conseguenza, molti giornalisti stanno abbandonando i canali televisivi, comprese le «stelle» di prim’ordine. Un’altra dimissione di una figura importante è arrivata da un funzionario governativo di alto livello: l’ex vice primo ministro e presidente della Fondazione Skolkovo, Arkady Dvorkovich. Ma il pericolo più grande è più insidioso.
Nella sua rubrica sul Guardian, l’economista francese Thomas Piketty si è applicato sulla questione più delicata per la classe dirigente russa. Per fare in modo che la Russia fermi l’«operazione militare speciale» in Ucraina, all’Occidente basterebbe congelare o confiscare i beni di 20 mila milionari russi, che possiedono oltre 10 milioni di euro ciascuno in residenze europee e americane. Putin, alcuni suoi parenti e decine di oligarchi russi e alti funzionari sono già nelle liste delle sanzioni; tuttavia, spiega Piketty, «il problema è che i blocchi applicati finora rimangono in gran parte simbolici. Riguardano solo poche dozzine di persone e possono essere aggirati utilizzando dei nominativi…».
A questo punto, la maggior parte dei pesci grossi e dei burocrati russi si sente al sicuro, utilizzando l’aiuto degli intermediari finanziari che gestiscono i propri beni. Per scongiurare da questa possibilità, è necessario creare un registro finanziario internazionale che tracci i portafogli esistenti di immobili e attività finanziarie delle famiglie che gestiscono la Russia, non importa come siano formalizzati giuridicamente e chi li gestisce. «Quando sarà minacciato di rovina e di divieto di visitare l’ovest – scrive Piketty – scommettiamo che questo gruppo riuscirà a farsi sentire dal Cremlino». Naturalmente, a questo punto, i ricchi occidentali resistono a tali misure perché i loro «interessi sono molto più strettamente legati a quelli degli oligarchi russi e cinesi di quanto a volte si affermi». Ma la guerra che si trascina o si sposta verso la distruzione totale delle città ucraine potrebbe indurre l’Occidente a rinunciare al feticcio del «diritto sacro alla proprietà», almeno quando riguarda i milionari russi.
Secondo i calcoli dell’economista francese, solo circa 100.000 russi possiedono beni di 2 milioni di euro o più in Occidente. In sostanza, questa è la classe dirigente russa. Queste sono le persone che sostengono l’economia, le infrastrutture, l’ordine civile, l’apparato amministrativo, i media: l’intera macchina governativa della Russia di Putin. Se diventa per loro fonte di dolore piuttosto che garante di privilegi, non ci sarà nulla con cui sostituire la loro lealtà. L’oligarchia del Cremlino sarà sospesa a mezz’aria. Anche il Cremlino lo capisce. L’addetto stampa di Putin, Dmitry Peskov, ha definito le misure occidentali contro gli oligarchi russi un assalto alla «santità dei diritti di proprietà». Ma la cosa più importante è che anche i membri dell’élite russa vedono il pericolo.
La figlioccia di Putin, Ksenia Sobchak, che rimane parte dell’opposizione moderata e ultraliberale al suo padrino, ha lanciato un attacco rivelatore lo scorso 17 marzo. «Biden ha tenuto un discorso davanti al congresso, che può essere riassunto come: ‘La gente in Ucraina sta morendo, . . . (rullo di tamburi!) Porteremo via gli yacht degli oligarchi – ha scritto – Sono l’unica a pensare che questa sia una disgustosa ‘pratica rivoluzionaria’, in cui il contratto sociale è al di sopra della legge? Ci siamo trasformati nei personaggi di Ayn Rand». Nonostante la loro indignazione per le minacce «comuniste» di Biden, i membri dell’élite russa comprendono con una chiarezza senza precedenti che il loro vero problema è preservare il potere di Putin.
L’unico modo per le élite estranee del paese di non lasciare che l’intero apparato governativo crolli è porre fine alla guerra il prima possibile, restituendo a loro volta la propria pace mentale.
Putin trasforma la sua guerra imperialista in una guerra civile
Di fronte ai crescenti dubbi – se non alla totale opposizione – a livello nazionale, la paura delle autorità è palpabile. «L’Occidente sta cercando di dividere la società, speculando sulle perdite militari, sulle conseguenze socioeconomiche delle sanzioni, tenta di provocare la resistenza civile in Russia», ha dichiarato lo stesso Putin in un discorso televisivo. Ha chiamato coloro che «a causa della loro mentalità da schiavi» si allineano con l’Occidente la «quinta colonna» e i «traditori nazionali». Ha anche promesso che la gente «sputerà fuori tali traditori e bastardi, come una mosca che è volata accidentalmente in bocca». Per ora, non si tratta tanto dell’opposizione di base, ma dei membri disamorati dell’élite. Tuttavia, è chiaro che il fronte principale per Putin si sta spostando lentamente dall’Ucraina alla stessa Russia.
Qualunque sia la situazione sui campi di battaglia, l’importanza di questo «fronte interno» non potrà che crescere. Una sconfitta mal camuffata e una «pace vergognosa» porteranno sicuramente a un inasprimento delle viti del controllo dittatoriale, per timore che esploda la rabbia dei patrioti. Ma anche la continuazione della guerra farà sì che il governo dimostri una crudeltà senza precedenti e brutale verso tutte le voci dissenzienti, in modo che la depressione e la paura di oggi non si trasformino nella rivolta di domani.
Ciò indica una condizione critica per raggiungere una parvenza di pace in questa parte del mondo. Finché gli attivisti contro la guerra vengono arrestati e picchiati, la minaccia di ulteriori bagni di sangue rimane. Solo una democratizzazione radicale, in Russia e oltre, consentirà una pace duratura e relazioni amichevoli tra i popoli dell’ex spazio sovietico.
Questa democratizzazione muove da passi ovvi: l’immediata liberazione di tutti i prigionieri politici, l’abbandono della censura e della violenza politica e l’apertura dell’arena elettorale. Ma deve invariabilmente andare oltre. Perché non solo Putin e la sua cerchia ristretta hanno la responsabilità della catastrofe di oggi. L’intera classe dirigente – i suoi alti funzionari, il suo sistema giudiziario, i generali, i politici lealisti e gli oligarchi – hanno avuto un ruolo attivo nella creazione di questo inferno. Non possono continuare a governare ulteriormente il paese, anche se paga il prezzo della capitolazione davanti all’Occidente. I miliardi che ha pompato fuori dalla Russia e dall’Ucraina devono essere restituiti al popolo che ha ricevuto la fine della guerra e della dittatura. Sono loro che creeranno il nuovo «contratto sociale» di cui Ksenia Sobchak e il suo padrino hanno tanta paura.
Ecco perché la condizione critica per la pace deve essere una democratizzazione immediata, esauriente e senza compromessi all’interno della stessa Russia. Questo è ciò per cui la sinistra, e tutti coloro che vogliono fermare questa guerra, devono lottare.
*Alexey Sakhnin è un attivista russo. È stato uno dei portavoce del movimento di protesta anti-Putin. È membro del Progressive International Council e di Socialists against the War. Questo testo è uscito su JacobinMag. La traduzione in italiano è a cura della redazione.
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