Il futuro di Fredric Jameson
Fredric Jameson, scomparso una settimana fa, ha definito il postmoderno come il tempo storico in cui il capitale, facendosi cultura e senso comune, mira a costituirsi come unica narrazione possibile
Nelle pagine finali di Late Marxism (1990), il libro che Fredric Jameson ha dedicato a uno dei suoi maestri ideali, Theodor W. Adorno, si legge:
Non si può […] immaginare un futuro da cui sia assente il più profondo impegno politico, s’intende di sinistra. Naturalmente, le fonti di tale impegno sono inconsce e sovradeterminate dalla famiglia e dall’infanzia, nonché dalla classe e dall’esperienza; e anche in una società pienamente postmodernizzata del Primo Mondo non mancheranno mai giovani il cui temperamento e i cui valori siano genuinamente di sinistra e comprendano visioni di radicale cambiamento sociale impedito dalle norme di una società basata sul profitto. La dinamica di tale impegno deriva non dalla lettura dei ‘classici del marxismo’, bensì dall’esperienza oggettiva della realtà sociale e dal modo in cui una causa e un’istanza isolata, una forma specifica d’ingiustizia, non può essere soddisfatta o corretta senza coinvolgere alla fine l’intera rete dei livelli sociali interconnessi in una totalità che richiede allora l’invenzione di una politica di trasformazione sociale. Il privilegio dei testi marxiani (e il motivo per cui il nome del loro autore rimane, forse abusivamente, legato a una tale politica in contrapposizione ad altri pensatori sociali) è che Marx ha fatto questa esperienza totalizzante proprio all’inizio della sua carriera, come dimostra la traiettoria dei primi articoli pubblicati e non. Anche se la parola marxismo sparirà perciò con l’obliterazione dei nastri magnetici in una qualche nuova età dei secoli bui, la sua realtà riapparirà inevitabilmente. [F. Jameson, Tardo marxismo. Adorno, il postmoderno e la dialettica (1990), Roma, manifestolibri, 1994, p. 273]
Si può azzardare un’ipotesi suggestiva: tutto quel che Jameson ha scritto dagli anni Novanta in poi, fino alle prove del suo ultimo anno di vita, può essere interpretato come una lunga e complessa glossa a questo passo. In un duplice senso: sin dalla sua sistematica restituzione del postmodernismo come logica culturale del tardo capitalismo e della postmodernità come epoca che dilata e nello stesso tempo supera i confini del moderno, Jameson ha cercato una strada possibile per la persistenza e per la resistenza del marxismo come codice interpretativo supremo; in secondo luogo, ha ribadito con costanza – specie in un libro fondamentale come Valences of the Dialectic (2009) – la necessità di pensare la realtà postmoderna in termini di totalizzazione e di totalità, vale a dire come un tempo storico in cui il capitale, facendosi cultura e senso comune, ovvero superficializzandosi e mimetizzandosi entro i processi di socializzazione e condivisione delle esperienze, mira a costituirsi come unica narrazione possibile, come inconscio sociale della nostra epoca. A tutto ciò va aggiunta l’insistenza sulle contraddizioni oggettive e sui conflitti materiali, che per Jameson – al di là di una certa retorica che lo ha descritto come marxista accademico e persino impolitico – restano la stella polare di ogni politica socialista.
Se Jameson viene celebrato in questi giorni come l’ultimo grande marxista del Novecento, lo si deve senz’altro alla direzione che la sua impresa teorica ha assunto a partire dagli anni Settanta: offrire al pensiero materialista uno strumentario dialettico capace di affrontare le metamorfosi più complesse del modo di produzione capitalistico. Né ci si deve stupire di un dato che spesso è apparso ai detrattori come un punctum dolens del marxismo del Secondo Novecento: che sia stato un critico della cultura – e, più nello specifico, un critico letterario –, e non un critico dell’economia politica, il diagnosta più efficace della svolta postmoderna. D’altra parte, la tesi forte di Postmodernism, or, The Cultural Logic of Late Capitalism (1991) relativizzava questa obiezione demistificando qualsivoglia visione specialistica e anzi imponendo, in senso davvero marxiano, l’idea che il passaggio d’epoca dovesse essere colto, senza cedimenti a visioni frammentarie e compartimentate, nella sua dinamica totalizzazione. La critica della cultura appariva, a quell’altezza, come una vera e propria prospettiva politica. Per una ragione precisa: era la realtà a mutarsi in fatto culturale. Ed erano l’architettura o la videoarte a rivelarlo, non più la letteratura modernista o la musica atonale.
L’intuizione di Jameson non rinunciava però a leggere con le chiavi della dialettica hegeliana e poi marxiana, variamente potenziate dai nomi di Adorno, Benjamin, Bloch, Brecht e Marcuse, l’enorme trasformazione in corso. Affermare che la cultura di questo tempo nuovo costituisse la logica dominante di ragioni più profonde, da cogliersi nell’evoluzione in senso immateriale ed evanescente (avremmo poi detto finanziario) del capitale, significava apprendere nel pensiero una metamorfosi in atto e leggerla, in modo assai originale, come una «sovrastrutturalizzazione della struttura». Insomma, per primo Jameson ci ha mostrato che il farsi-cultura del capitale – qualcosa che segnava la fine della cultura di massa o rendeva meno limpidi i confini tra cultura alta e cultura bassa, costringendoci a rivedere le categorie più familiari e meno discusse del sapere consolidato – corrispondeva a una nuova modalità di sopruso, forse più mentale che materiale, che modificava addirittura il «sensorio» dei soggetti coinvolti (se di soggetti si poteva e si può parlare).
E, allora, per essere onesti nei confronti di una teorizzazione a tutto campo, nella quale Jameson rileggeva, per verificarli, e riscriveva, per vivificarli, i riferimenti teorici della tradizione dialettica, non si può dimenticare che la risposta socialista alla superficializzazione della realtà e alla manomissione della critica (intesa come forma di interrogazione appunto profonda) ha un nome ben preciso: cognitive mapping, ossia la mappa cognitiva della totalità. Che per Jameson è sinonimo di coscienza di classe – un nuovo corredo spazio-temporale capace di situare la nostra esperienza all’interno delle contraddizioni oggettive, cioè nell’universo dei rapporti sociali, senza cedere a forme idealistiche e neoliberali di separazione o frammentazione (siano esse teoriche, siano esse pratiche). Pertanto, la critica della cultura si rivelava, in quel giro d’epoca, uno strumento indispensabile per cogliere tutte le ambivalenze del suo stesso oggetto d’analisi. E su questa ambivalenza della cultura – sul suo carattere duale, anfibio – Jameson ha speso le riflessioni più acute, mostrandoci come i fatti culturali siano sempre animati da un carattere ideologico (di conferma dell’esistente o di necessità di presenziare al proprio tempo) e da un carattere utopico (di non-accettazione dell’esistente e di prefigurazione di una totalità-altra). Non leggerei dunque l’interesse di Jameson per tutte – davvero tutte! – le forme d’arte della postmodernità – da Mtv a The Wire, da Philip Glass al rock alternativo – nei termini di un’apolitica curiosità o, persino, nei termini di un programmatico antisnobismo (ricorderemmo, all’inverso, alcune pagine memorabili su Mahler o Hitchcock, se ce ne fosse il bisogno); bensì vedrei questa tensione onnivora come una conferma della «fatica del concetto», come un modo di intendere la cultura nei termini doppi di servitù e rivoluzione (o, se volete, quale documento di barbarie e documento di civiltà), nel verso di una diagnosi delle relazioni interne a un edificio culturale complesso.
A questo punto, bisogna insistere su un elemento centrale e inaggirabile. Quel che permette a Jameson di diagnosticare la totalità postmoderna, spendendosi in un’inesauribile analisi dell’esistente, è l’irrinunciabile concezione marxista. Da intendersi ancora una volta in un senso duplice: come forma storica della lotta di classe e come forma autocosciente delle rappresentazioni – necessarie, indispensabili – che diamo al conflitto (non si lotta contro l’autoritarismo senza sapere il perché, avrebbe detto Fortini, straordinario interprete della prima ora delle pagine jamesoniane). Sin dal 1971, l’anno in cui Jameson pubblica Marxism and Form (ma pure un saggio decisivo come Metacommentary), il marxismo è inteso come necessario correttivo dialettico alle visioni parziali della storia e della cultura. Il marxismo le sussume entro un orizzonte più ampio e complessivo – quello intrascendibile della Storia, ripete assieme a Sartre – e ne dimostra la validità sul piano locale e l’inefficacia su quello storico, dal momento che ne dimostra la chiusura epistemologica entro uno spazio astratto, il solo nel quale riescono a legittimarsi. L’iniezione di marxismo salva gli altri codici interpretativi dalla loro occultata relatività e li costringe a confrontarsi con la concretezza delle determinazioni materiali (da cui essi, del resto, provengono ed emergono).
A questo assunto Jameson è rimasto fedele per tutta la sua vita di studioso, di interprete e di militante. Sapendo peraltro di collocarsi in quello spazio ormai minoritario nella già minoritaria cornice marxista che è il pensiero dialettico. La generosità per cui è noto – una qualità umana che si sommava, in modo coerente, alle straordinarie doti intellettuali – ha a che fare con una teoresi della sussunzione che intende «dialettizzare» anche le pulsioni antidialettiche attive nel marxismo contemporaneo e inglobare punti di vista lontanissimi dal suo (penso a certe pagine su Foucault o sul decostruzionismo americano). Per questo motivo, Jameson passa alla storia come un pensatore hegelo-marxista senza sconti, per il quale il capitale costituisce un vettore di universalizzazione totale che agisce, nella postmodernità, anche e soprattutto per vie culturali, istituendo forme di vita e soggettività asservite alla sua logica. La rivelazione dell’istanza culturalista che muove la signoria capitalistica resta uno dei contributi fondamentali della sua opera, anche nei termini di demistificazione persuasiva di quelle cornici di pensiero e di quelle traiettorie teoriche che, volendosi antagoniste, finiscono per aderire in tutto e per tutto all’alfabeto neoliberale (proprio in ragione del rifiuto della dialettica, intesa come verifica materialistica – in questo caso, mancata – dei propri presupposti categoriali).
Occorre però soffermarsi, per chiudere, sulla teoria dialettica della letteratura che Jameson, a partire da Marxism and Form e soprattutto in The Political Unconscious (1981), non senza ricordare il più recente Allegory and Ideology (2019), ha contribuito a formulare. Lontano dalla falsa opposizione tra giudizio di valore e giudizio di gusto – entrambi strumentali, in ogni caso –, Jameson ha concepito il testo letterario come forma di una chiusura ideologica e, seguendo le indicazioni di Lévi-Strauss, come risposta, sul piano dell’immaginario, a una contraddizione materiale altrimenti insolubile. Nell’elaborare questa concezione Jameson ha inoltre ribadito che l’interpretazione dei fatti culturali è sempre e comunque una riscrittura dell’esistente secondo l’alfabeto di un codice-altro: ha cioè a che vedere con l’allegoria come metodo di conoscenza (per evocare il titolo di un libro di Romano Luperini). Interpretare è, di per sé, un’operazione dialettica che ci costringe a lavorare in modo autocosciente su una pletora di relazioni: interpretare significa allegorizzare – cioè trascinare verso una narrazione ulteriormente onnicomprensiva – quel che già si presenta come allegorico, alla ricerca di una dimensione nascosta – appunto inconscia – che ci riporta a un livello di significazione basilare, eppure più complesso: quello della storia umana e collettiva. Per Jameson – e torniamo alle tesi di Postmodernism, o se preferite all’intero messaggio della sua lezione –, qualsivoglia atto estetico o proposta teoretica, costituendosi come forma presuntivamente definita attraverso l’espulsione da sé di quel che non può avere forma (perché insuperabile), necessita della lettura problematica e storicizzante di questo scarto – una lettura che ne relativizza la volontà di potenza (ogni opera è, per certi aspetti, dispotica nel presentarsi come chiusura definita) e che pone molte cautele all’interprete (dal momento che la sua teoresi è esposta allo stesso rischio). Ma il fatto che l’opera ambisca a tale chiusura di senso implica un attivismo elaborativo che Jameson intende preservare, perché, in un senso gramsciano, l’atto estetico come atto ideologico è anche e soprattutto un atto di edificazione di possibilità conoscitive.
Ecco, il futuro della teoria jamesoniana sta tutto nella difesa di questa modalità esegetica, cioè nel mantenere vivo un pensiero della profondità che, come ricorda Adorno in Terminologia filosofica, non si sostanzia nell’accesso estetizzante a qualche recondito significato inattingibile, bensì rimanda alla necessità faticosa della concettualizzazione. Non si può non concettualizzare; non si può non storicizzare; non si può non allegorizzare. È quel che tiene aperta la partita materialistica.
Come monadi in un mercato globale politicamente disunito, i vecchi stati-nazione e le loro culture, alla stregua di individui coinvolti in una folla impazzita per il panico, paiono non più in grado di concepire un socialismo globale, successivo alla lotta di classe, che possa da solo riorganizzare l’immigrazione, controllare il disastro ecologico e prevenire il fascismo. La nostra scommessa è che gli intellettuali, con le loro questioni d’ordine teoretico, possano giocare un ruolo, per quanto piccolo, nella costruzione di questo nuovo sistema-mondo, a patto di provare a immaginarlo: quando ho detto che è più difficile immaginare la fine del capitalismo che la fine del mondo, non volevo certo intendere che fosse impossibile.[F. Jameson, Prefazione a M. Gatto, Fredric Jameson, Roma Futura, 2022, p. 12]
*Marco Gatto insegna Teoria della letteratura presso l’Università della Calabria, dove ricopre il ruolo di professore associato. Ha scritto, tra gli altri, Fredric Jameson. Neomarxismo, dialettica e teoria della letteratura (Rubbettino, 2008), L’umanesimo radicale di Edward W. Said. Critica letteraria e responsabilità politica (Mimesis, 2012), Marxismo culturale. Estetica e politica della letteratura nel tardo Occidente (Quodlibet, 2012), Resistenze dialettiche. Saggi di teoria della critica e della cultura (manifestolibri, 2018), Fredric Jameson (Futura, 2022), Rocco Scotellaro e la questione meridionale. Letteratura, politica, inchiesta (Carocci, 2023) e Critica dell’inespresso. Letteratura e inconscio sociale (Quodlibet, 2023).
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