
Il mito del provocatore esterno
Il mito degli «agitatori esterni», riapparso in questi giorni a proposito delle rivolte antirazziste negli Usa, viene utilizzato da sempre dai conservatori e dai liberali per sminuire e intimidire i manifestanti
Da giorni tutto il paese è a in rivolta contro il razzismo e la brutalità della polizia. In risposta, il primo istinto dei difensori dello status quo è stato quello di unirsi dietro un vecchio argomento: la rivolta è opera di «provocatori esterni» che non appartengono alle comunità in cui hanno avuto luogo le proteste. È un’immagine che dovrebbe essere immediatamente riconosciuta come falsa e progettata per minimizzare e cancellare la rabbia diffusa che ha portato a queste ribellioni.
Il presidente Donald Trump, il governatore del Minnesota Tim Walz e il sindaco di Minneapolis Jacob Frey hanno incolpato gli agitatori venuti da fuori dallo stato per i «riot». I media mainstream hanno presto dato risonanza a questa narrativa. L’Nbc e il The Hill si sono uniti al coro riportando la seguente dichiarazione del sindaco di St. Paul Melvin Carter: «Mi è stato riferito che tutti quelli che sono stati arrestati la scorsa notte provenivano da altri stati».
Ma a quanto pare, un’indagine di Kare 11, una stazione televisiva affiliata alla Nbc a Minneapolis, ha mostrato che «dai registri delle prigioni locali risulta che la maggior parte delle persone arrestate per le rivolte, per manifestazione non autorizzata e furto con scasso sono del Minnesota». Il dato, preso dall’elenco della prigione della contea di Hennepin, dimostra che «su trentasei casi, l’ottantasei per cento di coloro che sono stati arrestati [il 29 e il 30 maggio] risiede nel Minnesota» – un numero di quattro volte superiore al venti percento dichiarato dal governatore Waltz durante la conferenza stampa di sabato mattina. Il sindaco Carter ha di conseguenza ritirato la dichiarazione errata, dando la colpa alle informazioni poco accurate ricevute durante un briefing della polizia.
Perché è una cosa importante? L’immagine dell’«agitatore esterno» si accompagna spesso a una filippica sul fatto che sono gli «anarchici bianchi» o gli «Antifa» a guidare la ribellione – e non le persone di colore. È un tentativo di indebolire e isolare i manifestanti gli uni dagli altri, per rendere i «bravi» manifestanti sospettosi e paranoici di essere «infiltrati» da radicali bianchi (Radicali neri e nere sembra invece che non esistano). Alimentare la sfiducia nelle alleanze che si stanno formando è un modo semplice e veloce per assicurarle a una morte rapida.
Queste accuse sono venute fuori spesso in risposta alle lotte per i diritti civili. Nel 1965, il Concilio dei Cittadini Bianchi tappezzò il Sud con oltre duecento manifesti nel tentativo di screditare Martin Luther King Jr associando il suo nome al comunismo. Uno di questi cartelloni, con una foto di King che presenzia a un evento nel 1957 alla Highlander Folk School – un luogo importante per la formazione di molti attivisti per i diritti civili – è intitolato «Martin Luther King alla Communist Training School». Sul manifesto, una gigantesca, fumettistica freccia che punta direttamente su King.

L’accusa di comunismo accompagnò King nel Sud ovunque andasse. Nel 1965, poco prima che la polizia interrompesse violentemente una manifestazione pacifica per i diritti civili a Selma, Alabama, lo sceriffo della contea di Dallas Jim Clark sostenne che King fosse un agitatore esterno e che la marcia fosse composta «probabilmente per un quarto da comunisti e per una buona metà da simpatizzanti del comunismo».
Per Clark e per un mucchio di razzisti bianchi in tutto il Sud, l’idea paternalista alla base del discorso era che «i nostri negri» non avrebbero mai partecipato a proteste del genere, dato che erano per lo più contenti, ma venivano aizzati da piantagrane esterni. Riconoscere che un enorme numero di afroamericani locali fossero invece profondamente arrabbiati con lo status quo e pronti a ribellarsi avrebbe significato riconoscere che quello status quo era marcio.

Richard Seymour scrisse nel 2014, in risposta al termine impiegato sia dai liberali che dai reazionari durante l’insurrezione di Ferguson: «La linea dell’agitatore esterno puzza di vigilanza vecchio stampo, una commistione di razzismo e anticomunismo tipica della controrivoluzione del Sud negli ultimi giorni di Jim Crow».
I segregazionisti hanno cercato di preservare la legge Jim Crow [che tra Ottocento e Novecento ha consentito ai singoli stati di conservare tratti di segregazionismo aboliti a livello federale, Ndt] etichettando i radicali neri come comunisti, e condannando gli attivisti e le attiviste nere a indagini invasive da parte dell’House Un-American Activities Committee (Huac) e di altri. Come ha detto Paul Heideman, «le purghe anticomuniste dei tardi anni Quaranta e dei primi anni Cinquanta calarono sul movimento per l’uguaglianza razziale come una martellata». Una crociata reazionaria contro i comunisti, aiutata e spalleggiata dai Democratici liberali e permessa in molti modi dal mito dell’agitatore esterno radicale responsabile delle proteste per i diritti civili, che fu demolita con successo dall’alleanza tra i sindacati di sinistra e gli attivisti per i diritti civili.
Nel 2020, queste tattiche hanno fatto di nuovo capolino. Il mito degli «agitatori esterni» viene utilizzato simultaneamente dai conservatori e dai liberali per sminuire e intimidire i manifestanti. Non dovremmo lasciarli fare, è un’accusa progettata per minimizzare la rabbia diffusa che molti provano e agiscono in questo paese. Martin Luther King ci aveva avvertito: «Dobbiamo tutti imparare a vivere insieme come fratelli, o moriremo insieme come stupidi».
Non innamoratevi dei difensori dello status quo che continuano a incolpare gli «agitatori esterni»« per le ribellioni si stanno diffondendo in tutto il paese in questo momento: vogliono che moriamo insieme come stupidi.
*Glenn Houlihan sta svolgendo un master all’University del Wyoming. Questo testo è comparso su JacobinMag. La traduzione è di Gaia Benzi.
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