
Il mondo di QAnon messo a nudo
Il documentario «Q: into the storm» è stato criticato per il suo approccio morbido verso i soggetti coinvolti. In realtà riesce a mostrare le pulsioni che stanno all'origine del movimento
Fra tutte le immagini dell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio scorso, quella che probabilmente ha girato più di tutte è stata la foto di Jake Angeli (conosciuto come lo «sciamano di QAnon» e il «lupo di Yellowstone») che si sporge dal palco della presidenza del Senato, ostentando un copricapo di pelliccia con tanto di corna e mostrando il petto coperto di tatuaggi. Come molte immagini legate al cospirazionismo di estrema destra targato Q, la scena era allo stesso tempo profondamente inquietante e assurdamente grottesca, ed evocava un frastornante miscuglio di nazionalismo suolo-e-sangue, cosplay da fiera rinascimentale, e le menti irreversibilmente annebbiate di drogati del web.
Malgrado la competizione sia parecchio accesa, è difficile trovare immagini più emblematiche degli ultimi scoppiettanti giorni dell’era Trump – o comunque che illustrino meglio perché per i documentaristi il fenomeno Q è un soggetto così difficile da esplorare. Composta da un combinato di intenzioni violente, truffa online e una narrazione incoerente e tentacolare sul destino mitico dell’ex-presidente, un tempo ospite fisso del reality show Nbc The Apprentice, QAnon è una tendenza politica estremista profondamente postmoderna. Per questo motivo pone gli aspiranti registi di fronte a un dilemma: come affrontare un soggetto che è contemporaneamente così oscuro e così ridicolo?
Questa è la sfida che si è trovato di fronte il regista Cullen Hoback, la cui piacevole serie documentario Q: Into the Storm è andata in onda su Hbo a partire da marzo. La risposta di Hoback a questa domanda sembrerebbe quella di far parlare i personaggi del film per loro stessi, mentre fa del suo meglio per investigare e scoprire l’identità del misterioso «Q». Questa ricerca, insieme alle interviste alle varie figure legate a QAnon, compone l’ossatura dei sei episodi della serie – l’ampio arco narrativo che ripercorre le tracce della teoria cospirazionista dalla sua nascita nel 2017 fino al suo ruolo chiave negli eventi del 6 gennaio 2021.
Anche se questa storia è oggi ben conosciuta, la rappresentazione che ne dà Hoback ha un carattere sia informativo che d’intrattenimento – offrendo allo spettatore un quadro dettagliato dell’intricato miscuglio di cultura chan, pregiudizio razziale e sessuale, fervore evangelico, fanatismo di destra e anonimato online che in ultima istanza ha permesso la nascita del fenomeno Q. Anche se Hoback include il parere di esperti, come i giornalisti del The Daily Best Will Sommer e Jared Holt (conosciuto, tra le altre cose, per il suo lavoro come attivista di Right Wing Watch), la maggior parte del documentario è occupata da sostenitori o simpatizzanti di Q, dando vita a un ritratto senza filtri del bizzarro cast del fenomeno, composto da vari personaggi, infulencer ed enigmatici moderatori.
Figure prominenti della serie sono il fondatore di 8chan Fredrick Brennan e il coppia di attuali proprietari di 8chan (ora 8kun), Jim Watkins e suo figlio Ron. Una porzione enorme del documentario, in realtà, è occupata dalle interviste di Hoback a loro tre, mentre ripercorrono nel dettaglio le tappe del loro rapporto con il forum e con il suo ruolo sempre più cruciale di hub delle teorie di complotto e della violenza di estrema destra.
Fondato originariamente da Brennan, un giovane uomo amabile che è la cosa più vicina al protagonista del film, 8chan è diventato la casa virtuale di QAnon dopo il bando dal forum più moderato 4chan (dove nell’ottobre del 2017 apparve il primo post firmato Q). Dopo aver venduto il sito alla Watkins Sr nel 2015, Brennan ha dislocato il tutto nelle Filippine, dove ha continuato a lavorare come amministratore del sito fino allo scontro con la nuova gestione riguardo al coinvolgimento del forum negli episodi di estremismo online e sparatorie di massa (incluso il massacro del 2019 alle moschee di Christchurch, in Nuova Zelanda). Watkins, invece, è un personaggio inquietante dalle motivazioni ambigue (perlomeno in un primo momento), che si guadagna da vivere con gli allevamenti di suini, la vendita al dettaglio e l’hosting di siti web in luoghi con restrizioni legali minime – aiutato dal figlio Ron, che gli dà una mano con le operazioni quotidiane riguardanti il sito mentre insiste sul fatto che ciò che avviene lì non gli interessa poi molto.
L’approccio di Hoback è certamente ravvicinato, e lo rende parte della storia oltre che narratore (nel quinto episodio della serie aiuta persino Brennan a inscenare una fuga al cardiopalma da Manila per sfuggire a una causa legale intentata dal più anziano Watkins che ha tutte le carte in regola per finire con una sentenza di ergastolo). Il prezzo che paga per questo livello di accesso è l’incapacità di fare altro durante le interviste oltre a osservare passivamente: un approccio gonzo che gli è valso diverse recensioni negative dei critici, che lo ritengono equivalente a una sorta di glorificazione dei personaggi ritratti. I detrattori più accaniti arrivano a sostenere che Into the Storm sia un «elogio senza scopo di alcuni dei fautori più noti della teoria del complotto».
Questa ricezione, per quanto in buona fede, è molto più che ingiusta. Dopo tutto, raffigurare non significa sostenere, e il film di Hoback non mostra alcuna simpatia per QAnon o per i suoi leader squilibrati. Inoltre, in qualità di soggetto sia giornalistico che documentario, si può dire che il fenomeno Q non soffre affatto di una carenza di condanne e fact-checking, ma entrambi questi approcci non sono riusciti a spiegare gli impulsi che ne stanno alla base in maniera altrettanto interessante di Into the Storm. Nell’approccio di Hoback al tema abbiamo modo di ascoltare la versione dei proprietari di 8chan e degli alchimisti dei giochi di ruolo dal vivo di QTube (la rete informale di canali QAnon su YouTube), e alla fine il quadro che compongono offre alcune risposte reali, anche se provvisorie, alle domande sul significato del movimento e le sue origini.
Interagendo sia con Jim che con Ron Watkins per anni – il progetto ne ha richiesti tre per essere realizzato – l’occhio apparentemente passivo del regista riesce chiaramente a comprendere bene i propri soggetti, e il mix di editing e commento rende evidente che non li considera degni di fiducia e non simpatizza affatto per loro. Il momento centrale della serie [spoiler alert!] è nell’ultimo episodio, quando Hoback, infiltrato insieme a Jim Watkins nell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio, conclude suggerendo che il misterioso Q altri non sia che lo stesso Ron Watkins. «Se guardi al mio feed di Twitter, è questo che sto pubblicizzando al momento», dice Watkins al regista durante l’ultima conversazione del film, aggiungendo:
Ho passato gli ultimi… quasi dieci anni, ogni giorno, a fare questo tipo di ricerche in forma anonima. Ora lo sto facendo pubblicamente, è questa l’unica differenza… Di base sono stati… tre anni di addestramento d’intelligence passati a insegnare alle persone normali come fare lavoro d’intelligence. È stato questo che ho fatto in forma anonima ma, prima, mai come Q.
Watkins, la cui successiva espressione impudente sembra quella di qualcuno colto nel mezzo di un errore, si affretta ad aggiungere: «Mai come Q. Lo giuro. Perché io non sono Q, e non lo sono mai stato». Per Hoback si tratta di un’ammissione involontaria, e il regista rende sicuramente plausibile l’ipotesi che l’identità di Q sia proprio questa. Watkins, dopo tutto, fino a quel momento aveva passato gran parte del tempo a professare vigorosamente la propria ignoranza e mancanza di interesse per tutta questa storia e, se non altro, è evidente che fosse coinvolto molto più profondamente di quanto non fosse disposto ad ammettere.
Il progetto di Hoback ha dei difetti, la gran parte dei quali può essere attribuita alla tempistica della produzione, iniziata ben prima che QAnon attirasse l’attenzione del mainstream o attraesse un così vasto pubblico. Quando ha iniziato a filmare, il regista non avrebbe potuto immaginare che le cose avrebbero preso questa piega e, letto soprattutto come una retrospettiva, Into the Storm è un documentario ben fatto come qualunque altro documentario del suo genere. Anche se le dinamiche politiche e storiche più ampie dietro QAnon necessitano di essere ulteriormente indagate, la serie offre uno sguardo informato e convincente sulla propaggine più squilibrata dell’era Trump – e sulla surreale confluenza di credulità, gioco dal vivo, truffa e reazione destrorsa che ha portato Q dai recessi più oscuri del web al cuore pulsante della Repubblica e, infine, sul palco del Senato degli Stati uniti.
*Luke Savage è un collaboratore di Jacobin Mag dove è uscito questo articolo. La traduzione è di Gaia Benzi.
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