
Il movimento ecologista riparte dalle università
A Pisa e alla Sapienza di Roma prende il via un ciclo di occupazioni che chiede l'uscita degli atenei dagli accordi con le società del settore dei combustibili fossili
Le occupazioni universitarie che in questi giorni, all’interno della cornice della campagna End Fossil – Occupy, si stanno organizzando in molti paesi europei – in Italia è partita per prima Pisa seguita poi dalla Sapienza di Roma – mettono al centro una gravissima contraddizione delle istituzioni accademiche (e non solo). Si tratta dello stretto rapporto che lega molte università a un particolare tipo di interessi privati: quelli delle società che operano all’interno del settore dei combustibili fossili (cosiddetto Big Oil). In Italia una su tutte, la ben nota Eni.
Le sei zampe di Eni sull’università
Tutte le aziende petrolifere come Eni hanno infatti bisogno di costruire una propria reputazione e legittimità sociale, che gli permetta di continuare le proprie attività di distruzione climatica e ambientale e di impoverimento sociale, rimanendo impunite. Questo è possibile sia perché le università lo consentono, sia perché lo spazio da riempire è stato lasciato vuoto dal definanziamento pubblico dell’istruzione e della ricerca, tanto incentivato da averci regalato un triste primato: l’Italia spende infatti solo il 4,2% circa del suo Pil per l’istruzione dalla scuola primaria all’università, una quota inferiore alla media Ocse del 5% e uno dei livelli più bassi di spesa tra i paesi dell’Ocse.
La presenza di Eni nelle università, come efficacemente esposto in un recente report realizzato da ReCommon e da Greenpeace, assume molte forme: accordi di ricerca congiunti, partenariati nell’organizzazione di master e corsi di laurea (soprattutto materie Stem), comitati di indirizzo dei singoli corsi di laurea, acquisto di ricerche e brevetti e finanziamento di borse di dottorato. Accanto a questa presenza strutturale, vediamo Eni entrare nelle Università con «career days», premi alla ricerca e seminari. In generale, secondo l’inchiesta su citata, 36 università su 66 contattate, più di una su due (di quelle che hanno risposto, quindi numero possibilmente più alto) dichiara di aver dei rapporti con Eni di finanziamento, accordi, patrocini o collaborazioni strutturali.
Di che influenza si tratta? Secondo quanto riportato da Eni stessa, nel 2022 il finanziamento alle università pubbliche italiane è stato di 10 milioni di euro. Sono inoltre attualmente attivi 100 progetti di ricerca con le università italiane, 20 progetti con Cnr ed Enea, e sono finanziate da Eni e sue società 89 borse di dottorato. Il controllo sulla ricerca poi si attua anche attraverso accordi tra Eni e università che limitano la libertà della ricerca perché pongono dei vincoli alla pubblicazione dei risultati di una ricerca all’autorizzazione dell’azienda. In modo «indiretto», infine, attraverso premi alla ricerca che la indirizzano verso determinati temi, contributi e finalità, come l’Eni award. Eni interviene anche sulla formazione con i molti i master finanziati e i corsi di laurea by Eni attraverso la succursale di «ENI Corporate University», la cui didattica è spesso concordata dall’azienda in base ai fini aziendali, le lezioni tenute da funzionari dell’azienda, le borse di studio finanziate da Eni e i tirocini svolti dentro le sue infrastrutture. Eni influisce poi sulla formazione anche attraverso consulenze alla didattica, come dimostra la presenza di soggetti legati all’azienda nei comitati di indirizzo di corsi di laurea.
Dieci milioni di euro per le università italiane sono giusto qualche briciola rispetto al budget complessivo dell’istruzione universitaria. Se però anche solo per delle briciole esse accettano di limitare la propria libertà di ricerca e di didattica significa che da un lato la responsabilità è anche del definanziamento pubblico che può renderlo, in alcuni frangenti, necessario, ma dall’altro molto è dovuto a un contesto culturale e politico che favorisce il proliferare di questa forma di legittimazione del capitalismo fossile, spesso anche sostenendo da parte del corpo docente la necessità di offrire buoni posti di lavoro (grigi e non verdi però) a studenti e studentesse. La solita università azienda.
Il contesto
Il contesto in cui ci muoviamo è poi ancora più preoccupante. È notizia di pochi giorni fa la nomina di una commissione per riordinare le norme in materia ambientale affollata di professionisti vicini all’industria del fossile. Siamo inoltre in un periodo storico in cui, tra il famigerato Piano Mattei del governo Meloni e alcune norme contenute nel disegno di legge di bilancio si sta tentando di fare dell’Italia il nuovo hub europeo del gas. Tra i nuovi impianti contiamo il potenziamento di gasdotti come Tap e Linea Adriatica, l’incentivo alla costruzione di nuove centrali a gas, la realizzazione di un nuovo rigassificatore galleggiante a Ravenna e di un altro a Piombino e l’ampliamento degli impianti già esistenti. Questo in evidente e aperto contrasto con lo scenario Net Zero Emissions (Nze) elaborato dall’Agenzia Internazionale dell’energia (Iea) secondo cui nessuna nuova esplorazione di combustibili fossili può essere messa in atto a partire dal 2021 senza mettere a rischio il raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione considerati sicuri dalla comunità scientifica (per restare sotto i 2°C, o possibilmente 1,5°C di aumento della temperatura media globale rispetto ai livelli pre-industriali, come fissato dagli Accordi di Parigi del 2015). Esplorazione per cui Eni stessa ha numerose concessioni, tra cui da ultimo anche alcune recenti e particolarmente critiche sul piano geopolitico con lo Stato di Israele. Dopo l’apertura del conflitto russo-ucraino infatti il governo israeliano si è proposto come uno dei principali fornitori in grado di sostituire fino al 10 per cento delle importazioni europee e solo a fine ottobre 6 concessioni su 12 relative a giacimenti confinanti con il mega giacimento di Leviathan, sono state assegnate a un consorzio guidato dall’italiana Eni. Questo imporrebbe un’ulteriore riflessione sul potere dei combustibili fossili nel guidare le scelte politiche, nel fare dell’energia non un elemento di forza delle comunità ma di loro assoggettabilità a chi ne controlla la produzione.
Le comunità energetiche
Da qui anche un’ulteriore proposta che l’occupazione pisana porta all’Università: quella di costituire una o più comunità energetiche e solidali (Cers) di cui facciano parte edifici dell’università. Come dimostrato da Andreas Malm, il capitalismo fossile, elemento qualificante dell’Antropocene, non è un destino ma un deliberato progetto politico, attuato necessariamente con antagonismi e resistenze. I combustibili fossili avrebbero prevalso nell’Inghilterra del XIX secolo non per assenza di alternative fonti energetiche (tra l’altro anche a minor costo, come quella fornita in abbondanza dai corsi d’acqua) ma per la necessità di sradicare queste fonti dalle comunità e dai territori cui erano legate, per dare origine a un carbone che è «ontologicamente soggetto al capitalista». Vale a dire il processo inverso rispetto a quello che si vorrebbe attuare oggi attraverso le comunità energetiche, data l’ormai acquisita coscienza del potere imposto da una produzione centralizzata dell’energia. Queste ultime infatti portano il beneficio, oltre che della produzione rinnovabile dell’energia, anche della riappropriazione da parte di piccole comunità del potere di decidere sull’energia e su come spendere gli incentivi pubblici previsti per la loro costituzione. Certo che non può bastare a coprire l’intera produzione energetica di un paese come l’Italia né può essere l’unico strumento di una complessa transizione (che non è solo energetica, merita ricordarlo), ma resta un necessario passaggio su cui investire.
Il movimento ecologista serve all’università, l’università al movimento ecologista
La permeabilità dell’università all’influenza dei colossi del fossile è preoccupante anche per un altro motivo. Essa cessa così infatti di essere il luogo libero che la nostra Costituzione definisce, senza separarla dalla scuola come luogo superiore abilitante un’élite di professionisti, ma legandola a essa come il prolungamento del luogo pubblico ove si formano i cittadini (prima che le professionalità più ricercate sul mercato del lavoro). Gli interessi privati, e questo quindi non vale solo per quelli legati all’industria fossile, dovrebbero stare al di fuori dai luoghi della conoscenza.
Concetto Marchesi nella Relazione sui principi costituzionali riguardanti la cultura e la scuola che portò nella I sottocommissione alla redazione dell’art. 33 della Costituzione (quello che al primo comma prescrive la libertà della ricerca e dell’insegnamento) così descrive, in modo terribilmente attuale nonostante risalga a 75 anni fa, il ruolo della scuola e dell’Università all’interno della società.
L’arte e la scienza sono al servizio dell’umanità. Esse accrescono libertà allo spirito umano, ma di libertà hanno innanzitutto bisogno: e non possono degnamente e utilmente operare se costrette a fini determinati e condizionati […] il mondo della cultura e della scuola – specie in questo ultimo quarto di secolo – ha dato ai giovani un senso di soffocazione: è apparso come chiuso a tutte le esigenze del mondo morale; e più la cultura si elevava e affinava nelle sue particolari ricerche e applicazioni, più appariva il suo distacco dai principî di dignità e utilità sociale e da quell’aspirazione all’universale che è nello spirito dell’uomo. Così veniva formandosi il tecnico, il giurista, il letterato, lo storico, dentro un’orgogliosa clausura che badava a dar pregio allo strumento e alla persona che lo adoperava e all’utilità personale che ne veniva anzi che al fine superiore cui lo studio è diretto, cioè alla scienza intesa come perpetua ricerca di un bene comune. Così la cultura più saliva in alto, più si estraniava dalla vita popolare e nazionale; diveniva interessata occupazione di laboratori, di biblioteche, di singoli istituti dove si curava l’addestramento del conoscitore, dell’esperto, dell’erudito, dello scolastico, di coloro che avevano l’unica sollecitudine di distinguersi dalla massa degli umili per entrare in quella dei profittatori. Così la cultura e la scienza si venivano raccogliendo e differenziando in una ricerca di posti distinti da cui si potesse comandare agli altri e abusare degli altri. Invece di una comunione spirituale si cercò l’autorità: e l’indifferenza politica e morale divenne il gelido manto della dottrina. E quando l’enorme crisi del mondo scoppiò e avvenne l’urto immane delle forze in conflitto, quei maestri usciti all’aperto non seppero né vedere né ricercare né scoprire più nulla, e non ebbero più una parola da dire ai discepoli che si avviavano da soli verso la salvazione o la morte.
Di fronte alla crisi climatica che avanza l’unica risposta assunta dai poteri economici e politici, colossi del fossile compresi, è il cosiddetto «negazionismo di secondo tipo», per riprendere una felice nozione recentemente introdotta da Marco Deriu. Trattasi «dell’atteggiamento cognitivo e politico di coloro che non negano il cambiamento climatico e la sua gravità come fatto in sé, ma poi si limitano a considerare solamente azioni e interventi di tipo tecnologico, economico, di mercato, completamente inappropriati o visibilmente fuori misura rispetto alla radicalità della sfida climatica ed ecologica». Un ritratto che rispecchia fedelmente l’operato di chi, come Eni, continua a investire miliardi in esplorazione di nuovi giacimenti promuovendo però un’immagine di sé rivolta a contrastare la crisi climatica, attraverso scarsi investimenti in rinnovabili e soluzioni insufficienti e pericolose come le tecnologie di cattura e stoccaggio della CO₂.
L’Università nella sfida della transizione ecologica deve rappresentare un’alternativa a quello che accade nei palazzi di potere. Deve ricordarsi di essere molto più legata alla piazza (di cui è simbolicamente un prolungamento) che ai luoghi in cui si decide in modo sbagliato e interessato della sorte dei popoli. Deve restare lo spazio libero in cui poter acquisire una cultura intesa come pensiero critico: lo strumento, come diceva Claudio Abbado, che permette di distinguere bene e male e di giudicare chi ci governa. Il movimento ecologista, attraverso la mobilitazione End Fossil, tenta di toccare questo nodo scoperto, attraverso la forma della campagna one-issue, inedita in Italia ma molto diffusa nel Nord Europa: un tema, poche e chiare rivendicazioni, l’inserimento di quel tema, di quella contraddizione all’interno della complessità della crisi climatica, spesso troppo inafferrabile da travolgerci. Un punto da cui ripartire per riattivare un’ampia mobilitazione collettiva sulla crisi climatica. Il tempo è poco, il rischio di cadere prima di averci provato altissimo. Confortati dall’Ipcc possiamo già dire di non avere più nulla da perdere. Prima che sia troppo tardi la creazione di consenso sull’urgenza di una mobilitazione collettiva deve restare la priorità di un movimento ecologista sempre più unito. In questo tentativo non si può prescindere da un’università libera che guidi ciò che accade al suo esterno piuttosto che esserne surrettiziamente guidata.
*Giorgio De Girolamo studia Giurisprudenza all’Università di Pisa, è attivista di Fridays For Future Italia. Si interessa e ha scritto di ambiente, clima e diritto su varie testate nazionali.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.