Il nazionalismo economico non è per tutti
Per la prima volta un banchiere centrale europeo, quello ungherese, parla apertamente di euro come errore strategico. Ma il sovranismo economico è un finto rimedio, una scatola vuota che finisce per aiutare il più forte
La scorsa settimana Gyorgy Matolcsy, presidente della banca centrale d’Ungheria, ha rilasciato al Financial Times un’intervista che forse non ha ricevuto la necessaria attenzione. Vuoi perché il paese magiaro nel quadro europeo non è certo un paese di prima grandezza, con un numero di abitanti inferiore a quello della Lombardia e circa un terzo del suo Pil, vuoi perché da tempo è guidato da una forza chiaramente nazional-populista.
La nomina di Matolcsy a presidente della Magyar Nemzeti Bank risale al 2013 e fin da subito fu giudicata un modo per Victor Orbán di allungare le mani sulla propria banca centrale, facendone venir meno la parziale indipendenza che contraddistingue, almeno formalmente, gli istituti regolatori dei paesi occidentali. Matolcsy, infatti, all’epoca era il braccio destro di Orbán e suo fedele ministro dell’economia. Proprio per questi motivi costituisce indubitabilmente un punto di riferimento per quella galassia di formazioni politiche simili e che in questi anni hanno assunto un crescente ruolo in diversi paesi, tra i quali Italia e Francia. Non va inoltre dimenticato che, pur esprimendo istanze nettamente populiste, il partito di governo aderisce alla famiglia delle forze del Partito popolare europeo, rappresentandone la sponda più radicale, capace di costituire un trait d’union con quei partiti tradizionalmente più moderati, ma sempre più attratti dal populismo, come conferma l’esperienza del penultimo governo austriaco fatto di un’alleanza bianco-nera (popolari ed estrema destra).
In quell’intervista per la prima volta un banchiere centrale europeo ha parlato apertamente di come «l’euro sia stato un errore strategico» in quanto la moneta unica ha immediatamente costituito una sfida agli Stati uniti che dal canto loro hanno risposto con una guerra «aperta e nascosta contro l’Ue e la zona euro negli ultimi due decenni». Per Matolcsy ora sarebbe giunto il tempo di prevedere una sorta di via d’uscita dal vincolo monetario rappresentato dall’eurozona per i paesi che intendessero rinunciarvi per poi dare vita tutti insieme a una «valuta globale», fuori da qualsiasi logica competitiva con gli Usa. Non esplicita se questa nuova valuta «globale» dovrebbe abbracciare anche quei paesi che hanno contribuito a spostare il baricentro planetario verso l’Asia. Forse no, altrimenti apparirebbe un progetto ancor più ingenuo di quel che già appare. Ingenuo non tanto perché non esista un gruppo di paesi che concretamente potrebbero esser agganciati a un nuovo blocco a trazione statunitense, quanto perché presupporrebbe che tale prospettiva possa apparire congrua per la gran parte degli abitanti del Vecchio continente. Oppure potrebbe rappresentare semplicemente una potenziale disgregazione dell’Europa sotto i colpi di una nuova egemonia atlantica, magari politicamente trumpiana, ben lontana dalle logiche egemoni, ma generose del dopoguerra. Fondata, dunque, su principi ipercompetitivi riconducibili principalmente agli interessi a stelle e strisce.
Un progetto che non riesce neppure a fare i conti con la profondità a cui è giunta la globalizzazione negli ultimi decenni, una profondità che rende di difficile realizzazione un certo nazionalismo economico persino negli Usa. Il grado di ancoraggio al piano sovranazionale è un dato difficilmente aggirabile anche per quella che rimane ancora la principale economia interna a livello mondiale. Figuriamoci per gli altri paesi. Non a caso le tensioni per una ri-nazionalizzazione dell’economia avanzano in maniera contraddittoria. La disputa sui dazi tra Usa e Cina lo dimostra. Attraverso tira e molla continui e spesso repentini, con una parte dell’impresa statunitense più orientata all’export insofferente alle logiche potenzialmente autarchiche che irrigidimenterebbero ulteriormente i mercati di sbocco dei propri prodotti. La stessa insofferenza serpeggia nella filiera produttiva dispersa su scala internazionale su cui anche l’impresa a stelle e strisce si fonda, compresa una parte di impresa più tradizionale.
In tal senso ipotizzare un nuovo ombrello atlantico, sotto il quale ripararsi dagli effetti della globalizzazione, nasconde solo un progetto fondato sul libero dispiegarsi del mercato, dove i protagonisti periferici diventano satelliti di vecchie e nuove grandi potenze. Profili o processi produttivi autonomi, o non corrispondenti, difficilmente potrebbero far parte a pieno titolo di questa ipotetica nuova alleanza. Una vera e propria verticalizzazione dell’impresa che manterrebbe anche una sorta di filiera orizzontale funzionale agli attori principali, riconducibili prevalentemente al paese più importante. D’altronde American First è un progetto che neppure nella definizione prova a dissimulare le proprie ambizioni: gli alleati non potranno che ricoprire ruoli subalterni a questo primario obiettivo.
È così evidente che non può essere un progetto win win, dove tutti portano a casa risultati positivi. Un regime ipercompetitivo si fonda su dei soggetti vincenti a cui corrispondono altri che perdono. Se poi il quadro entro cui realizzarlo è quello di una crescita asfittica, allora questo modello non può avere l’ambizione di fare da volano per lo sviluppo, quanto di essere un gioco sulla difensiva per ridurre i danni a scapito degli altri competitor, magari proprio i più vicini.
Un’operazione che, almeno nel medio periodo, potrebbe rivelarsi azzardata persino per Washington. Lo smembramento dell’Europa significa, infatti, impoverire e indebolire uno dei principali mercati a livello mondiale, finendo per aggrapparsi a paesi satelliti di media-piccola grandezza che magari non brillano neppure per dinamismo. Il nazionalismo economico, al di là della retorica, rappresenta una scatola vuota, specialmente per paesi non sufficientemente grandi da poter praticare una crescita autocentrata, dove il principio sovranista tanto annunciato viene smentito in particolare sul piano dell’economia reale. È proprio lì che perde il mordente ed esprime tutta la sua impotenza. Un principio che nella migliore delle ipotesi viene declinato in chiave pragmatica (stare con il più forte), ma smentendo un’efficacia di ordine universale.
Per fare solo un paio di esempi: Questo progetto come potrebbe arginare la spasmodica rincorsa al ribasso in termini di salari e diritti dilatando le diseguaglianze? E come potrebbe fronteggiare il problema ecologico? Problemi che possono esser affrontati unicamente in chiave sovranazionale e collaborativa. Insomma il nazionalismo economico non è per tutti, di certo non è cosa per paesi di media grandezza che non vorrebbero essere vassalli né degli Usa né del mercato globale. La ricerca spasmodica di competitività su scala locale in tempi di stagnazione cronica non è l’ambizioso progetto che dichiara di essere, ma solo un espediente per tirare a campare senza guardare in faccia la complessità dei problemi reali.
*Marco Bertorello collabora con il Manifesto ed è autore di volumi e saggi su economia, moneta e debito fra cui Non c’è euro che tenga (Alegre) e, con Danilo Corradi, Capitalismo tossico (Alegre).
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