
Il nuovo conservatorismo ha la solita paura della rivoluzione
L’ideologia di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia filtra l’archivio del fascismo con il pensiero reazionario calato nella società contemporanea. Con un chiodo fisso: il terrore per il 1917 russo e il 1789 francese
Sono davvero tanti i tic e gli stilemi che Giorgia Meloni, intesa come rappresentante di un partito, di una comunità nazionale costruita e coltivata nel corso degli anni, recupera dal gran calderone della cultura fascista italiana. Se ne possono selezionare alcuni dal suo discorso programmatico reso alle Camere il 25 ottobre del 2022. Il senso di una nazione che «ha il dovere, prima ancora che il diritto, di stare a testa alta in consessi internazionali». Un riferimento «agli oligarchi seduti su pozzi di petrolio ad accumulare miliardi» che ricorda gli strali contro la plutocrazia. La leggerezza con cui prende le distanze dal fascismo ricordando di non aver mai provato «simpatia o vicinanza nei confronti dei regimi antidemocratici; per nessun regime, fascismo compreso, esattamente come ho sempre reputato le leggi razziali del 1938 il punto più basso della storia italiana»: un riferimento scarno e poco incisivo nonostante molta stampa mainstream, già allineata con il nuovo governo, ci abbia voluto vedere una cesura storica.
L’approccio di Meloni alla propria appartenenza politica autorizza a dubitare di una presa di distanza significativa da quella storia e mostra la persistente voglia di fare ricorso a quello che, nel numero 16 di Jacobin Italia dedicato alla Marcia su Roma, definivamo «un archivio di pratiche discorsive e di politiche discriminanti e violente cui attingere alla bisogna».
Quando, nel suo discorso alla Camera, la presidente del Consiglio deve spiegare l’evoluzione della propria «comunità politica» parla di «storicizzazione del Novecento» con un’«imbarazzante rimozione», per utilizzare le parole di Carlo Greppi, che spesso si accompagna a «mistificazioni e a rivendicazioni a spada tratta». Riferendosi alla storia del Movimento sociale italiano, Meloni parla di «una comunità di uomini e donne che ha sempre agito alla luce del sole e a pieno titolo nelle nostre istituzioni repubblicane, anche negli anni più bui della criminalizzazione e della violenza politica, quando, nel nome dell’antifascismo militante, ragazzi innocenti venivano uccisi a colpi di chiave inglese». L’antifascismo ridotto a «chiave inglese» nell’intento di renderlo solubile solo a un contesto in cui non si fa menzione degli omicidi, delle stragi, dell’eversione che in Italia è stata introdotta preliminarmente proprio dal neo-fascismo. Rimozione, mistificazione, recupero di pratiche discorsive.
Tutto questo autorizza a ritenere che siamo di fronte a un nuovo possibile pericolo fascista? Il problema non viene quasi mai posto così brutalmente, ma condiziona una buona parte del discorso politico a sinistra, nei movimenti sociali, in particolare giovanili e quindi orienta e condiziona la forma che assumono le opposizioni e il contrasto alla destra di governo. Di cui non si può sottovalutare la storia politica di provenienza, che costituendo un database sempre a disposizione può agilmente tradursi in una torsione autoritaria nel momento in cui le condizioni politiche lo richiedessero. Magari di fronte a movimenti di protesta incontrollabili o a una crisi sociale ed economica da affrontare.
Il nuovo conservatorismo
Questa premessa è utile a chiarire la natura ancora dinamica e mutevole della destra italiana che può essere ancora una volta definita «nuova». Nel senso che la quantità dei consensi elettorali, 7,3 milioni di voti, inserita sul corpo di un piccolo partito – Fratelli d’Italia è rimasto un partito con 130 mila iscritti nel 2021 di cui 50.000 online, ma ne aveva ancora 44 mila nel 2019 – produce un salto qualitativo costringendo il gruppo dirigente a interrogarsi sulla propria esistenza e sul futuro del proprio progetto politico.
Il legame con la cultura autoritaria ad esempio spicca nelle reazioni istintive dei dirigenti di FdI, si veda la polemica anti-Lgbt fatta dal responsabile culturale del partito, Federico Mollicone, contro il cartone animato Peppa Pig o la «guerra ai rave» che ha caratterizzato il primo provvedimento legislativo del governo. Ma non c’è solo questo. L’insistenza con cui Giorgia Meloni cita uno dei padri del conservatorismo internazionale, il filosofo inglese Roger Scruton, indica che c’è la volontà di costruire un’identità al passo coi tempi, sapendo bene che le identità non sono fissate una volta per tutte ma dal tempo storico vengono influenzate, accompagnate e modificate. Il 26% dei consensi, del resto, a fronte dell’8% di Forza Italia e del 9% della Lega – la cui natura localistica contribuisce a renderla un’eccezione anche sul piano culturale – non può non spingere FdI a strutturarsi stabilmente come partito che occupi tutto lo spazio del conservatorismo italiano vista anche la contestuale guida, da parte di Giorgia Meloni, del partito dei Conservatori e Riformisti europei (partito che, a quanto pare, non ha paura degli ossimori).
In un’intervista dell’agosto 2022 al settimanale inglese The Spectator diceva di considerare sé stessa e Fratelli d’Italia «in debito più con il defunto filosofo conservatore britannico Roger Scruton che con il socialista rivoluzionario Mussolini». «Credo che la grande sfida oggi a livello globale, non solo in Italia – continuava Meloni – sia tra chi difende l’identità e chi no. Questo è ciò che Scruton intendeva quando disse che se distruggi qualcosa, non necessariamente fai qualcosa di nuovo e migliore. Probabilmente sarei un Tory se fossi inglese. Ma io sono italiana». In queste parole c’è una buona sintesi del possibile programma futuro di Meloni e del suo partito e il Manifesto dei conservatori di Scruton, scritto nel 2006, ma sostanzialmente ribadito fino alla morte del filosofo, aiuta a cogliere quali possono essere i confini e i destini culturali e programmatici di questo progetto.
I patrioti
Il concetto più rilevante è esplicitato subito dal testo e lo si ritrova immediatamente nella retorica nazionale di Meloni e dal suo saluto ai seguaci di partito e ai followers sui social: patrioti. Scruton fa dello stato-nazione «l’unica risposta che abbia mostrato la sua validità» ai problemi di uno stato moderno. Non c’è retorica nell’argomentazione, ma una convinta adesione alla «lealtà nazionale» e alla «lealtà territoriale» come «radice di tutte le forme di governo dove legge e libertà regnino sovrane». Il punto è radicale, addirittura sostenendo che «la tesi contro lo stato-nazione non è stata costruita correttamente e quella a favore dell’alternativa transnazionale non è stata costruita affatto».
La nazione garantisce appartenenza, fonda la vera cittadinanza, il suo processo di costruzione poggia su una «mano invisibile», è un processo di spontaneità sociale che sfocia in una dimensione legale e governabile perché la giurisdizione si dà «tra persone che già condividono una terra». Si potrebbe replicare che per i britannici è più facile argomentare una simile affermazione che contraddice secoli di guerre sconvolgenti e orribili per affermare il dominio su una terra e su quello edificare la giurisdizione. Ma Scruton aggira rapidamente il problema drammatico del nazionalismo: «Occorre distinguere tra lealtà nazionale e nazionalismo. La prima contempla amore per la patria ed essere pronti a difenderla; il secondo è una ideologia bellicosa che usa i simboli nazionali per chiamare la gente alla guerra». «Il nazionalismo – aggiunge – fa parte di quegli impeti religiosi che così spesso hanno condotto alla guerra in Europa». Difficile non scorgere nella deformazione della lealtà nazionale proprio quell’impeto religioso, per lo meno osservando i fenomeni storici e in particolar modo lo stesso fascismo che nel nazionalismo di fine Ottocento, poi alimentato dalla Grande guerra, si forgia.
Qui, invece, la Patria è la lealtà nazionale, «la roccia su cui poggia la solidarietà democratica», la base legale del contratto sociale e anche il luogo dove è possibile «fare la guardia ai guardiani», controllare i capi, cosa impossibile negli organismi sovranazionali. Il disprezzo per tali strutture è netto, l’Unione europea o le Nazioni unite costituiscono l’appiglio per «invocare diritti universali», cosa del tutto inutile perché la loro applicabilità vige solo all’interno di un contesto efficace e questo è lo stato nazionale. Se sono enunciati da comitati transnazionali, afferma Scruton, «i diritti rimangono nel regno dei sogni o, se preferite l’espressione di Bentham, sono ‘una filastrocca senza senso’».
In questa visione della centralità nazionale come base legale della giurisdizione e nell’infastidita disamina dei diritti universali c’è gran parte della moderna lotta sul tema dei migranti dove non è il razzismo antropologico a guidare le danze – anche quello in realtà, vista la propensione di Giorgia Meloni a favorire migrazioni di bianchi e cristiani – ma l’estensione naturale del discorso nazionale che delimita le prerogative giuridiche e di cittadinanza agli autoctoni e considera i migranti come Altri: «loro» a cui si contrappone il «noi». La nazione fonda un «noi» politicamente e giuridicamente efficace che viene minato costantemente dalla «Oicofobia», l’avversione per la propria casa, le proprie tradizioni e usi, il «contrario della lealtà nazionale». Meloni padroneggia bene, pur senza mai citarlo vista la natura elitaria del termine, il concetto di oicofobia quando richiama al patriottismo per tutelare i confini nazionali anche con il blocco navale e accusa la visione multiculturale di tradire, sostanzialmente, gli interessi nazionali.
La lealtà territoriale
Il patriottismo conservatore non è ovviamente una novità nel pensiero politico e, come vedremo più avanti, la filosofia di Scruton è debitrice, come ammette l’autore, del pensiero conservatore di Edmund Burke. Nel contesto attuale italiano però riesce l’operazione di filtraggio dell’archivio storico della cultura fascista con un conservatorismo che vuole essere moderno, che si incunea nelle contraddizioni della società contemporanea e che, ad esempio, sfrutta i limiti e le contraddizioni della globalizzazione.
Scruton si sofferma infatti sui limiti degli organismi sovranazionali, in particolare del World trade organization (Wto) la cui «aggressione alle giurisdizioni nazionali è evidente ovunque: nell’annientamento delle economie agricole locali da parte delle multinazionali; nella violazione di leggi sulla proprietà e sulle barriere all’emigrazione», ecc. Il «mondialismo», che ha costituito un argomento forte di polemica della destra italiana, trova nella lealtà nazionale e in quella territoriale validi contrappesi in una dialettica che si è corroborata, a partire dalla grande crisi finanziaria ed economica del 2007-2008, alimentando la spinta all’attuale «sovranismo», non del tutto comprensibile senza i guasti della globalizzazione e senza le sue minacce alla coesione sociale dei vari stati nazionali.
Non è un caso, quindi, che proprio sulla lealtà territoriale Scruton fonda un’idea conservatrice dell’ecologia sociale che inserisce pienamente – come ricorda Meloni nel suo discorso programmatico – nell’agenda conservatrice. Si tratta di procedere a una «gestione parsimoniosa delle risorse» conservando il patrimonio ereditato dai defunti da tramandare alle nuove generazioni. A fondare questo concetto viene chiamato il principio ereditario nobiliare che imponeva di trasmettere ai propri eredi il patrimonio accresciuto e ben conservato. Scruton cerca di contrapporre la lealtà territoriale, l’amore per quanto ereditato, all’avidità e al desiderio che costituisce la molla della devastazione ambientale. Cita ovviamente il profitto, ma non punta il dito contro il meccanismo interno del capitalismo – che anzi cerca coerentemente di salvaguardare – e fa appello «all’amore per la propria casa», quindi per il proprio territorio come motivazione più forte della sete di profitto. Sembra quasi un’invocazione della cosiddetta sindrome «Nimby», Not in my backyard, non nel mio cortile, ed è sicuramente una esaltazione del «locale contro il globale», realizzando attorno al concetto di «casa» – che sembra replicare la terminologia tedesca di Heimat in cui casa e patria si sovrappongono – una fusione tra tutela ambientale, tutela dei confini, avversione per la dimensione internazionale. In nome di questa «casa» Scruton invita a diffidare delle Organizzazioni internazionali non governative poiché «reclutano il loro seguito facendo leva su sentimenti di odio e demonizzazione: odio per le grandi compagnie, i grandi inquinatori, gli apologeti del capitalismo». E fanno questo «nello stile di Saint-Just e di Lenin». Il dottor Stranamore immediatamente emerge dallo stile riflessivo e pacato dell’argomentazione per affermare tutti i tic del pensiero conservatore, in particolare l’idea strumentale che a generare l’odio sociale siano quelli che si contrappongono alle nefandezze del mondo. E non gli autori di tali nefandezze, appunto i grandi inquinatori, le grandi compagnie, ecc. È come l’anti-antifascismo della destra meloniana che vede la «chiave inglese» del proprio nemico ma si dimentica della bomba alla stazione di chi è stato anche nelle proprie file.
Scruton spera che gli ambientalisti «si affranchino dalla caccia alle streghe» e che riscoprano invece i dettami di amore, amicizia, compromesso che caratterizzano i conservatori i quali, felici del mondo così come ci è stato tramandato, vorrebbero che non esistessero i conflitti e che questi non degenerassero mai in aperta contrapposizione. Il testo del filosofo inglese tratta diversi altri temi, dal matrimonio all’eutanasia, dalla religione alla lingua degli eurocrati, si dilunga sulla polemica contro il postmodernismo in una parziale difesa dell’illuminismo che viene però soppiantato dalla centralità della religione. L’eutanasia viene fatta risalire a una condizione di eccessivi diritti che producono «troppi doveri», tra cui anche quello, improprio, del medico ad aiutare un sereno trapasso; il matrimonio gay snaturerebbe un’istituzione che «si è sviluppata sull’idea della differenza sessuale»: «Rendere questa caratteristica incidentale invece che essenziale significa cambiare il matrimonio fino a non riconoscerlo più». Si cimenta con la demolizione del pensiero postmodernista risolto soprattutto nella sua forma di «interpretazione» della realtà e quindi non solo preda del relativismo, ma anche di una subordinazione ai rapporti di forza sociali e quindi alla politica. Contro il postmodernismo – che non sembra al centro dei pensieri di Meloni – c’è anche una parziale riabilitazione dell’illuminismo nella sua «forma moderata», utile nella centralità della ragione a contenere fenomeni incontrollati come l’islam politico, ma comunque subordinato alla centralità inaggirabile alla religione intrinsecamente legata alla «comunità» e alla «lealtà territoriale». La religione non come «illusione intellettuale», come sostenuto dall’illuminismo, ma come «verità emotiva» e pertanto non espungibile dalla comunità umana che, invece, con i processi di secolarizzazione, in particolare con quello del Novecento, e con il «ripudio del sacro», ha sepolto «il senso tragico della vita». Qui, sia pure in un linguaggio filosofico, siamo però in un campo che rappresenta una costante della campagna ideologica dell’attuale destra, molto attenta a rinfocolare proprio la «verità emotiva» perché consapevole che quel concetto racchiude anche i legami di sangue di una comunità e si sposa pienamente con la lealtà territoriale: Dio, Patria, Famiglia.
La paura della rivoluzione
Ma sono le conclusioni del testo di Scruton, unite alla premessa dell’introduzione, a illuminare ancora una volta sul senso profondo del conservatorismo, sui suoi spettri e sulle sue ideologie.
Occupandosi della «tentazione totalitaria» Scruton rivela l’antico riflesso conservatore che identifica il totalitarismo più con il comunismo che con i regimi fascisti e quello nazista. Ma soprattutto compie l’antica operazione intellettuale, già contenuta in Burke, di far risalire gli orrori, il cataclisma sociale e civile, al grande imputato della storia: la Rivoluzione francese. «Il recente totalitarismo europeo – scrive Scruton – è stato presagito dalla Rivoluzione francese nella misura in cui il Comitato di salute pubblica agiva allo stesso modo del partito nazista o comunista». La ricostruzione storica, su cui non possiamo addentrarci, è affidata alle elaborazioni revisioniste di autori come François Furet, ma quello che interessa al filosofo inglese è poter dimostrare «che i sistemi totalitari e le ideologie totalitarie sgorgano da una sola fonte, il rancore». Il rancore contro ceti e gruppi privilegiati, il rancore che dà luogo alla sovversione. E così si equiparano, un po’ grossolanamente, gli attacchi dei giacobini agli aristocratici con quelli nazisti agli ebrei e quelli comunisti ai kulaki. Confondendo allegramente fenomeni di conflitto sociale storicamente determinati dalle condizioni del tempo – e non per questo giustificabilil, come nel caso dei kulaki russi – con il cuore dell’ideologia nazista che aveva nello sterminio degli ebrei un fine metastorico.
Questa centralità del rancore serve soprattutto a demolire l’ideologia marxista che «fornisce all’intellettuale frustrato ciò di cui ha più bisogno: il potere del suo stesso risentimento che echeggia e amplifica quello di una classe vittimizzata». L’ideologia totalitaria si nutre del rancore che «offre ai mediocri di tutto il mondo la prova del loro superiore potere intellettuale e del loro diritto a comandare». Secoli di rivoluzioni, di lotta delle classi subalterne per la libertà e la dignità, ambizioni di emancipazione polverizzati dall’azione corrosiva del rancore. Un concetto che è stato ampiamente utilizzato dai contemporanei per denigrare, sottovalutare e demonizzare le istanze di movimenti populisti che contro le élite e le caste privilegiate si sono rifugiate in quelli che il filosofo Ernesto Laclau definisce «meccanismi discorsivi».
Ma l’odio per il rancore è soprattutto l’avversione per l’atto originario della ribellione degli ultimi nel moderno, quella «ribellione capitata in Francia» di cui scrive Burke nel suo celebre saggio. Il concetto è precisato nelle conclusioni del testo di Scruton quando si assume come riferimento ideale il conservatorismo di Thomas S. Eliot che vedeva nel liberalismo moderno «l’incarnazione del caos morale», quello che permette «a qualunque sentimento di fiorire e uccide qualunque forma di giudizio critico con l’idea del diritto democratico alla parola, che diventa inconsapevolmente un diritto democratico al sentimento». L’avversione è appunto per il diritto democratico alla parola, per i sentimenti degli ultimi, degli straccioni che non possono accedere all’«osservazione intelligente del mondo umano», non possono avere «l’abitudine al giusto sentimento», è ancora Eliot che parla.
La propensione a garantire l’ordine naturale delle cose, propria del conservatorismo che da quell’ordine è garantito a sua volta e ne utilizza tutti i privilegi, si traduce in una paura e in un’avversione per ciò che muta, per la sovversione. Il conservatorismo di Scruton, non a caso, scrive lui stesso, «è scaturito come reazione al Maggio del 1968 in Francia»: l’analogia con Burke rispetto alla rivoluzione del 1789 è del tutto evidente e non è ancora un caso che nel discorso politico di Meloni e del suo gruppo dirigente si faccia sempre riferimento dispregiativo allo stesso fenomeno, l’odio antropologico per i movimenti di contestazione, per lo stesso ‘68 di cui si parla ancora oggi, a oltre cinquant’anni di distanza, come se fosse un fenomeno in grado di influenzare la cultura presente e non un evento sconfitto dalla rivoluzione neoliberista.
Sono i tratti ricorrenti di un pensiero che si incarica di lasciare il mondo così com’è a dispetto, però, di una matrice «movimentista» del fascismo che invece, come spiega Emilio Gentile, voleva rivoluzionare l’esistente sia pure su basi contrapposte a quelle della Rivoluzione francese. Scegliendo il conservatorismo più tradizionale Meloni sembra scegliere una linea di adeguamento al mondo confermata del resto in modo plateale dall’affermazione subissata da applausi nel suo discorso di insediamento alla Camera: «Serve una rivoluzione culturale nel rapporto tra stato e sistema produttivo, che deve essere paritetico e di reciproca fiducia. Chi oggi ha la forza e la volontà di fare impresa in Italia va sostenuto e agevolato, non vessato e guardato con sospetto, perché la ricchezza la creano le aziende con i loro lavoratori, non lo stato con decreti o editti». La libertà dei privilegiati non deve essere minata dal rancore dei subordinati. La nuova destra sembra oggi muoversi su questa linea. Una linea che non segue pedissequamente, e non ripropone automaticamente, i fantasmi del passato e le matrici fasciste del partito al potere. Ma che, alla bisogna, potrebbe tranquillamente farvi ricorso.
*Salvatore Cannavò, vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre, 2018).
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