Il partito del non voto e le disuguaglianze salariali
L'astensione non è solo il segnale di un astratto distacco dalla politica: ha a che fare con lo smantellamento del legame tra sfera economica e sociale
Nelle ultime settimane si sono svolte le elezioni regionali in Abruzzo e Sardegna. Aldilà dell’esito politico, ancora una volta a trionfare è stato il partito del non voto, se consideriamo che in entrambi i casi si è recato alle urne circa il 52% degli aventi diritto.
Anche guardando ai dati relativi alle elezioni politiche nazionali, il calo nella partecipazione al voto sembra non arrestarsi. Tale declino ha tuttavia radici storiche profonde in Italia, che risalgono alla seconda metà degli anni Settanta, quando il tasso di astensione iniziò a crescere superando il 10%.
Le cause dell’astensionismo vengono spesso ricondotte alla dimensione politica e istituzionale, in genere sottolineando l’incapacità dei partiti di mobilitare la partecipazione al voto. Allo stesso tempo però, il voto (e il non voto) rappresenta un fenomeno complesso le cui determinanti non possono essere ricondotte unicamente a variabili politiche o istituzionali, ma anche alla dimensione socioeconomica (come mostrano diverse ricerche in Italia, le analisi sul «turnout» americano e il recente libro di Piketty e Cagè sul caso francese). In particolare, i fenomeni di crescente disuguaglianza all’interno del mercato del lavoro italiano, acuitisi a partire dagli anni Novanta, sono cruciali per comprendere l’evoluzione della partecipazione elettorale.
In un recente lavoro pubblicato su Intereconomics, abbiamo studiato la relazione tra astensionismo e disuguaglianza salariale, guardando alla dimensione di classe, genere e provenienza geografica. Attraverso l’utilizzo di due dataset longitudinali, uno sui risultati delle elezioni dal 1948 al 2022, e l’altro sulle retribuzioni medie in Italia dal 1983 al 2018, possiamo vedere questa relazione lungo il corso della storia repubblicana.
Negli ultimi decenni governi di ogni colore politico hanno riformato il mercato del lavoro italiano nel segno della flessibilità e della riduzione del potere contrattuale della classe lavoratrice, contribuendo marcatamente al forte aumento delle disuguaglianze, oltre che a un progressivo smantellamento delle capacità innovative del paese.
Per tutta la Seconda Repubblica, dal rigido binario liberista non si è discostato nessun partito: dalla deindicizzazione dei salari con l’inflazione del 1992 (governo Amato, sorretto ancora dal «Quadripartito» Dc, Partito liberale, socialisti e socialdemocratici) all’introduzione dei contratti atipici con il pacchetto Treu del 1997 (primo governo Prodi, che inaugura il nuovo centrosinistra), ulteriormente liberalizzati nel 2003 con la legge Biagi (governo Berlusconi), in un ciclo che ha avuto un suo completamento nel 2015 con il Jobs Act del Pd di Matteo Renzi. Questa impalcatura legislativa ha contribuito ad acuire ulteriormente le disparità salariali tra nord e sud, indebolendo complessivamente l’intera economia meridionale, sia dal punto di vista della specializzazione dei modelli di produzione e delle infrastrutture, sia per quanto riguarda la distribuzione del reddito.
Inoltre, negli ultimi decenni, il divario salariale di genere è rimasto, in modo allarmante, pressoché invariato, sebbene, nello stesso periodo, la partecipazione femminile al mercato del lavoro sia estremamente cresciuta. Non solo le donne che svolgono un lavoro retribuito sono meno degli uomini (anche a causa della forte disparità di genere nella gestione del lavoro di cura non retribuito), ma sono anche relegate nei settori a più basso valore aggiunto e retribuzioni, spesso caratterizzati da precarietà e part-time involontario.
Guardando all’andamento nazionale dell’astensionismo si possono identificare quattro fasi chiave. Nella prima fase di vita della Repubblica, fino all’inizio degli anni Ottanta, il tasso di astensionismo è rimasto stabilmente sotto il 10%. Anni caratterizzati dal ruolo centrale dei partiti di massa e da una partecipazione alla vita sociale e politica che ha di parecchio ecceduto l’arco parlamentare. L’ultima decade di questo periodo, gli anni Settanta, è stata quella di massimo potere contrattuale della classe lavoratrice esemplificato dall’approvazione dello Statuto dei Lavoratori (1970), dalla riforma fiscale sulla tassazione progressiva del reddito (1973) e, più in generale da un complessivo riformismo sociale (tra le tante vale la pena citare l’introduzione del Servizio sanitario nazionale e la legge sull’aborto nel 1978.
La seconda fase, dal 1980 al 1996, registra livelli di astensionismo tra il 10% e il 20%. Questo periodo rappresenta non solo la transizione da un modello politico a quello successivo, ma anche un cambio di paradigma economico a livello mondiale, paradigma a cui l’Italia si è adeguata prima con il sistema del pentapartito (l’alleanza costituita da i citati quattro partiti che sostenevano il governo Amato più il Partito Repubblicano), e poi con i governi, tecnici e di centrosinistra, che si fecero sostenitori dell’ingresso in Europa. Sono anni attraversati da importanti processi di riorganizzazione produttiva e ristrutturazioni delle imprese. Il potere contrattuale del lavoro salariato si indebolisce fortemente, minato dalla sconfitta del movimento sindacale alla Fiat nel 1980 e dall’abolizione della scala mobile. Segue un periodo di forte compressione salariale, concordato tra sindacati confederali e governo all’interno della cosiddetta Politica dei redditi, suggellata dal Protocollo Ciampi nel 1993. È questo il quindicennio del grande riflusso dalla partecipazione politica, acuito dallo scandalo di Tangentopoli che spazza via il sistema partitico italiano e apre la strada al ventennio berlusconiano, in cui l’astensionismo inizia la sua corsa attestandosi stabilmente intorno al 20%.
Dalla metà degli anni Novanta e fino al 2018, mentre governi di centro-sinistra e di centro-destra aprono la fase della deregulation e del precariato di massa con le riforme citate, il distacco dalla politica aumenta, portando l’astensionismo tra il 20% e il 30%. Il trend non è invertito neanche dall’irruzione di formazioni politiche che si annunciano anti-sistema come il Movimento Cinque Stelle. L’operato del M5S, una volta al governo, è stato infatti saldamente ricondotto nel paradigma liberista, seppur il partito sia stato promotore di alcune misure legislative in forte discontinuità con il passato, come il Decreto Dignità e l’introduzione del Reddito di Cittadinanza. In questa fase, al crescente astensionismo si accompagna un’elevata volatilità nelle scelte elettorali, suggerendo un sempre maggiore svuotamento delle identità politiche dietro alle scelte voto, mentre il tessuto sociale del paese si indebolisce ulteriormente a causa dell’adozione di politiche di austerity in risposta alla crisi economica del 2008.
Infine, negli ultimi anni assistiamo a un astensionismo record, il 37% alle ultime politiche e ben oltre il 50% in molte amministrative, che si accompagna a un mercato del lavoro sempre più disuguale. L’instabilità economica e politica mondiale da un lato e gli effetti socio-economici della pandemia dall’altro hanno fatto emergere nuovi divari sociali, ad esempio in termini di accesso al lavoro a distanza o nel grado di esposizione, ampliando quelli già esistenti. In questo scenario, la crisi energetica e la spirale inflazionistica assumono le sembianze del colpo di grazia per una classe lavoratrice sempre più impoverita.
Le diverse fasi dell’astensionismo possono essere studiate guardando al loro diverso andamento per area geografica e genere. Tuttavia, se scorporando l’astensionismo tra nord, centro e sud Italia o tra uomini e donne, sin dagli anni Settanta si osserva maggiore astensione per le donne e nel sud Italia, queste percentuali sono pressoché costanti nelle quattro fasi. In particolare, i dati non mostrano un chiaro gruppo di «non votanti» che, sebbene storicamente concentrati nel sud Italia e più diffusi tra le donne, sono proporzionalmente in aumento anche nel centro e nel nord del paese, indipendentemente dal genere.
Questo risultato è una delle motivazioni che ci ha spinte a studiare altri possibili meccanismi capaci di spiegare la crescita del partito del non voto. Nel nostro studio abbiamo preso in considerazione sia la disuguaglianza aggregata, cioè indici sintetici di disuguaglianza salariale tra tutti i lavoratori in Italia per ogni anno, che indicatori di disuguaglianza salariale tra macro-aree geografiche e tra uomini e donne, per indagare se, rispetto alle diverse quote di non-votanti, la componente geografica e di genere delle disuguaglianze giocasse un ruolo dirimente. L’analisi empirica conferma la nostra ipotesi: all’aumentare delle tre dimensioni di disuguaglianza salariale, il non voto aumenta in modo statisticamente significativo. Questa correlazione positiva di lungo periodo si intensifica dall’inizio degli anni 2000, quando i livelli di astensionismo raggiungono il 20% e permane fino al picco di astensionismo registrato nel 2018. Inoltre, il grado di correlazione aumenta nel medio periodo, suggerendo come il passaggio dalla diseguaglianza al non voto non sia immediata, ma ritardata nel tempo: le condizioni socio-materiali di oggi, rappresentate dalla disuguaglianza, sembrano riflettersi in modo più marcato nelle scelte di non-voto registrate nelle tornate elettorali di domani.
L’Italia, insieme a diversi paesi europei, sta gradualmente convergendo verso il modello statunitense, storicamente caratterizzato da un grado di partecipazione al voto drammaticamente basso, al punto da mettere in discussione il funzionamento delle democrazie nei paesi a capitalismo avanzato.
La bassa partecipazione al voto, dunque, non può essere interpretata solo come il segnale di un astratto distacco dalla sfera politica, ma va intrinsecamente legata allo smantellamento del legame tra sfera economica e sociale. La congiuntura tra flessibilizzazione del mercato del lavoro e l’assenza di una forza politica in grado di rappresentare gli interessi di una classe lavoratrice che vede peggiorare le proprie condizioni di vita e di lavoro e si sente sempre meno rappresentata, ha innescato un preoccupante trend di abbandono delle urne. Tale divario tra classe politica e cittadinanza emerge tanto nelle urne, quanto nelle piazze e nelle fabbriche in piena crisi aziendale, aggravato nell’ultimo periodo dal progressivo schiacciamento e violenta repressione degli spazi di dissenso, tale da rendere ancora più urgente un cambio di rotta.
In primo luogo, è necessario ribadire la centralità del lavoro a partire dalla creazione di occupazioni sicure e dignitose, anche nell’ottica della transizione verde, riducendo la miriade di forme contrattuali precarie, aumentando i salari e garantendo migliori condizioni di lavoro e maggiore sicurezza. Tuttavia, le politiche del lavoro e di contrasto alla povertà adottate dal Governo Meloni, dall’abolizione del Reddito di cittadinanza alla bocciatura della proposta di salario minimo per legge, mostrano come tali misure siano ben lontane dall’agenda politica del governo.
*Armanda Cetrulo è assegnista di ricerca presso l’Istituto di Economia della Scuola Superiore Sant’Anna. Margherita Lanini è dottoranda presso l’Istituto di Economia della Scuola Superiore Sant’Anna. Angelica Sbardella è ricercatrice presso il Centro Enrico Fermi di Roma. Maria Enrica Virgillito è professoressa associata in Economia Politica presso l’Istituto di Economia della Scuola Superiore Sant’Anna.
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