
Il passato al singolare
Nell'era dei selfie e in tempi di reificazione del passato, Enzo Traverso ragiona sul rapporto tra ricerca storica e narrazioni individuali. E sul rischio, che si perda di vista la dimensione collettiva
«Le generazioni che hanno vissuto grandi cesure storiche producono memorialisti e storici inclini agli affreschi epici, monumentali; la nostra, ricercatori ossessionati dagli antenati dimenticati». Scrive così Enzo Traverso nel suo libro appena uscito per Laterza, La tirannide dell’io, che ha al centro la critica della nuova ondata di scrittura soggettivista della storia. Una critica serrata ma molto equilibrata, che non nega i pregi di sguardi obliqui sulla storia e che fornisce anche esempi di narrazioni in prima persona che evitano le trappole delle storie soggettiviste (chiude infatti con un elogio di Perdi la madre di Saidiya Hartman). Traverso vuole però sottolineare il problema sostanziale di questo approccio: il rifiuto dell’analisi della soggettività degli attori collettivi per ripiegare sulle identità individuali o di gruppo. Una visione del passato al singolare, in cui le emozioni finiscono per sostituirsi all’azione collettiva.
Approfittando di un suo viaggio a Roma – dove ha presentato l’altro suo recente e importante libro, Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia – gli abbiamo chiesto di approfondire questa critica, che è anche una critica al modello antropologico neoliberale del nostro tempo.
Nel libro descrivi ampiamente le «trappole» della storiografia positivista, che ha la pretesa – ingenua e illusoria – di produrre un sapere oggettivo e imparziale. Non neghi neanche la ricchezza di orizzonti che possono aprirsi grazie allo sguardo narrante di un «io di posizione» – o «situato», come va di moda dire. Perché allora sostieni che il metodo di scrittura soggettivista della storia emerso in questi anni non è un’alternativa convincente?
Non sono sicuro che si possa sempre definire ingenua la storiografia positivista. La definirei più arrogante che ingenua: è una pretesa di scientificità ed è un modo di concepire la storia che rimane largamente dominante. Se vediamo l’insieme della produzione storiografica in Italia troviamo sicuramente molti più studiosi «positivisti» che «soggettivisti».
Io critico entrambi gli orientamenti. La storiografia positivista effettivamente si illude di raggiungere una verità fondata su una presunta neutralità assiologica: il compito dello storico si riduce alla ricostruzione dei fatti sulla base di fonti accuratamente verificate da cui scaturirebbe in modo naturale il senso della storia. Io non credo in questo tipo di storiografia ma non penso neppure che l’alternativa migliore sia una storia scritta da un punto di vista puramente soggettivo in cui la ricostruzione del passato è filtrata da un prisma del tutto personale, attraverso la sensibilità, gli affetti e l’emotività dello storico. Credo che questa tendenza soggettivista sia in parte una reazione alla pretesa di oggettività della storia tradizionale e in parte il prodotto di un nuovo contesto sociale, politico, culturale e antropologico: quello neoliberale.
Non condivido le illusioni scientiste della storiografia tradizionale ma non penso neppure che si possa fare a meno di una ricostruzione oggettiva delle vicende del passato, fondata su documenti, archivi e sulla metodologia analitica che abbiamo ereditato dal positivismo storiografico. Critico la storiografia tradizionale ma non adotto una postura iconoclasta. La storia è un discorso critico sul passato che richiede una messa a distanza dell’oggetto di indagine e una separazione tra la vicenda studiata e la soggettività dello storico. C’è una parte di soggettività nel lavoro dello storico ed è bene che lo storico ne sia cosciente, ma per dominarla, non per farne il motore della sua lettura del passato.
Come accennavi adesso la tua tesi è che il successo della scrittura in prima persona della storia sia il prodotto di un nuovo «regime di storicità» che sta delineando non una storiografia neoliberale ma una storiografia «dell’età neoliberale». Come definiresti sinteticamente il «regime di storicità neoliberale»?
Un «regime di storicità» è un modo di concepire e rappresentare il passato. Il regime di storicità che domina il mondo di oggi non è quello di cinquant’anni fa in cui si aveva una visione diversa del rapporto tra passato e futuro. L’età neoliberale è l’età del capitalismo trionfante dopo la Guerra fredda, dopo un lungo ciclo storico in cui il capitalismo aveva dovuto fronteggiare la sfida del socialismo. Il socialismo è uscito sconfitto da questo confronto e il risultato è stata una sorta di naturalizzazione del capitalismo, che è apparso come la cornice inamovibile del modo in cui gli esseri umani convivono, producono e costruiscono i loro rapporti sociali. Il regime di storicità neoliberale è quindi anche un modello antropologico, ha a che fare con ciò che Max Weber chiamava una «condotta di vita» (Lebensführung). Il modello antropologico dell’età neoliberale è imperniato sull’individuo, l’individuo è al centro della società: come diceva Margaret Thatcher, «la società non esiste, esistono gli individui». Per questo la visione del passato dell’epoca neoliberale passa attraverso un prisma individuale.
Per gli storici della cosiddetta «storia dal basso» degli anni Sessanta e Settanta, penso ad esempio alla storiografia britannica di Edward P. Thompson e molti altri, la classe non era soltanto un aggregato sociologico e non si definiva semplicemente come l’insieme degli individui che occupano una data posizione nell’ambito dei rapporti di produzione: la classe esisteva nella misura in cui aveva una coscienza di sé, una coscienza e una cultura che le permettevano di agire collettivamente. Ciò significava prendere in considerazione la «soggettività», ma in quel caso era la soggettività di classe mentre la nuova storiografia soggettivista riconosce soltanto la soggettività degli individui, soprattutto quella dello storico che scruta il passato con una lente personale.
Questi nuovi storici lavorano molto spesso su archivi familiari e anche quando studiano una storia collettiva lo fanno raccontando in prima persona la propria ricerca. Lo studio, il reperimento delle fonti, l’esplorazione degli archivi ecc., un tempo erano la premessa del lavoro di cui lo storico esponeva i risultati; oggi diviene invece il motore della narrazione della storia. Così lo storico racconta le emozioni che questo lavoro ha suscitato in lui ed esprime il legame emotivo che lo lega al passato. Questo legame è molto spesso un legame di affetti familiari e in questo modo il passato diviene un passato individuale.
Ho stima di molti di questi studiosi e studiose che, nella maggior parte dei casi, non difendono affatto idee neoliberali; in alcuni casi si situano addirittura nel campo della sinistra radicale o anarchica. Però penso che questo modo di scrivere la storia si possa interpretare solo dentro questo «regime di storicità». Per questo non si tratta di una storiografia neoliberale – che esiste, seppur per fortuna minoritaria, e difende i valori del capitalismo, ad esempio spiegandoci che dall’antichità a oggi la finanza è stata il motore del progresso – ma di una storiografia dell’età del neoliberalismo.
Tra i limiti che indichi della scrittura soggettivista della storia c’è il suo essere totalmente imperniata su una «temporalità esistenziale», che finisce così per non dare prospettiva, per impedire l’immaginazione di orizzonti che dal passato proiettino verso il futuro. Questo tipo di scrittura soffre insomma di quello che chiami «presentismo». Puoi spiegarci meglio cosa intendi con questo concetto?
È un concetto oggi abbastanza diffuso, creato da François Hartog, uno storico dell’antichità. Con questo concetto si descrive una temporalità in cui il passato e il futuro sono compressi nel presente, in cui il futuro è visto esclusivamente come un’estensione del presente.
Viviamo in un mondo sottoposto a un processo di accelerazione permanente e abbiamo l’impressione che tutto si trasformi con una velocità incontrollabile. È un fenomeno in larga misura reale, risultato anche della tecnologia moderna: se un tempo si acquistava un’automobile per usarla trent’anni oggi si deve cambiare il cellulare ogni anno perché diventa obsoleto o un computer dopo pochi anni non è più compatibile con i nuovi programmi informatici. Viviamo una corsa contro il tempo il cui simbolo è la borsa, dove in pochi secondi si possono trasferire quantità gigantesche di denaro. Però questa accelerazione spasmodica avviene dentro la cornice immutabile del capitalismo, perché non esistono alternative alla società di mercato e al sistema di proprietà. Un’epoca senza alternative è un’epoca che possiamo definire «presentista».
Il presentismo è un nuovo ordine del tempo che ha sostituito quella che Reinhart Koselleck definiva la «dialettica della storia». Secondo Koselleck il presente è la congiunzione tra il passato come campo di esperienza e il futuro come orizzonte di aspettativa. Il presentismo ha spezzato questa dialettica storica. Ora c’è solo il presente.
Ti domandi se «l’epoca dei selfie», ossia il porsi con la propria singolarità davanti a qualsiasi evento, stia influenzando il linguaggio con cui si scrive la storia. Si potrebbe fare un’analogia ulteriore con ciò che si vede sui social network: gli algoritmi tendono a premiare il linguaggio che calca forzatamente le emozioni, i sentimenti, l’emotività; la scrittura soggettivista della storia tende a interpretare il passato riconducendolo proprio alla sfera dell’intimità. Sta emergendo, secondo te, un tipo di linguaggio che contribuisce a neutralizzare il pensiero critico?
Non necessariamente, ma sicuramente si tratta di un prisma che non prende in considerazione la dimensione collettiva sia del presente che del passato, mentre invece qualsiasi prospettiva di trasformazione sociale e politica deve partire dall’azione collettiva. L’epoca del selfie è per definizione l’epoca dell’ego, in cui anche quando partecipi ai movimenti di massa ti senti e rappresenti come un «io dentro il movimento». In questo modo si interiorizza la visione del mondo neoliberale. Il selfie è diventato una modalità spontanea di esperire il mondo, è una pratica sociale che coinvolge tutti; per questo è importante riflettere sulle nostre pratiche sociali. Se pensiamo che questo modo di raccontare le esperienze sia anche un modello attraverso il quale raccontare il passato a mio avviso può nascere un problema.
Ho trovato molto interessante il passaggio in cui spieghi come il regime neoliberale, a differenza dei regimi totalitari, non sia interessato a dominare il passato imponendone una versione ufficiale. L’obiettivo sembra piuttosto quello di «musealizzare» e «commercializzare» la storia facendone un oggetto dell’industria culturale da consumare individualmente. Qual è secondo te in tal senso la funzione del proliferare delle «giornate della memoria»?
Si tratta in effetti di una questione fondamentale. A partire dai libri di George Orwell, abbiamo sempre immaginato l’incubo totalitario come un mondo in cui il passato ci sfugge perché viene riscritto, deformato, sottomesso ai vincoli e alle esigenze del potere. Il modello totalitario di rappresentazione del passato è un modello ideologico che pianifica e impone anche agli studiosi una visione ufficiale della storia. Il rapporto con il passato del neoliberalismo è invece completamente diverso.
Il modello neoliberale di governance delle grandi università private fornisce una totale libertà di insegnamento e lascia spazio a una notevole creatività, tanto che coincide con la proliferazione dei nuovi oggetti di indagine e con la nascita di nuove discipline. Da questo punto di vista non c’è dunque nessuna forma di repressione. Le conseguenze del modello neoliberale sulle scienze umane sono pesanti nell’Europa continentale dove l’università di eccellenza è ancora pubblica e il modello di autonomia finanziaria fa sì che vengano tagliati fondi alla ricerca. Questi sono gli effetti deleteri per la ricerca del neoliberalismo, dove le limitazioni alla libertà della ricerca sono la conseguenza di decisioni politiche, non di un modello di governance.
Il neoliberalismo però, per sua stessa natura e senza alcuna pianificazione, promuove un processo di reificazione del passato: trasforma il passato in «luoghi della memoria». L’esempio più eloquente è la memoria dell’Olocausto in Germania. Per arrivare a costruire il Memoriale dell’Olocausto ci sono voluti più di vent’anni e una discussione tormentata che ha coinvolto non solo personalità della cultura e del mondo politico ma anche le associazioni della società civile. Il Memoriale che oggi troneggia nel centro di Berlino è nato come prova tangibile di un’autocoscienza della Germania che include i crimini del nazismo. Oggi però il Memoriale è diventato un’attrazione turistica e non ha più alcun significato: chiunque vada a Berlino va a visitare il Memoriale – Tripadvisor lo mette in testa alle mete turistiche – e si vedono su internet migliaia di foto di persone che saltano sui suoi cubi.
Non si tratta del risultato di un complotto pianificato da un’élite finanziaria che vuole speculare sulla memoria (l’accesso al sito è libero), ma di uno degli esiti ineluttabili di un processo di reificazione della cultura, della memoria, del passato che trova nel capitalismo neoliberale un terreno di coltura propizio. Pierre Nora, che ha forgiato il termine, sostiene che i luoghi della memoria nascono quando la storia non palpita più nel presente. Abbiamo bisogno di identificare la storia con un luogo quando si è spezzata la continuità che la univa al presente. E questi luoghi diventano dei musei, delle forme mercantili dell’economia capitalistica.
Ti faccio un’ultima domanda. All’inizio del tuo libro citi Storia della rivoluzione russa di Lev Trotsky come l’esempio più avvincente di scrittura della storia in terza persona. Trotsky non nasconde i vantaggi conoscitivi di aver vissuto un ruolo da protagonista e nega la possibilità di essere imparziale, ma allo stesso tempo respinge ogni tentazione individualista: non vuole raccontare un’esperienza vissuta, ma scrivere da storico a proposito di una soggettività collettiva. Oggi invece leggiamo libri di storici che scrivono in prima persona di un passato che non hanno vissuto e che, come dicevi, finiscono per concentrarsi unicamente sulle identità individuali. Come si contrasta la difficoltà odierna di studiare la soggettività degli attori collettivi?
Non so se si tratta di contrastarla ma si dovrebbe prendere coscienza dei limiti e delle derive alle quali si espone la scrittura soggettivista della storia.
Io cito Trotsky perché mi sembra un esempio molto eloquente. Oggi ci sono storici quarantenni che scrivono in prima persona libri sulla Grande guerra, la quale, nel migliore dei casi, è l’esperienza dei loro nonni se non dei loro bisnonni. Trotsky, che è stato uno dei grandi protagonisti della Rivoluzione russa, quando ha deciso di raccontarne la storia si è imposto una scrittura in terza persona, sostenendo che altrimenti avrebbe scritto un’autobiografia e non un libro di storia. Si è autoimposto una sorta di censura, parlando di sé stesso citandosi per nome e cercando di spogliarsi della propria soggettività.
Storia della Rivoluzione russa è uno dei grandi libri del Novecento, ma non lo cito per presentarlo come un modello da seguire. Certo rimane un modello di fusione analitica e narrativa, storiografica e letteraria, ma la storiografia è cambiata in un secolo. Io sottolineo soprattutto le derive del soggettivismo storico perché scrivere la storia attraverso il prisma degli affetti personali può sfociare in una visione conformista del passato. Finché si scrivono libri sulla storia dei nonni deportati in un campo di sterminio e si espongono i propri affetti per i nonni che non si sono conosciuti, come fa Ivan Jablonka, si incontra un consenso più o meno universale. Ma quando arriva Javier Cercas e racconta la storia dello zio falangista con lo stesso identico modello cognitivo e interpretativo, traendone le stesse conclusioni, il significato politico del passato cambia. Cercas scrive un libro per ricostruire la vicenda dello zio falangista che per lui era sempre stata una foto misteriosa nel salotto di famiglia, spiegandoci che ha capito finalmente chi era perché è riuscito a penetrarne il mondo, a comprendere come era diventato falangista, come si era arruolato e come morì combattendo la guerra civile e lo descrive come una sorta di eroe omerico, una persona piena di amore e di affetto. La storia si trasforma così in una tragedia universale in cui il fatto di essere un ebreo deportato in un campo di sterminio o un falangista alla fine cambia poco. Non nego il diritto di Javier Cercas di provare affetto per i parenti, quali che siano le loro scelte politiche, ma se questo diventa un prisma puramente emotivo di lettura del passato ciò crea tutta una serie di problemi.
Come si vede, la scrittura soggettivista del passato può sfociare anche in una rappresentazione apologetica delle forme peggiori di violenze fasciste prodotte dalla storia. Per questo credo che la soggettività degli storici vada riconosciuta e non repressa ma non possa diventare il fulcro della loro interpretazione del passato.
*Giulio Calella, cofondatore e presidente della cooperativa Edizioni Alegre, fa parte del desk della redazione di Jacobin Italia. Enzo Traverso insegna alla Cornell University. I suoi libri più recenti sono Rivoluzione (Feltrinelli, 2021) e La tirannide dell’io (Laterza, 2022).
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.