
Il piano inclinato della Spagna e noi
La Spagna in questi mesi ha fatto tutto il contrario dell'Italia: ha rotto con le élite nazionali, è rimasta fedele all'Europa e ha aperto sui diritti civili. Il voto in Andalusia, però, accelera verso la fine di questa fase
Il 2019 in Spagna è iniziato domenica 2 dicembre. A decretarlo sono stati i risultati delle elezioni in Andalusia, la regione del Mezzogiorno spagnolo, la più popolosa del regno e da sempre roccaforte socialista. Ebbene qui, domenica scorsa il Partito socialista obrero espanol (Psoe) ha subito una sconfitta storica: pur rimanendo il primo partito (un milione di voti, 28% dei suffragi e 33 seggi), i socialisti della potente “barona” Susana Diaz, vengono fortemente ridimensionati, perdendo 400 mila voti e 14 seggi rispetto al 2015. Per formare una maggioranza non sono sufficienti i 17 di Adelante Andalusia – Podemos. La formazione di Pablo Iglesias, in Andalusia guidata, come anche nel 2015, dall’insegnante e attivista Teresa Rodriguez, ha infatti perso voti e seggi pur essendo in coalizione con Izquierda Unida. La campagna condotta da Rodriguez all’insegna dell’anti-europeismo e dell’“andalusismo”, sembra non aver portato i risultati sperati. Gli ex elettori socialisti sembrano essersi rifugiati nell’astensionismo (41,4%, in crescita rispetto al 36% del 2015) e nell’ultradestra neofranchista di Vox, che in queste elezioni ha raggiunto la sua consacrazione elettorale: 395 mila voti, 11% dei suffragi e 12 seggi. Il sogno di un’eccezione iberica all’arrivo dell’estrema destra ai parlamenti è saltata domenica sera. Né Podemos né la lunga spinta degli indignados ha potuto fare niente contro il nuovo ciclo reazionario globale.
Il governo Sanchez scricchiola
Con queste elezioni si dà il via a un nuovo ciclo elettorale in Spagna che avrà nelle elezioni municipali, regionali ed europee di maggio del 2019 il punto di arrivo. E chissà, forse questo scenario sarà coronato dalle elezioni politiche anticipate. La vittoria della Nuova Destra, spagnola e spagnolista, rappresentata da Vox e Ciudadanos, ha dato un duro colpo al governo socialista di Pedro Sanchez, già messo a dura prova dal difficile rapporto con Podemos e le altre forze politiche (principalmente i partiti nazionalisti basco, Pnv, e catalani, PDeCat e Erc) che lo sostengono dall’esterno. Gli spazi per un’agenda politica progressista che si erano aperti con la caduta in parlamento del governo Rajoy (Partido popular) sembrano essersi chiusi più velocemente del previsto. La destra si è riorganizzata rapidamente in una configurazione inedita e ancora incerta, con il Partido popular in declino ma in fase di radicalizzazione da un lato e Ciudadanos e Vox in ascesa dall’altro; la sinistra invece stenta a dare dinamicità alla propria iniziativa e a mobilitare il proprio elettorato. Questi due fattori sono un cocktail imprevedibile nella fase politica attuale.
A maggio si porranno per prima volta al voto le città conquistate dai partiti del “cambio” quattro anni fa e che diedero la prima istantanea della una nuova mappa politica della Spagna post-crisi e post-15M (il movimento degli indignados). Alle prossime elezioni la sinistra dovrà difendere gli avamposti conquistati e cercare di avanzare, approfittando del vuoto lasciato dalla crisi del Partido popular, prima che esso sia riempito da Vox e Ciudadanos. Lo scontro cruciale sarà per il municipio di Madrid e per la relativa “Comunidad” (le “comunidad” corrispondono alle nostre regioni). A Madrid città si ripresenta la sindaca uscente Manuela Carmena, figura politica allo stesso tempo tecnica e carismatica che fu la carta vincente di Podemos per conquistare la capitale nel 2014. Nella regione invece, dove i Populares hanno governato per 23 anni senza interruzioni, Podemos presenta Inigo Errejon, numero due e una delle teste pensanti di Podemos. In entrambe le sfide Podemos non può sperare in una maggioranza, ma dovrà puntare a un compromesso con i socialisti, in un equilibrio speculare a quello che attualmente vige nel parlamento nazionale. Ora però il risultato sorprendente delle elezioni andaluse segna un cambio di passo e l’ennesima novità nel sistema politico, già scosso dalla crisi territoriale catalana, e impone forse un ripensamento della strategia politica di Podemos.
Si scrive Andalusia, si legge Catalunya
Il 2018 si chiude soprattutto con incertezze. Nell’ultimo mese Pedro Sanchez sembra che abbia rinunciato quasi totalmente a governare con una legge propria sul Budget prorogando quindi quella del precedente governo di Mariano Rajoy. Il che vuol dire rinunciare anche all’accordo programmatico a cui era arrivato con Podemos ad ottobre. Il supporto dei partiti Catalani (Esquerra Republicana e PDeCat) alla legge sul bilancio del governo è saltato dopo che un mese fa la procura generale (la fiscalía general) ha richiesto per i leader nazionalisti catalani imprigionati capi di imputazione con pene che vanno dai sedici ai venticinque anni di carcere. I nazionalisti catalani erano stati fondamentali per far passare la mozione di sfiducia a Rajoy, sulla base di un’alleanza “di sinistra e plurinazionale”. Senza l’appoggio dei catalani, il sostegno di Podemos diventa inutile e con questo la sua capacità di incidere sull’agenda di governo. Di fronte allo sgretolamento della maggioranza, Pablo Iglesias ha messo in moto la macchina organizzativa del partito e annunciato le primarie aspettandosi elezioni imminenti, una mossa tattica finalizzata ad accrescere la pressione su Sanchez. Croce della sinistra, il problema catalano diventa delizia della vecchia e nuova destra. La vecchia destra, con la sua reazione violenta al referendum separatista catalano di ottobre 2017 ha coniugato la repressione poliziesca senza precedenti a un’azione giudiziaria spietata contro il movimento indipendentista catalano. Una sinergia favorita dalla forte influenza che il Partido popular ha sempre esercitato sulla magistratura. Sulla scia dell’azione repressiva, la Nuova Destra di Vox e Ciudadanos è intervenuta con tempismo inasprendo il conflitto territoriale e polarizzando il dibattito pubblico. Ciò ha incoraggiato un certo risentimento anti-catalano nelle zone più povere del paese, in primis l’Andalusia, dove Podemos può essere stata percepita come una forza filo-catalana. Se in paesi come l’Italia, la Francia, il Regno Unito o la Germania, l’ascesa dell’ultradestra si è servita del dibattito immigrazione, in Spagna è stata la crisi territoriale e lo scontro nazionalisti indipendentisti e nazionalisti spagnolisti a ridisegnare il dibattito politico, mettendo ai margini e indebolendo la sinistra.
Cosa resta dell’accordo alla portoghese
Di fronte a questa accelerazione, l’accordo progressista dell’11 ottobre tra il Psoe e Podemos sulla legge finanziaria sembrava potesse essere il nucleo centrale del prossimo ciclo politico spagnolo. Oggi questo accordo torna più che mai in bilico. Ispirandosi in parte all’esperienza portoghese di questi anni, l‘intesa ammiccava alla possibilità di una “competizione virtuosa” tra le vecchie forze socialdemocratiche in decadenza in Europa e i nuovi partiti populisti di sinistra e la sinistra radicale. Un rinnovamento del campo progressista nella penisola Iberica che si voleva realizzare attraverso misure in aperta rottura con la fase dell’austerità e che era il portato, pur sempre parziale, della stagione dei movimenti cominciata nel 2011: un aumento a 900 euro del salario minimo (uno storico + 21%); accordi sulla regolamentazione degli affitti e il “diritto alla casa”; aumenti nelle pensioni relativi all’inflazione; miglioramento del finanziamento dei nuovi modelli di assistenza sociale per le persone dipendenti e delle borse di studio; una nuova legge contro le violenze sessuali e l’entrata di alcuni consensi portati dal movimento femminista al governo; aumenti nelle tasse al patrimonio e alle successioni e donazioni; aumento dei permessi di paternità e di maternità; libertà ai governi delle città di usare il proprio avanzo di bilancio per cominciare a costruire una vera rete di scuole per la prima infanzia; l’abrogazione dell’articolo 315 del codice penale che penalizza i picchetti durante gli scioperi; e infine una riforma parziale della legge elettorale (per facilitare il voto all’estero, favorire l’uguaglianza di genere nelle liste e rendere il sistema di rappresentanza più proporzionale).
L’insieme di misure poteva far sperare l’inizio di un percorso alternativo all’austerità cominciata in Spagna nel maggio del 2010 col governo socialista di Zapatero. Questa situazione premiava la capacità di Podemos, l’archetipo del populismo di sinistra in Europa, nel riuscire a orientare l’azione di governo e rafforzare la costruzione di un campo progressista. Podemos vedeva esaltato il suo ruolo chiave dal fatto di essere l’unico partito (pluri)nazionale ad avere buone relazioni con i partiti nazionalisti della Catalogna e del Paese Basco. Populismo progressista e plurinazionale erano le due assi della strategia di Podemos. Che cosa resta di questa prospettiva dopo il voto di domenica?
Sanchez, al giorno d’oggi, sembra disposto a governare senza maggioranze parlamentari e a forza di decreti, dimostrando una fragilità politica enorme dopo le elezioni di Andalusia. Si tratta della fine di questa possibilità? Troppo presto per dirlo, ma se questo governo era nato debole e in minoranza, dopo le elezioni Andaluse lo è diventato ancora di più. L’unica sua forza è quella di poter decidere quando si andrà a elezioni e sembra che rimandare il più possibile sia l’unica alternativa. Limiti e potenzialità dei quel possibile accordo con Podemos sono importanti per capire i prossimi passaggi. Come spiegava alcuni mesi fa Nacho Alvarez, l’economista principale di Podemos, per finanziare pienamente questo accordo sul bilancio, il primo ministro Sanchez ha due opzioni: o un aumento del deficit, e quindi uno scontro con le élite europee; o un aumento delle tasse e del sistema fiscale, e quindi un conflitto aperto con le proprie élite nazionali. Sembra chiaro che Sanchez, e un partito socialista con fortissime relazioni con il socialismo europeo, soprattutto quello tedesco, non abbia l’intenzione di confrontarsi con l’Europa nella limitazione sul deficit. L’alternativa è una: spingere per una radicale ridistribuzione del reddito all’interno del paese e quindi aprire un conflitto con l’élite economica nazionale. La terza possibilità, l’immobilismo con il budget di Rajoy, potrebbe essere un vero suicidio politico per un governo che dopo l’accaduto in Andalusia è obbligato a dimostrare la sua utilità. Il tirare a campare per non tirare le cuoia non è un’opzione, perché ogni settimana di immobilismo rafforzerà la Nuova Destra.
Le notizie più recenti lasciano pensare che Sanchez voglia rilanciare la propria manovra economica, agitando lo spauracchio di elezioni anticipate con una maggioranza di destra Pp-Vox-C’s per convincere gli indipendentisti a votare il bilancio.
Roma e Madrid si confrontano a Bruxelles
Una radicale redistribuzione interna è invece quello che il governo italiano non è disposto a fare, come si vede nella legge di bilancio attualmente in discussione. L’azione del nuovo governo Italiano fa perno sulle proprie élite locali (specialmente del Nord) per alimentare uno scontro, a dire il vero molto artificiale, con l’Europa. Un conflitto costruito anche sulla forza di un peso politico ed economico che spesso si dimentica. L’Italia resta la terza economia più grande dell’euro-zona, anche se, come tutti sanno, altamente indebitata (130% del Pil). AL netto degli interessi sul debito però, l’Italia ha un avanzo primario, un saldo positivo delle partite correnti e una buona posizione finanziaria internazionale. Tre cose che ci danno una dimensione della forza economica strutturale con cui si vuole porre il conflitto. Una forza economica che però viene vanificata dall’isolamento politico dell’Italia e che inoltre viene spesa per una legge finanziaria di retroguardia.
Allo stesso modo non bisogna sottovalutare l’azione politica in materia di diritti civili in relazione alla strategia economica ed europea. Il governo spagnolo ha dichiarato la volontà di allargare la sfera dei diritti civili e politici dei suoi cittadini, promulgando una legge di protezione dell’azione sindacale e un’altra contro le violenze di genere. Il governo italiano, trainato dalla Lega, viaggia in direzione opposta con l’intenzione di diminuire sempre di più i diritti civili dei propri cittadini migranti. Questi elementi non possono non essere considerati come parte della strategia politica di ciascun governo. Se il governo spagnolo ha deciso di scontrarsi con le proprie élite nazionali, mantenendo un saldo rapporto con le istituzioni finanziarie ed europee, un’agenda progressiva sui diritti civili diventa l’espediente cinico per controbilanciare le tensioni. Al contrario, il governo italiano mantiene l’unità interna scontrandosi con l’Europa e approfitta di questo ripiegamento difensivo di buona parte dell’opinione pubblica per perseguire un’agenda sui diritti civili apertamente reazionaria.
La strategia del governo spagnolo è complementare a quella del governo italiano. Nel primo l’osservanza delle regole economiche europee si accompagna a un’agenda di riforme sociali all’insegna dell’uguaglianza di genere, che però non possono essere realizzate pienamente a causa dei vincoli economici ormai costituzionalizzati. Il risultato è quindi un compromesso al ribasso, una declinazione in senso individualista e neoliberale delle istanze del femminismo e a un’esclusione di fatto di larghe fasce della popolazione dai benefici di queste riforme. Nel caso del governo italiano invece il conflitto agitato tra Roma e Bruxelles sulle regole economiche si accompagna a un’alleanza conservatrice con i settori più arretrati del capitalismo italiano, la controffensiva reazionaria in materia di diritti civili e un’iniziativa politica neo-segregazionista nei confronti della popolazione straniera extra-comunitaria.
Insomma entrambe le esperienze di governo, quella spagnola e quella italiana, alimentano uno scisma tra le due dimensioni del rapporto con l’Europa da un lato e della politica interna dall’altro. È importante riuscire ad articolare in un senso progressista questi due assi, riuscendo a conciliare una rottura con Bruxelles che non costruisca un consenso reazionario xenofobo e patriarcale, ma l’espansione dei diritti civili, politici ed economici.
Adesso il futuro politico della Spagna è su un piano inclinato e il paese rischia di essere attirato nell’orbita della nuova destra globale. Vox potrebbe essere il fautore di questo slittamento sulla coppia anti-europeismo neoliberista da un lato e ultra-conservatorismo in politica interna dall’altro: abrogazione della legge sulla violenza di genere, repressione anticatalanista e antibasca, revanscismo spagnolista, un fattore che in Andalusia ha pesato molto. Di fronte a questa evoluzione inaspettata il governo spagnolo, e soprattutto Podemos, ha ancora la responsabilità di dimostrare che può esistere un confronto con la governance europea che non venga solo da opzioni reazionarie che vogliono costruire comunità politiche etiniciste e fondamentalmente irreali nel ventunesimo secolo. Il Psoe, invece, non sembra uscire intenzionato cambiare la propria rotta.
Futuri possibili
Podemos, in maniera simile al M5S, nasce dalla crisi di rappresentanza che ha coinvolto uno ad uno i differenti sistemi politici europei. Comparando questi due partiti, e il contesto in cui sono sorti, sarebbe sbagliato trascurare i molti elementi che hanno in comune, soprattutto rispetto al tipo di energie sociali che hanno condotto con le proprie proposte politiche. Tuttavia, sono proprio le differenze tra i due contesti politici e la loro evoluzione divergente, ad accentuare le differenze. Mentre per l’Italia le scelte del M5S hanno portato a una articolazione di questa volontà di cambiamento insieme all’etnicismo reazionario della Lega, Podemos in Spagna è riuscito, per adesso, a saldare la crisi della rappresentanza con un sentimento diffuso di protezione e ricostruzione del welfare, oltre che con una forte volontà di espansione dei diritti civili e politici, questi ultimi aspetti frutto della funzione di leadership sociale che negli ultimi anni sta rappresentando il movimento femminista e ieri gli “indignados”.
Quello che è successo in Andalusia dimostra che nella fase attuale gli spazi politici non sono mai definitivamente chiusi e rimangono sempre molto sensibili alla ricostruzione e alla riarticolazione. In Spagna ne vedremo le possibilità durante il 2019. La svolta a destra resta sempre una possibilità aperta anche nella penisola iberica. In questa situazione continua a essere fondamentale una politica che resti capace di interpretare le condizioni e i desideri materiali ed emozionali dei propri cittadini e di articolare le tensioni e i conflitti che lacerano la società spagnola ed europea in una prospettiva di uguaglianza e pari dignità nelle differenze. In questa era di mostri globali non resta che questa possibilità per dare speranza alle aspirazioni di cambiamento.
*Francesco Massimo, romano, fa ricerca a Parigi. Legge e scrive di lavoro, relazioni industriali e movimenti sociali. Alberto Tena è dottorando alla Universidad Autónoma Metropolitana, Unidad Cuajimalpa.
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