
Il principe di Danimarca (con le treccine blu)
La scuola italiana continua ad «accogliere escludendo» per ragioni culturali, ma anche dichiaratamente socio-economiche e politiche. Come insegna il caso del ragazzo con le treccine blu escluso per questioni di decoro
Ogni inizio di anno scolastico è puntualmente caratterizzato da dibattiti e polemiche riguardanti la scuola, destinati poi a inabissarsi rapidamente nella quotidianità dei mesi successivi. Per l’anno scolastico 2019/2020, il caso è stato, a tutti gli effetti, la non ammissione in classe, il primo giorno di scuola, di uno studente di tredici anni presso l’istituto comprensivo Alpi-Levi di Scampia.
Il ragazzo, come si ricorderà, si è presentato a scuola con le treccine blu, violando così il regolamento scolastico d’istituto e incappando nella punizione comminata dalla preside Rosalba Rotondo. Dopo alcuni giorni, il ragazzo ha «deciso di tagliarsi le treccine» – così ha raccontato la narrazione mainstream – ed è stato riammesso in classe. Questo non ha però impedito che la questione attraversasse vari media e social network – a tal proposito, si può facilmente osservare come l’ormai usuale carico di aggressività e risentimento legato a questo tipo di circolazione abbia generato una forma di cyberbullismo che costituisce, tra l’altro, un paradossale contraltare al bullismo lamentato dalla preside nel ragazzo.
Senza alimentare ulteriormente il fuoco di fila che c’è stato sul caso ci sembra utile provare a sondarne le questioni di fondo. «Le regole», innanzitutto: al ragazzo non è stata immediatamente contestata una scelta esteticamente non decorosa, bensì l’esser venuto meno al proprio patto formativo, peraltro «personalizzato». La sostanza non è molto diversa, si potrebbe dire, ma cambiando angolatura si nota come il fatto non riguarda soltanto la tradizione morale e disciplinare del grembiule o, più in generale, dell’uniforme scolastica, qui nella sua manifestazione contemporanea del dress code (terminologia esplicitamente rivendicata dalla dirigente scolastica). Occorre innanzitutto guardare alle regole, perché queste hanno già introiettato completamente l’idea di un dress code comune, quasi che andare a scuola fosse in tutto e per tutto equiparabile all’andare a un «evento»: «In un contesto che all’interno di un patto educativo ha accettato un dress code condiviso una inosservanza gridata può essere una sfida. Ad esempio proprio all’autorevolezza della scuola rappresentata dalla preside», ha scritto ad esempio Maria Pia Veladiano su Repubblica. Per poi rincarare la dose, a proposito di «una realtà educativa in cui la forma è anche sostanza di rottura rispetto a contesti esterni difficili. Questo chiaramente vale per tutte le scuole del regno, non solo per quella di Scampia».
Se vi è una certa saggezza operativa in queste parole, è però evidente la riproposizione di uno degli assiomi fondamentali della tradizione umanistica dell’insegnamento, orientata a preservare l’ambiente scolastico da ogni influsso esterno. Si tratta di una distinzione importante in quel di Scampia, si potrà ancora osservare, ma così il riferimento generalizzato, per usare le parole di Veladiano, a «tutte le scuole del regno» finisce per cadere.
Questa non vuol essere un’obiezione meramente logico-argomentativa o teorica; il fatto è che la scuola non può più permettersi di rivendicare – se lo fa, beninteso, a priori e in modo integrale, se non anche integralista – questo suo essere cittadella umanistica della conoscenza, della cittadinanza, della «legalità» e di tutto quel che si voglia aggiungere. Ciò che è fuori preme sulla cittadella e anzi ha già fatto il suo ingresso e l’ha modificata.
Tornando al «caso», ma solo per trovarvi un indizio utile per una riflessione più generale: non ammesso in classe, il ragazzo della Alpi-Levi è stato sospeso anche dal percorso educativo speciale, intitolato «Masterclass», che riguarda lui e altri suoi pari. Come spiega la preside, i ragazzi che frequentano questi corsi «hanno meno ore di lavoro ma partecipano ai Pon pomeridiani, corsi che però non sono intrattenimento, ma hanno delle finalità educative, di apprendimento e inserimento nel mondo del lavoro». La ridenominazione di un Pon (ovvero di un progetto di istituto nell’ambito di un Programma Operativo Nazionale del Miur) in «Masterclass» è già sintomatica non solo di un certo gusto per l’anglofilia (che potrebbe essere sterilmente criticata da posizioni a la Diego Fusaro), ma anche di un preciso orientamento della scuola, che si muove – e sono citazioni letterali dal n. 6 del 2017 della Rivista dell’istruzione – tra il «modello start-up» per l’«inserimento nel mondo del lavoro» e il «dress code» violato dal ragazzo.
Si pensi allora al modo in cui la formazione scolastica è stata già ridisegnata dalla formazione all’imprenditorialità, anticipata dall’insistenza sulle «tre I» (Inglese, Informatica, Impresa) della riforma Moratti del governo Berlusconi e sancita, nei fatti, dall’implementazione dell’Alternanza Scuola-Lavoro (Asl, legge 53/2003) attraverso la cosiddetta Buona Scuola (legge 107/2017) del governo Renzi. Diventata ora Percorso per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento (Pcto, legge 145/2018), la formazione all’imprenditorialità non ha mai perso il suo focus ideologico principale, ovvero quel «lavoro su sé stessi», che è interpretabile in chiave foucaultiana, come ha suggerito Roberto Ciccarelli in Capitale disumano. La vita in alternanza scuola lavoro, e dunque slegato da finalità realmente pragmatiche, talvolta assai distanti dalle potenzialità dei singoli progetti.
Inoltre, l’Asl prima e poi il Pcto (chi lavora nella scuola sa della proliferazione di queste sigle neo-burocratizzanti, che assediano tempi e modi della didattica) si propone come un modello valido per tutte le scuole secondarie italiane, a prescindere da qualsiasi ragionamento sulle «condizioni di partenza». Con quest’ultima espressione, non si tratta soltanto di tornare a sbandierare il riferimento a Don Milani, tirato per la giacchetta a ogni uscita e riforma di qualsiasi orientamento e colore sulla scuola; si tratta di verificare quanto questo modello di scuola e di lavoro sia stato calato dall’alto, in modo inutile e contraddittorio.
Ad esempio per molti anni l’alternanza Scuola-Lavoro si è rivelato un magma di esperienze diverse, difficilmente gestibile dai referenti di ciascun istituto, al punto di sentir parlare, talvolta, per gli stessi docenti di «vocazione al progetto» dell’Alternanza, in luogo del più tradizionale, forse ormai superato, appello alla «vocazione umanistica all’insegnamento».
Ancora, e soprattutto: gli interventi progettuali (masterclass e start-up) e disciplinari (dress code) si collocano in un ambiente scolastico depauperato di risorse economiche e anche di progettazione a livello nazionale, specialmente per quanto riguarda la lotta contro la dispersione scolastica. Ogni allontanamento dalla scuola, infatti, dev’essere letto, anche soltanto a livello simbolico, in connessione a questo problema.
Appare, allora, sintomatico che la stessa dirigente che ha allontanato il ragazzo con le treccine blu abbia partecipato a uno di questi progetti, il Progetto Chance dell’associazione dei Maestri di Strada, attivo tra gli anni Novanta e Duemila proprio nelle periferie napoletane. È interessante notare come nello stesso numero della rivista specializzata già citata si possano ritrovare, fianco a fianco, gli interventi di uno dei fondatori del Progetto Chance, Cesare Moreno, e di Rosalba Rotondo. Se Moreno sottolinea, sia pure en passant, l’attuale mancanza di risorse statali – «Nel progetto Chance per 11 anni abbiamo praticato l’arte non come disciplina scolastica ma come espressione di sé, come momento alto di comprensione umana. Nel lavoro attuale, svolto senza finanziamenti statali, il cuore della nostra attività sono i laboratori territoriali delle arti…» – Rotondo procede poi all’elogio di una Buona Scuola che di risorse, invece, ne ha tagliate molte.
Tuttavia, è utile tornare al Progetto Chance per un altro motivo: l’importante saggio-testimonianza sul progetto firmato da una delle sue fondatrici, Carla Melazzini (1944-2009), Insegnare al principe di Danimarca. L’Amleto del titolo è Mimmo (nome di fantasia) che, «a 15 anni, è sicuro che il suo dovere sarebbe di uccidere l’uomo per il quale sua madre ha abbandonato da un giorno all’altro i suoi cinque figli». Il libro è il racconto dell’esperienza quotidiana degli insegnanti con Mimmo e gli altri studenti intercettati dal Progetto Chance, nel tentativo di costruire un modello di scuola che «significa non solo il riscatto dai ripetuti fallimenti, ma una sorta di riequilibrio biopsichico, la ricostituzione di un vero gruppo dei pari, che possono reggere anche quei ragazzi – e non sono pochi – che sono fuggiti dalla scuola soprattutto perché incapaci di sostenere le tensioni e i conflitti interni al gruppo dei coetanei», nonché i conflitti costitutivi di una scuola italiana che continua ad «accogliere escludendo» per ragioni culturali, ma anche dichiaratamente socio-economiche e politiche.
Il caso del ragazzo con le treccine blu, se opportunamente de-individualizzato e privato dell’aura scandalistica, sembra riproporre le stesse questioni, nel momento in cui la stessa scuola che non marca più alcuna differenza culturale e politica rispetto allo scenario socio-economico dominante, si schiera contro una sua specifica violazione del dress code, non comprendendo come quella violazione non venga più nemmeno dalla Danimarca, ma, forse, da Marte.
È di veri e propri «alieni» che parla, tra gli altri, Ivan Carozzi affrontando, nell’Età della tigre, la subculture della trap, alla quale l’acconciatura del ragazzo non ammesso in classe (treccine blu su testa parzialmente rasata) fa un qualche riferimento. Educatori, intellettuali e insegnanti si interrogano sulla trap sin dall’esplosione del fenomeno social di Bello Figo Gu e – più specificamente, ma spesso infruttuosamente – dopo la strage avvenuta nella discoteca di Corinaldo l’8 dicembre 2018, prima di un’esibizione di Sfera Ebbasta (in occasione di una festa studentesca).
Ma è davvero aliena e, soprattutto, indecorosa questa subcultura? Se si guarda il video su Youtube di Italia 1 (2017) del trapper napoletano Enzo Dong, si potrà notare un gigantesco logo posticcio di Italia 1 davanti alle Vele di Scampia. Il pezzo contiene tutto l’armamentario retorico della trap – dal sessismo eteronormativo («Le tipe sono ai tuoi piedi, ma sei come Mika e non puoi, no») all’apologo dell’arricchimento facile, con riferimento a un altro pezzo di successo di Enzo Dong, Higuain («Poi ringrazio Gonzalo perché una cosa di soldi me li ha dati già») – ma è il ritornello a non dover essere sottovalutato: «Qua spacciano più di me / Su Italia 1 yeah yeeh, yeah yeeh». È lo spaccio di una vita di successo, magari condita da un forte senso (in questo caso, prettamente berlusconiano) dell’imprenditorialità a essere rifiutato, come oppio dei popoli che si è installato a Scampia insieme ad altri oppioidi e altre droghe. Un po’ come lo swag di Bello Figo Gu, anche la provocazione di Enzo Dong punta, pur con tutti i limiti del caso, a qualcosa che non ci è per nulla alieno e che è già entrato nella scuola.
Portare le treccine come i più famosi trapper del momento non implica soltanto la riproduzione di un certo immaginario della trap, caratterizzato da una perturbante volontà di rivalsa socio-economica o da un altrettanto frequente sessismo eteronormativo. Implica, consapevolmente o inconsapevolmente, anche questo: il principe di Danimarca (non più carico, forse, del fardello amletico che riguardava Mimmo, nel libro di Melazzini) vuole ancora essere ascoltato e non allontanato. Tanto più che conosce bene la scuola, quel che sta fuori e quel che sta dentro, e a questo proposito può benissimo dire la sua.
Sempre che la scuola non sia «la buona scuola» che ridefinisce in modo imprenditoriale e, soprattutto, «contraddittorio» lo spazio degli studenti, bensì una scuola buona, dotata di risorse, con un progetto educativo che, pur non essendo più umanistico nel senso tradizionale, sappia ancora andare al di là del piano feticistico delle regole e della burocrazia.
*Lorenzo Mari vive a Bologna. Insegnante precario, ha recentemente curato Zurita. Quattro poemi (Valigie Rosse, 2019) del poeta cileno Raul Zurita, tradotto da Alberto Masala. Insieme a Luca Mozzachiodi, nell’autunno di quest’anno ha organizzato il seminario “Materialismo e soggettività” presso l’Università di Bologna.
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