Il tabù della redistribuzione
Per affrontare la «permacrisi» l’ex primo ministro Gordon Brown propone di toccare le leve della crescita. Senza mai porsi il problema di costruire un modello di sviluppo diverso da quello che ci ha condotto fin qui
È da poco uscita la traduzione di un libro i cui autori sono Gordon Brown, Mohamed A. El Erian, Michael Spence. Il primo è stato primo ministro laburista nel Regno Unito dopo Tony Blair e attualmente si occupa di istruzione e salute globale presso le Nazioni Unite e l’Organizzazione mondiale della sanità; il secondo è docente universitario, collabora con il colosso assicurativo Allianz, è editorialista di Bloomberg Opinion e Financial Times; il terzo è un premio Nobel nel campo dell’economia dell’informazione e collabora con università quali Oxford, Stanford e Bocconi.
Il libro è intitolato Permacrisi. Un piano per riparare un mondo a pezzi (Bocconi University Press, 2024) e ritengo costituisca un pezzo significativo del campo larghissimo (in termini di programmi e idee) che in qualche modo si contrappone alla crescente destra populista e sovranista. Questa non è una recensione al testo, ma semplicemente un intervento per criticare il nodo centrale del ragionamento lì esposto e soprattutto per rilanciare un altro approccio per chi si pone nell’ottica di un cambiamento, non necessariamente troppo radicale.
Proverò a spiegarmi. Gli autori, come si può dedurre già dal titolo, non si nascondono i problemi che abbiamo di fronte. Permacrisi sta per crisi permanente e multifattoriale, a partire dalla crisi climatica e dalle diseguaglianze crescenti. Fin qui tutto condivisibile. Ma è nel focalizzare le soluzioni ai problemi evidenziati che gli autori sembrano aderire a quello che si potrebbe definire una sorta di cortocircuito logico (o forse più precisamente politico). Per attenuare il problema ecologico e ridurre le diseguaglianze, secondo gli autori, bisognerebbe affrontare i ritardi nella produttività, scegliere investimenti intelligenti e usare la tecnologia in modo responsabile. Ma non solo. Si tratterebbe di perseguire tali obiettivi attraverso una «gestione economica e nuovi approcci di collaborazione di ordine globale». Questi ultimi temi affrontati in maniera piuttosto superficiale e indefinita.
Quel che invece confermano perentoriamente, dinnanzi ai dilemmi correttamente individuati, è la centralità della «crescita». Essi, infatti, affermano: «La posta in gioco è alta. Se non riusciamo a ottenere una crescita idonea, le diseguaglianze aumenteranno. Se non riusciamo a far aumentare la crescita i paesi più poveri del mondo non riusciranno a prosperare. Se non riusciamo a crescere come si deve, le industrie improduttive si ridurranno lasciando decine di persone senza lavoro. E non riusciremo a risolvere la crisi del cambiamento climatico. Al di là di ogni singolo parametro, ecco perché la crescita, e quindi la produttività, sono così importanti». Ecco il cuore del loro ragionamento: senza crescita non c’è vita!
Ora si tratta di verificare se tale affermazione è fondata logicamente e politicamente. In realtà i ritmi di crescita globali negli ultimi decenni sono sempre stati piuttosto sostenuti, attorno al 3%. Persino nei paesi tradizionalmente più ricchi, dove si è parlato del pericolo stagnazione in confronto ai ritmi affermatisi durante il boom economico del secondo dopoguerra, non c’è stato finora un effettivo e duraturo segno negativo nella crescita, se non durante le crisi economico-finanziarie o la pandemia, piuttosto i suoi ritmi hanno decisamente rallentato, diventando paragonabili ad altri periodi dell’epoca contemporanea, ma restando lontani dalla tendenziale immobilità antecedente la rivoluzione industriale. La crescita economica, infatti è rimasta tendenzialmente impercettibile fino alla metà del 1700 per poi iniziare a crescere con ritmi esponenziali. Dal 1850 fino al 1914, cioè gli anni che diedero impulso alla prima globalizzazione, i tassi di crescita nei principali paesi sono stati stimati vicino al 2%. Un dato significativo, ma non esorbitante, eppure in quei decenni si è affermato il riformismo del movimento operaio e della socialdemocrazia. Il ritmo è salito ulteriormente nel secondo dopoguerra, con gli effetti di livellamento ben noti, per poi ridursi costantemente dalla fine degli anni Sessanta. Nei due decenni del XXI secolo nei paesi tradizionalmente più ricchi il ritmo si è attestato mediamente attorno all’1 per cento. Un certo surplus, seppur più modesto, è stato accumulato anche tra una crisi e l’altra del nuovo secolo. Quel che non è avvenuto è la sua redistribuzione.
Quest’ultimo concetto è divenuto un vero e proprio tabù. Nel contesto dato, così, si è ridotta la crescita, ma sono aumentati i profitti. Un paradosso. L’accumulazione di ricchezza è andata scivolando sempre sul versante del capitale e dell’impresa. Cosa impedirebbe che tale scivolamento venisse confermato anche con significativi incrementi di produttività e ulteriore crescita economica? È una questione di quantità o di proporzioni? Oltre quale limite i risultati della crescita verrebbero più facilmente redistribuiti? E tale processo si affermerebbe in maniera spontanea?
Penso sia necessario l’intervento di qualche altro fattore. La redistribuzione di ricchezza, infatti, storicamente si è data con un aumento del conflitto sociale agito dalle classi popolari e subalterne in difesa dei propri bisogni. Mettendo in campo la loro parzialità, unilateralmente. Senza una soggettività che promuova un’altra lotta di classe non si ottiene redistribuzione. Si resta ancorati all’affermazione tanto disincantata quanto sincera di uno dei più importanti imprenditori mondiali, Warren Buffett: «Certo che c’è una guerra di classe, ma è la mia classe, la classe ricca che la sta conducendo, e noi stiamo vincendo»!
Va riconosciuto che nei periodi in cui la crescita economica non c’è stata, in particolare nei momenti di crisi, la lotta di classe dei subalterni ha quasi sempre ripiegato, faticando a trovare sbocchi concreti, risultando in definitiva perdente. Solo quando c’è del surplus gli attori sociali più deboli possono trovare la forza per contenderselo. Ma oggi il problema è un altro. Il surplus c’è, sebbene inferiore ad altri momenti, ma viene risucchiato decisamente dal capitale, favorito in questo dalla mancanza di un’altra soggettività. E appena questa sembra apparire si urla al pericolo. Come per la temuta spirale prezzi-salari che avrebbe potuto affermarsi con il ritorno dell’inflazione. Tale dinamica non si è data e i salari sono rimasti al palo, avendo perso a livello globale qualcosa come 9 punti di potere d’acquisto nel solo 2022. Poi i rinnovi contrattuali hanno iniziato una rincorsa di qualche punto.
Un caso forse in controtendenza sta avvenendo negli Stati uniti, o più precisamente in alcuni dei suoi segmenti produttivi, dove si registrano aumenti salariali attorno al 20%. Un’economia, quella statunitense, che nel contesto dato non appare tra quelle in maggiore difficoltà, in particolare se messa a confronto con lo stato di salute dell’Europa. Oggi, in particolare nel Vecchio continente, i rinnovi contrattuali al più compensano qualche punto percentuale perso con l’inflazione. Ma gli aumenti di produttività non vengono mai redistribuiti sistematicamente settore per settore. La battaglia, come afferma Buffett, la vincono sempre loro. Eppure in passato la redistribuzione degli incrementi di produttività era parte integrante di qualsiasi rinnovo contrattuale. Anche così veniva erosa la diseguaglianza in un contesto di crescita, persino modesta. Oggi, solo in Italia, la redistribuzione della produttività avviene con formule ibride, come i premi di produttività, fortemente detassati, se non esentasse quando aderiscono a formule di welfare aziendale. Inoltre coinvolgono solo 1 addetto su 4 e negli ultimi anni vanno aumentando quelli nelle piccole aziende e nei contratti territoriali, prefigurando una via defiscalizzata alla consueta contrattazione piuttosto che un’effettiva redistribuzione di quote di produttività da aggiungere al recupero del costo della vita.
Ci sono poi due ulteriori considerazioni. Dopo l’affermarsi della globalizzazione, e di conseguenza lo sviluppo impetuoso di paesi come la Cina, ora pare che il contesto non sia più favorevole per immediati e ulteriori balzi in avanti. Proprio la Cina sta registrando una sorta di tendenziale saturazione. I suoi ritmi sono calati. Il suo bruciare le tappe nei confronti dei paesi occidentali l’ha portata a un grande sviluppo che ora rallenta. Come è fisiologico che sia. Una crescita complessiva sostenuta, dunque, non risulta essere un obiettivo credibile. Le stesse innovazioni tecnologiche, per quanto pervasive, non sembrano consentire salti paragonabili a quelli della seconda metà del Novecento.
C’è poi un problema che attiene alla crescita stessa. Quanta crescita è buona e quanta non lo è? È auspicabile uno sviluppo senza che ci sia crescita nei diversi comparti industriali che risultano inquinanti. La riduzione dei livelli di crescita dei comparti inquinanti, tuttavia, difficilmente potrà essere compensata da quelli che generano crescita buona e necessaria. Una qualche forma di decrescita andrà pur presa in considerazione. Invece vediamo la levata di scudi contro il Green Deal da parte di tanta parte dell’industria, non solo italiana, che vede nella difesa dell’ambiente unicamente una riduzione dei propri profitti. Indice di una tipica visione corta prodotta dalle spinte centrifughe del mercato. Non c’è solo da perseguire l’innovazione tecnica a favore dell’ambiente, ma occorre riconvertire l’industria e i modelli di consumo inquinanti. Processi che non saranno certo a costo sociale zero. E che si dovrebbero affrontare anche in questo caso con una prospettiva di tutela delle fasce più deboli, non di quelle più forti, e con un protagonismo chiaro della sfera pubblica.
Insomma gli autori di Permacrisi affermano che «la prima regola per uscire da un fosso scavato con le proprie mani è smettere di scavare». Giusto. Qui si tratta di smettere di scavare avendo ben presente che per uscire dal fosso bisogna inventarsi un modo per risalire diverso dal passato. Perché il fosso è diverso da quello a cui siamo stati abituati a pensare perlomeno negli ultimi cinquant’anni. E per una volta quando si dice che non sarà a costo zero, magari incominciamo a pensare di cambiare i soggetti a cui presentare questo conto.
*Marco Bertorello lavora nel porto di Genova, collabora con il manifesto ed è autore di saggi su economia, moneta e debito fra cui Non c’è euro che tenga (Alegre, 2014) e, con Danilo Corradi, Capitalismo tossico (Alegre, 2011) e Lo strano caso del debito italiano (Alegre, 2023).
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