Il tempo della rivolta. Una discussione
La fine della storia e l'ora delle rivolte, i conflitti inaspettati e la costruzione di alternative al potere. Un dialogo con Donatella Di Cesare, Mimmo Lucano e Christian Raimo per riallacciare la politica alle nostre esistenze
Donatella Di Cesare, docente di filosofia teoretica alla Sapienza di Roma, ha dato da poco alle stampe un libro che stimola in modo diretto alcuni interrogativi che ci siamo posti fin dalla nascita della nostra rivista: Il tempo della rivolta. Questo dialogo intorno ai temi del suo libro ha coinvolto sulla nostra pagina facebook anche l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano e Christian Raimo, assessore al III Municipio di Roma e animatore del movimento politico-culturale Grande come una città, coordinati da Giulio Calella di Jacobin Italia. La discussione è stata trascritta ed editata per maggior chiarezza.
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Giulio: Il titolo del primo numero di Jacobin Italia – Vivere in un paese senza sinistra – era per noi una dichiarazione d’intenti: fare i conti fino in fondo, senza rimozioni, con la crisi profonda del movimento operaio del Novecento in cui siamo immersi, rigettando allo stesso tempo l’idea della «fine della storia» o dall’assenza di alternative a questa società. Per andare in questa direzione occorre essere disponibili a imparare dai conflitti sociali inaspettati che disseminano il nostro tempo, rinnovando il linguaggio della sinistra e mettendo in discussione anche alcune categorie interpretative classiche del Novecento. È lo stesso tentativo che fa Donatella Di Cesare nel suo ultimo libro, che si spinge fino a dare una definizione di questa fase storica: Il tempo della rivolta. La sua tesi è che ciò che abbiamo visto in questi ultimi dieci anni, da Occupy Wall Street alle maree femministe, dalle primavere arabe ai movimenti che in Cile hanno spazzato via la costituzione di Pinochet, dalle rivolte di Hong kong ai Gilet gialli francesi, fino ad arrivare alle rivolte antirazziste di Black Lives Matter, è qualcosa che definisce in modo strutturale e non congiunturale il nostro tempo. «Sebbene il fuoco sembri labile e l’evento fugace – scrive Donatella Di Cesare – la rivolta non può essere considerata una congiuntura effimera. Nelle sue alternanze è un fenomeno globale che promette di essere duraturo». Se il pensiero dominante, anche a sinistra, tende a considerare le rivolte come indifferenti rispetto alla storia, troppo schiacciate sul proprio nemico e concentrate sull’oggi senza una visione del domani, per Donatella Di Cesare sono invece proprio le rivolte a creare l’occasione di una rigenerazione della politica. L’intuizione che ci viene proposta è che questa «costellazione» di rivolte, seppur diverse tra loro e prive dei grandi slanci ideali e programmatici dei movimenti e delle rivoluzioni del Novecento, è portatrice della potenzialità di riconfigurare lo spazio pubblico in profonda crisi in cui agiamo. Proprio perché esterne alla politica istituzionale e proprio perché portavoce di soggetti e istanze di chi è lasciato fuori e non è rappresentato.
Ma in che modo queste rivolte che si sono susseguite hanno iniziato a riconfigurare lo spazio della politica? E soprattutto, cosa possiamo fare per coglierne tutta la potenzialità?
Donatella: Nel libro non espongo delle tesi ma faccio delle domande. Innanzi tutto io credo che esista un problema di linguaggio che è un problema politico. Siamo ancora abituati a fare ricorso alle categorie e alle coordinate del Novecento senza renderci conto che siamo nel 2020 e viviamo una realtà molto complessa in cui è necessario mettere in discussione categorie e concetti irrigiditi. In questo momento a sinistra c’è una grande confusione concettuale. Ad esempio la rivolta come categoria politica è stata sempre squalificata, mentre per me la parola «rivolta» è una parola molto importante. Si tratta tra l’altro di una parola profondamente italiana che solo successivamente emigra altrove: varrebbe la pena infatti chiedersi perché in Italia non ci siano state rivoluzioni ma ci siano invece state tante rivolte. Il significato etimologico di «rivolta» è «voltare la faccia» al potere, ma anche «fuga». Interrogarmi sulla rivolta significa quindi per me interrogarmi sulla cinetica rivoluzionaria.
Siamo abituati a concepire la rivoluzione in termini molto novecenteschi, in cui si cerca un luogo, un «Palazzo d’inverno», dove prendere il potere. Ma oggi c’è una difficoltà a individuare il potere perché non ha volto e indirizzo. Esiste in realtà un vuoto del potere. Non a caso le rivolte di questi anni si sono create dei luoghi, prendendosi le piazze, e hanno cercato il faccia a faccia con il potere attraverso ad esempio lo scontro con la polizia. Questo a mio avviso suggerisce alcune piste di elaborazione. Come va attaccato il potere? Oppure non va attaccato ma destituito? O il punto è tentare di sottrarsi al potere? O ancora: c’è bisogno di una «soggettivazione» o di una «disidentificazione»? Io nel libro affronto in questo senso il tema dell’utilizzo delle maschere in molti dei recenti movimenti.
La rivolta la intendo in termini molto ampi, valutandola per la sua capacità di mettere in discussione l’attuale architettura politica. Per questo sottolineo l’importanza della disobbedienza civile: non la disobbedienza tradizionale, quella di chi disobbedendo fa appello ad esempio alla Costituzione, riconoscendo quindi lo stato nazione, i confini, le discriminazioni tra cittadini e migranti che prevede lo spazio istituzionale della politica. I nuovi disobbedienti sono per me quelli come Mimmo Lucano, ossia coloro che disobbediscono violando i confini e mettendo in discussione lo stesso ordine statocentrico in cui viviamo. Non a caso sono quei disobbedienti che vengono criminalizzati. Le rivolte di questo tipo, io le chiamo anarchiche perché mettono in discussione l’architettura politica. In questo senso io credo ci sia un nesso tra rivolta e migrazione, perché i migranti vengono dai margini dell’architettura politica, sono ignorati e trascurati eppure ci aiutano a cambiare prospettiva sul mondo in cui viviamo.
Giulio: L’esperienza portata avanti da Mimmo Lucano a Riace, che gli è costata poi l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, è stata una luce per la sinistra italiana in questi anni. È stata importante anche perché ha fatto emergere le pesanti ingiustizie delle leggi italiane sulle migrazioni con una pratica concreta più che con le parole, creando così nuovo linguaggio attraverso un’esperienza esemplare. Mimmo Lucano è autore di un recente libro che si intitola Il fuorilegge, definizione che richiama quella di Disobbediente di cui parlava Donatella: porsi fuori dalla legge per mettere in pratica un modo diverso di costruire comunità. Mimmo ti riconosci in questa definizione di «nuovo disobbediente»? E in che modo la tua esperienza contribuisce a creare un nuovo spazio pubblico?
Mimmo: Ho ascoltato con attenzione le parole di Donatella perché mi aiutano a capire meglio alcune cose della nostra esperienza a Riace che nemmeno io ho capito fino in fondo, o di cui quasi non mi sono accorto. Non ho cercato consapevolmente di essere un Disobbediente. Ero un sindaco che rappresentava un piccolo governo locale, quindi le istituzioni. La mia è stata una scelta spontanea.
Prima di diventare sindaco mi ero spesso interrogato sul perché i nostri ideali di sinistra non diventano mai un concreto processo politico. In un’area fortemente marginale come quella in cui vivo, sicuramente uno dei problemi che affrontiamo è quello dell’efficacia del linguaggio della sinistra. La sinistra pensa di avere la verità in mano eppure questa «verità» non riesce mai a rientrare in un’idea di governo, anche locale. Quando ho deciso di candidarmi a sindaco i primi che non mi credevano erano i miei familiari, che mi ripetevano «Ma chi te lo fa fare?», perché già guardare oltre la propria sfera individuale era strano. L’area in cui vivo è stata storicamente caratterizzata dal latifondismo agrario e ancora oggi è profondamente condizionata dalla criminalità organizzata, eppure il mio contesto di riferimento è stato determinante nell’influenzare la ricerca di un processo politico in grado di far diventare concreti, anche una volta arrivato al potere, ideali della sinistra come quello dell’uguaglianza sociale. Come sindaco ero diventato parte dello stato ma nello stesso tempo era per me l’occasione per dimostrare che quei valori valgono anche una volta arrivati al governo. E per farlo disobbedire è stata una necessità.
Ciò che ha segnato la mia storia giudiziaria è stato il Decreto Minniti-Orlando che ha ridotto da tre a due le possibilità di poter ricorrere riguardo alle decisioni per il riconoscimento dello status di rifugiato politico. In quel momento è scoppiata a Riace la rivolta delle donne nigeriane che non avevano una terza possibilità di ricorso. A quel punto ero con le spalle al muro: o stavo dalla parte dell’umanità e disobbedivo, oppure stavo con lo stato. Il Decreto Minniti-Orlando è stato l’anticamera dei Decreti sicurezza di Matteo Salvini poi superati dal secondo governo Conte: alla fine è sempre relativo essere o meno nella legalità tanto che oggi nemmeno i Decreti sicurezza sono più legali. Becky Moses, donna nigeriana che viveva felicemente a Riace, a causa di quel Decreto è stata costretta a lasciare il nostro comune per andare vivere nella baraccopoli di San ferdinando e lì, in quell’inferno dei vivi, ha perso la vita. Di fronte a fatti del genere io semplicemente ho scelto istintivamente di seguire la strada dell’umanità, di un ideale di giustizia molto più importante della cosiddetta legalità. Questa parola ha fatto smarrire i propri valori alla sinistra perché è stata pronunciata anche quando significava mantenere i privilegi. Soprattutto quando hai una responsabilità di governo come nel mio caso, se ci sono leggi ingiuste in modo così evidente devi scegliere se stare dalla parte del potere anche contro i valori umani o stare con l’umanità. Il mio percorso come sindaco è stato legato al popolo, sono stato dalla parte del popolo senza fare differenze tra i cittadini: chi abita un luogo sta nello spazio pubblico e nessun essere umano può avere priorità rispetto a un altro. Lo slogan «prima gli italiani» è inaccettabile perché è discriminatorio, costruisce società legate a un privilegio inaccettabile.
Giulio: Anche Christian ricopre un ruolo istituzionale come assessore del III Municipio di Roma, e a partire dal suo ruolo è protagonista del tentativo di costruzione di uno spazio pubblico di partecipazione – Grande come una città – che prova a superare i confini istituzionali della rappresentanza e la loro crisi. Ma Christian è anche uno scrittore e un militante molto attento alle dinamiche di movimento che si muovono nelle città. Quanto, secondo te Christian, di ciò che si è mosso in questi anni va nella direzione di costruire un nuovo spazio pubblico per la politica? E quanto si riesce a incidere sulle dinamiche del potere?
Christian: Riprendo una delle domande fondamentali che faceva Donatella: il potere si contrasta o si destituisce? È un interrogativo che alberga non semplicemente nella politica delle piazze ma anche negli spazi di politica culturale, nelle amministrazioni locali, nelle università dove progressivamente si è svuotato sia lo spazio della rappresentanza che del confronto politico. Io penso che il potere non si contrasti né si destituisca, ma si sostituisca: questo spazio vuoto va occupato. Il potere va sostituito perché di fatto non c’è altra possibilità di interazione. Io stando all’interno di un’amministrazione, pur molto piccola, ho visto il vuoto dall’interno: la stanza dei bottoni è vuota. Questo non significa che non vengono prese delle decisioni: la repressione di cui parlava Mimmo Lucano è ovviamente una decisione. Ma tali scelte avvengono non nello spazio del confronto politico ma in quello della comunicazione politica.
La politica negli ultimi anni è stata fatta su un piano performativo, e nel momento in cui performo una decisione quella agisce politicamente: i Decreti sicurezza di Salvini erano dispositivi politici prima ancora che venissero approvati dal parlamento. A Roma vediamo bene gli effetti politici di dispositivi estetici o di immaginario come quelli di «decoro e degrado», che sono annotazioni estetiche generatrici molto forti di politica. Nell’ultimo libro di Donatella, come nei suoi Stranieri residenti e Marrani, c’è l’analisi di come l’ideologia produce pratiche politiche. A Roma ci sono circa cinquemila persone nei campi nomadi dal 1994, altre migliaia di persone che si trovano nei Cie e negli Sprar, altre migliaia ancora nelle carceri, e poi circa sedicimila persone senzatetto che vivono in accampamenti informali: si tratta di più o meno quarantamila persone prive dei diritti di cittadinanza soltanto nella Capitale. Questi ghetti di emergenza servono come modello per il resto della società. Normalizzare i campi nomadi serve ad avere un modello per i migranti; normalizzare i Cie è servito a rendere normale che si potesse rimanere nelle carceri durante una pandemia senza alcun beneficio di legge: ogni dispositivo si alimenta con l’altro.
In questo momento è più interessante il concetto di rivolta di quello di rivoluzione non perché vanno buttati i molti bambini con le molte acque sporche del Novecento, ma perché le forme di repressione sono frammentate e le rivolte che dicono No in contesti diversi, con articolazioni e soggetti diversi tra loro, creano comunità anche tra persone che non stanno facendo una rivoluzione insieme. Mimmo Lucano non si è organizzato con Karola Rakete, ma i loro No convergono. Simone di Torre Maura che dice «Nun me sta bene che no» non ha nessuna forma di organizzazione ma fa il paio con altre rivolte che esistono a Roma e che ad esempio abbiamo visto con gli occhi di quel bambino sgomberato dalla casa occupata a Primavalle con i libri sotto il braccio mentre i poliziotti lo portano via. Bisogna mettere insieme i No delle rivolte senza la pretesa di avere un’organizzazione che non c’è e senza nemmeno la teologia di Toni Negri sull’evento che a un certo punto diventa mobilitazione moltitudinaria. Occorre una pedagogia della rivolta, in cui questo movimento articolato può creare dei modelli che si possono riprodurre in contesti diversi, instradando se non una nuova idea di sinistra almeno un’idea di resistenza.
Donatella: Io ho conosciuto Christian diversi anni fa proprio davanti ai cancelli del Cie di Ponte Galeria dove volevamo entrare per denunciare cosa accadeva. Ha fatto bene a ricordare come nei Cie e nei Campi rom sia avvenuta la normalizzazione della discriminazione, dell’internamento, del respingimento. È così che siamo arrivati al Decreto Minniti-Orlando che ricordava Mimmo, ossia a far diventare accettabile a sinistra la discriminazione. Ciò è avvenuto perché si è accettato che la giustizia sociale fosse soltanto dentro i confini dello stato nazione, e quindi si può accettare che i rifugiati siano altra cosa rispetto ai cittadini o si può accettare l’ipocrisia di chi a parole è contro il razzismo e contemporaneamente vede come un avanzamento che i migranti siano internati per tre mesi e non per sei oppure che i respingimenti siano più efficienti. Un certo modo di vedere il potere finisce per avallare tutto questo e produce anche ciò che io chiamo «sovranismo di sinistra».
Sono d’accordo con Christian: il potere si sostituisce. Christian e Mimmo rappresentano esattamente la capacità non solo di resistere ma di costruire in modo alternativo. E questo è già un pezzo del coordinamento dei No di cui parla Christian, che non significa avere già un’avanguardia e una strategia pronte, ma lavorare in questa direzione.
Giulio: Nei vostri interventi avete definito vuota la stanza dei bottoni e la rivolta come una reazione di fronte a un potere che non piace ma che non si vede. Indubbiamente il dibattito sugli effetti della globalizzazione sulla forma che assume il potere in questo tempo storico è ampio e ci riguarda da oltre vent’anni. Queste trasformazioni del potere incidono sulla stessa crisi della politica così come spiegano in buona parte le reazioni sovraniste di sinistra, che ricercando un volto ben delimitato del potere approdano a idee nazionaliste. Non rischiamo però di deresponsabilizzare eccessivamente le scelte di governo? Come diceva anche Christian, il Decreto Minniti-Orlando è stata una precisa scelta del Governo Gentiloni di cui ha la piena responsabilità. Il rischio che non dobbiamo correre è quello di perdere di vista i nostri nemici. Uno degli obiettivi del lavoro di Jacobin Italia è proprio quello di ri-tracciare il campo di battaglia, individuando i nemici nella loro articolazione complessa, i nemici di classe che detengono il potere economico così come le loro diramazioni politiche. Sostituire il potere con esperienze esemplari che pian piano modificano lo spazio pubblico con elementi di contropotere è questione per me centrale in questo tempo, ma gli elementi di contropotere spesso si ottengono anche perché le rivolte riescono a inchiodare alle proprie responsabilità chi detiene un pezzo di potere.
Christian: Le rivolte di cui parla Donatella sono in realtà rivolte riformistiche, che chiedono una giustizia sociale che appare socialdemocratica, keynesiana, con la difesa della democrazia e dei diritti di cittadinanza. Il punto è che siamo dentro una crisi dell’ideologia con una coda lunga: il muro di Berlino è caduto nel 1989 ma per trent’anni abbiamo vissuto con un lutto delle ideologie che non abbiamo saputo elaborare. Il bellissimo numero sul populismo di Jacobin Italia racconta una lunga stagione almeno decennale, se non trentennale, di un’ideologia che non è un’ideologia, incapace di stare al passo con le grandi trasformazioni della globalizzazione, con le migrazioni, con le estrazioni di valore delle multinazionali. I populismi sono delle ideologie nazionaliste completamente inadeguate a capire il nostro tempo, non a caso lo stesso Trump svanisce.
Donatella Di Cesare è un’anomalia nel panorama italiano: una docente universitaria che impegna il suo ruolo nell’attivismo è un portato del Novecento, oggi c’è una debolezza di quelli che dovrebbero essere i luoghi di invenzione delle culture politiche, come la scuola, l’università, i sindacati, i partiti. In questo momento allora il nostro lavoro deve essere proprio questo: provare a formarci e formare culture politiche. Nel dopoguerra in pochi mesi si sviluppa una cultura internazionalista rispetto alla ricostruzione del paese, vengono tradotti migliaia di libri, arrivano in italia romanzi, saggi, intellettualità che costruiscono culture politiche. Noi abbiamo una sorta di sudditanza psicologica nei confronti dell’azione ma invece ci serve tantissimo lavorare sul piano della comunicazione: la sostituzione del potere oggi deve avvenire lì perché lì avviene il politico, nelle conferenze stampa, sui social network ecc. La politica in questo momento è solo palco, non esiste un retro, la stanza dei bottoni è vuota ma il palco è pienissimo. Per sostituire il potere dobbiamo prenderci il palco, non dobbiamo cercare la stanza dei bottoni per capire chi è il regista perché non c’è un regista, c’è solo una persona davanti al microfono e dobbiamo toglierglielo. Se glielo togliamo facciamo un atto politico performativo che ci permette di guadagnare lo spazio del confronto politico, in cui immettere il lavoro molto più lungo che è quello dell’educazione, della scuola, dell’univeristà, delle riviste e dell’editoria. Il tempo della rivolta è il tempo del kairos, dell’occasione, mentre il tempo dell’educazione e della cultura politica è il tempo molto più lungo di crescita e di sviluppo.
Mimmo: Io credo sia importante sottolineare che le rivolte a cui assistiamo sono legate a una sofferenza esistenziale. Il messaggio più forte che possiamo dare è legato alla dimensione della speranza: bisogna lasciare delle gocce di speranza perché se si perde questa sensazione diventa difficile immaginare un impegno per continuare a resistere. La speranza ogni attimo rinnova la voglia di partecipazione per poter inaugurare, dopo il tempo della rivolta, un’umanità nuova di giustizia e di uguaglianza.
Donatella: Il richiamo di Mimmo alla dimensione esistenziale è fondamentale. Spesso oggi parliamo di politica come se si potesse prescindere dall’esistenza, mentre la rivolta oggi è una questione anche esistenziale, tocca l’esistenza di ciascuno, soprattutto in questo periodo di isolamento pandemico dove ognuno dentro di sé ritrova una sorta di angoscioso «sovranismo dell’io». Viviamo in un tempo in cui l’esistenza è sempre più sganciata dalla politica, il nostro compito per il futuro è quindi proprio riconnettere la politica all’esistenza.
*Giulio Calella, Cofondatore di Edizioni Alegre, fa parte del desk della redazione di Jacobin Italia. Donatella Di Cesare insegna filosofia teoretica alla Sapienza di Roma. Tra i suoi ultimi libri ricordiamo anche Heidegger e gli ebrei. I «Quaderni neri» (2014 e 2016) e Tortura (2016), entrambi usciti da Bollati Boringhieri. Per Einaudi ha pubblicato Terrore e modernità (2017) e Marrani (2018). Mimmo Lucano è stato il sindaco di Riace dal 2004 al 2018. Ha creato il Modello Riace, che ha ricevuto importanti riconoscimenti internazionali, tra cui il premio per la Pace e i Diritti umani di Berna. Ha scritto Il fuorilegge (Feltrinelli, 2020). Christian Raimo è nato a Roma, dove vive. Assessore alla cultura nel III municipio di Roma, scrive per diverse testate, tra cui Internazionale, il manifesto, minimaetmoralia. Il suo ultimo libro è Riparare il mondo (Laterza, 2020).
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