Il tempo oltre la storia
L'ultimo libro di Enzo Traverso è un montaggio di teorie, eventi, immagini, memorie, speranze delle rivoluzioni. Un percorso non lineare nel passato che assume un senso nuovo perché viene tracciato con l'ottica del futuro
Nel dicembre del 1920 i delegati della Sezione francese dell’Internazionale socialista, riuniti in congresso a Tours, decidono di aderire, in maggioranza, all’Internazionale comunista. Nasce quello che diventerà il Partito comunista francese. In questi giorni si sta celebrando il suo centesimo compleanno, dopo vari rinvii dovuti alla pandemia. Il punto più alto delle celebrazioni è la mostra Libres comme l’art. 100 ans d’histoire entre les artistes et le Pcf allestita nella sede nazionale del partito, situata nel vecchio cuore operaio di Parigi, a due passi da Belleville. L’esposizione sarà aperta fino al 31 gennaio. Vengono mostrate, tra l’altro, le opere che molti artisti hanno regalato al partito. Si tratta di un evento sorprendente e oltremodo interessante. Sorprendente perché è inaudito per noi, oggi, sprofondati nel liberismo e nello spettacolo associato, solo pensare che degli artisti offrano i loro lavori a un partito «comunista», soprattutto se questi artisti sono personaggi del calibro di Picasso, Duchamp, Léger, Masson, ecc. Interessante perché ci fa vedere in carne e ossa che il Novecento è stato anche il tempo in cui si è inventato un certo rapporto fra l’arte e la politica in nome di una rivoluzione sentita come necessaria.
Non è questione di mettere l’arte al servizio della rivoluzione. Il problema che pone la volontà di fare una nuova arte nel contesto di una politica a venire, di una politica, cioè, che non mira a conservare l’esistente, ma si situa nell’orizzonte di una rottura epocale, è che solo un cambiamento dell’esistenza, la creazione di un altro stile di vita, rende possibile l’emancipazione politica e sociale. L’arte è questa creazione. La politica stessa lo è.
Per capire a fondo cosa succede in questa mostra bisogna avere in testa delle date. 1917: Rivoluzione d’Ottobre in Russia. Dopo la fine della Grande guerra: fondazione dei partiti comunisti in Europa e nel mondo intero, riuniti nel Komintern. La rivoluzione mondiale, obiettivo della nuova Internazionale operaia, tuttavia non si realizza: avanzata dei fascismi, in Italia, in Germania, in Spagna. Dove oggi c’è la sede del Partito Comunista Francese, in quelle strade dell’est parigino, si riuniscono i giovani che partono volontari per combattere a fianco dei repubblicani spagnoli. C’è una targa commemorativa su un muro, molto commovente. Dei ragazzi e delle ragazze, provenienti da ogni angolo di Francia, che lasciano le loro abitudini quotidiane per difendere un sogno in qualche terra sconosciuta del sud. Tra di loro c’è anche il futuro «Colonel Fabien», Pierre Georges, che, a soli 17 anni, mentendo sulla propria età, va in Spagna a difendere la libertà e l’uguaglianza. Ritornato a casa, tra arresti e militanza da operaio nelle fabbriche, si impegna successivamente nella resistenza contro il nazismo. È l’autore del primo attentato contro le forze occupanti tedesche a Parigi al metro Barbès. Tra evasioni, nuovi attacchi, organizzazione militante sarà uno degli incubi maggiori dei nazisti fino alla sua morte accidentale nel 1944, a soli 25 anni. Quante vite ha avuto il Colonel Fabien purtuttavia!? La piazza su cui Niemeyer ha costruito la sede del Pcf porta il nome di questo ragazzo, come la stazione della metro che sta sotto. Ultimi ruggiti poi di una Parigi ribelle: il 68, su cui il Pcf è meno loquace, e infine alcune fotografie delle ultime rivolte a Parigi, quelle dei gilets gialli.
Oggi si celebra la fine di ogni tentativo di contestazione dell’ordine dominante delle cose. There is no alternative. Sentiamo dirlo da almeno trent’anni. Non è un caso, quindi, se la mostra del Pcf ha scarsissima risonanza negli organi di stampa. Eppure, normalmente, cioè altrove, in un contesto conforme ai canoni attuali, quello di una fondazione privata, Pinault o Cartier, o anche quello di un museo nazionale con le stelline repubblicane, basterebbe una linea di un Giacometti o di un Pignon-Ernest per far illuminare i riflettori e alimentare i discorsi mondani. Non è più tempo per queste cose. Stop. Silenzio.
Non voglio, tuttavia, parlare di arte, della sua sussunzione alle logiche del mercato, della sua spettacolarizzazione, del «grande disgusto culturale» in atto (Brossat). Baudelaire, a Parigi, duecento anni fa, aveva già capito tutto. Ed è per questo anche, probabilmente, che il poeta si lancia sulle barricate del 1848. Una rivoluzione per fermare la marcia trionfale della borghesia. Non ci riuscirà. Non ci riuscirà nemmeno la Comune di Parigi, qualche decennio dopo, che si attaccherà a delle odiose forme d’arte, le Tuileries o la colonna Vendôme. Sono delle rivoluzioni sconfitte, che sono sepolte sotto la coltre del tempo. Non si vedono più. Non c’è più niente, non possono divenire dei «luoghi della memoria». Eppure il loro significato profondo risiede proprio nel «vuoto» che la forza distruttiva della rivoluzione ha lasciato.
È questa una delle diverse tesi che intende difendere Enzo Traverso nel suo ultimo libro, Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia (Feltrinelli 2021). Traverso percorre due secoli di storia – anche di più perché le sue considerazioni arrivano fino all’oggi, al movimento dei gilets gialli ad esempio – attraversa frontiere e continenti, dalla Francia – anzi ancora prima: dalla dichiarazione di indipendenza del 4 luglio 1776 dei coloni nei futuri Stati Uniti d’America – fino alle rivoluzioni anticoloniali. Segue le luci che le diverse rivoluzioni lasciano, si incunea nei loro lati d’ombra, parla della gioia popolare, dell’euforia del momento dell’esplosione rivoluzionaria, che coinvolge tutti, e parla anche della militarizzazione delle rivoluzioni, della loro fine. È un lavoro da «cenciaiolo» sulla «memoria» della rivoluzione: i «luoghi» ufficiali della memoria rivoluzionaria non dicono più niente, sono depotenziati (la Bastiglia, ad esempio), restano però dei cocci, dei resti sparsi qui e là di quegli «assalti al cielo». Traverso si occupa di queste «sopravvivenze» della rivoluzione. Questo lavoro archeologico è al servizio della tesi principale del libro: l’epoca delle rivoluzioni non è finita. Traverso porta avanti questa tesi da storico, senza nascondere la sua passione del reale. Nota che gli ultimi movimenti anti-sistemici coltivano pochi rapporti con la storia cosiddetta rivoluzionaria, mancano di una «memoria». Non si inscrivono in una sequenza epocale. Pur nella loro radicalità, manifestano una certa disperazione quanto al rapporto con il passato. Traverso intende, invece, salvare l’idea di rivoluzione, elaborandola criticamente.
C’è un asse portante nel libro, il suo «metodo». La rivoluzione non è studiata solo con le fonti teoriche o storiografiche, Traverso lega il concetto di rivoluzione anche a immagini, memorie, speranze. In questa prospettiva il suo libro si presenta non tanto come una classica monografia storica, ordinata cronologicamente, quanto come una sorta di montaggio (alla maniera proprio del cinema di Ejzenstejn, il cui lavoro ritorna spesso nel corso delle pagine) di «immagini dialettiche», delle «immagini», cioè, che cristallizzano il passato (per Traverso possono essere barricate, statue, treni, canzoni, corpi, bandiere, ecc.) e che rivelano, come diceva Walter Benjamin, la loro luce solo se viste in un’ottica futura. Le pagine del libro si dipanano, quindi, attraverso numerose «immagini dialettiche» o «immagini-pensiero». Cosa ci dicono? Innanzitutto, esse sottolineano il legame dell’idea di rivoluzione con le diverse forme artistiche: «Come prova l’esperienza storica, liberazione significa inventare nuove pratiche che fondono insieme emancipazione sociale, libertà politica e una profonda trasformazione culturale, estetica, estesa a molti ambiti della vita collettiva». La mostra del Pcf fa vedere l’impegno degli artisti per una nuova politica, il libro di Traverso dimostra che si ha rivoluzione quando si produce un cambiamento anche nel campo del «sensibile». Certo, per lui, il criterio principale è la presa del potere, il momento costituente della lotta. È quanto distingue una rivoluzione da una rivolta. La rivoluzione si inscrive in una durata, mentre la rivolta vive in una fiammata effimera. Ma esistono dei fatti storici che producono un cambiamento durevole anche negli ordini istituzionali, eppure non sono delle «rivoluzioni». E noi possiamo accorgercene perché non ci sono «immagini dialettiche» di essi. La rivoluzione russa, ad onta del suo successivo Termidoro staliniano, è una rivoluzione a tutto tondo perché sconvolge, ad esempio con Malevic e la scuola di Vitebsk, la rappresentazione artistica. Negli stessi termini, l’esperienza della Comune di Parigi, malgrado la sua breve durata, costituisce una rivoluzione perché il tema di una nuova arte vi è centrale. Dopo la repressione di questa esperienza eccezionale, il nemico principale dei versagliesi, non ancora sazi del sangue dei comunardi, sarà, non a caso, Courbet che aveva elaborato con la Federazione degli artisti il concetto di «lusso comune», la socializzazione, cioè, di tutte le attività di appagamento e piacere (Ross). Una storia non finita, si diceva. Eppure il libro si apre con la rappresentazione di un’immagine catastrofica, il naufragio della fregata francese Méduse, al largo della Mauritania il 2 luglio 1816. Géricault mette in scena il tentativo di salvataggio su una zattera di una parte della ciurma che finirà in modo tragico. La zattera della Medusa (1819) è un’immagine catastrofica non solo perché parla della morte di tanta povera gente, ma anche perché rappresenta il fallimento della rivoluzione: «Come non vedere nella zattera i resti di un movimento che – al pari della fregata sulle onde dell’oceano – mirava a conquistare il futuro ed è invece miseramente naufragato?». D’altra parte, tuttavia, l’uomo nero in piedi, al centro del quadro, che sventola un fazzoletto rosso, alla vista dell’imbarcazione che li salverà, indica anche l’annuncio di altre rivoluzioni, post-europee. È anche in questo senso che il libro, senza nascondere il fallimento delle rivoluzioni ottocentesche e novecentesche, non si rassegna alla fine della storia, cerca di tracciare una nuova possibile continuità nel discorso rivoluzionario, passandolo al vaglio della critica, come si diceva, ma anche spostandone l’asse, cioè decentrandolo, decolonizzandolo.
In un momento in cui, il sistema politico, economico e sociale nel quale viviamo svela tutto il suo carattere propriamente mortifero , c’è più che mai bisogno che le masse irrompano di nuovo sul terreno dove si decidono le loro sorti, per riprendere l’espressione di Trotskij, la cui Storia della rivoluzione russa costituisce uno dei riferimenti storiografici decisivi di Traverso. C’è urgenza. Occorre elaborare teorie e pratiche della catastrofe, della fine del mondo che viviamo. La Rivoluzione russa, nel cuore di una guerra insensata e terribile, rompe la continuità normale, vuota, del tempo, spezza l’eterno e ininterrotto progresso in avanti cui crede la socialdemocrazia; incunea, invece, in esso l’annuncio messianico di una nuova epoca. Si configura, quindi, come catastrofe. Traverso, nella scia di Benjamin, lo ricorda spesso. La rivoluzione è la sospensione del tempo: «Il socialismo significa l’avvento cataclismatico di un’era oltre la storia, di un nuovo tempo messianico che rompe radicalmente la continuità della storia e della civiltà».
È in questo senso che la concezione della rivoluzione di Benjamin ci invita a trovare nel passato delle immagini che squarcino il presente e lo proiettino oltre la dimensione storica. Nei termini di Benjamin, che, mi sembra, Traverso condivide, si tratta di «inventare una tradizione». Il suo libro certamente partecipa a questo sforzo. Nell’enorme accumulo di rovine della storia si tratta di trovare, di costruire, qualcosa che possa innescare la scintilla per accendere la luce della speranza. Per questo dobbiamo capitalizzare tutto il passato ribelle, tutti i tentativi che sono stati fatti per arrestare il tempo, non solo in occidente.
Il dramma della rivoluzione moderna, a partire dal 1789, è che la violenza liberatrice si è sempre trasformata in una violenza coercitiva. Non è stata trovata, dice Traverso, la chiave per preservare stabilmente le potenzialità liberatrici della rivoluzione. Mentre altri storici affossano l’idea di rivoluzione proprio per questa ragione Traverso sceglie di non condannare la rivoluzione stessa e fa notare, prove in mano, che, in ogni campo, dalla morale sessuale al lavoro, per non parlare dell’arte, le rivoluzioni posseggono tutte all’inizio un carattere autenticamente emancipatore. Gli operai sono attori della rivoluzione, ad esempio, perché intendono liberarsi dal lavoro, non per diventare delle macchine più perfezionate, come nello stakanovismo. Le donne rivoluzionarie vogliono una vera emancipazione sessuale, vogliono liberarsi dal matrimonio, vogliono amare quando e chi vogliono – Kollontaj sistematizza benissimo queste posizioni – e non vogliono essere, come poi saranno, le nuove vestali di una nuova morale familistica. Cosa è accaduto insomma? È successo che la rivoluzione, dopo aver distrutto la sovranità, diviene una nuova orrenda «potestas», uno «Stato» tremendamente sovrano.
In questo fallimento storico, il libro di Traverso si propone di preservare il nucleo emancipatore della rivoluzione. Ma come è possibile? Occorre forse ripensare la questione del potere. Per Traverso, questa questione rimane ineludibile: è impensabile una rivoluzione senza un «potere costituente», senza, cioè, l’instaurazione di un nuovo ordine politico-giuridico che sostituisca quello precedente (il potere costituito). Ora, è questa espressione della politica che si è rivelata nefasta per le rivoluzioni, quel momento in cui il «momento estatico di autoliberazione» si è trasformato in un «ordine nuovo». È probabilmente il momento necessario per rendere effettiva la rivoluzione, ma ne è stato anche il suo affossamento..
Che fare oggi in un mondo post-storico e senza più alternative, eppure scosso da tentate impossibili evasioni? Si riuscirà ad evadere? Saranno delle rivoluzioni o piuttosto delle rivolte? Chissà… Nel libro di Traverso non troviamo ricette dell’avvenire, ma il lavoro sul passato lascia emergere delle schegge di storia che non hanno ancora realizzato tutte le loro possibilità. In quest’ottica, Traverso invita i movimenti a trovare nel passato degli «attimi» che potrebbero essere riattivati, come fecero i comunisti a Berlino nel 1919 che tracciarono un filo rosso tra la loro insurrezione e la rivolta di Spartaco. Allora, anche nella nostra infinita catastrofe, anche dopo la storia, una rivoluzione, sì, un giorno, di nuovo…
*Luca Salza insegna letteratura italiana e storia delle idee all’Università di Lille. Dirige, con Pierandrea Amato, la rivista K.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.