
Il trauma coloniale e la guerra alla memoria
Macron è il primo presidente francese nato dopo la fine del conflitto algerino. Si è impegnato a risolvere i conti col rimosso del passato coloniale. Al punto di generare una crisi diplomatica tra Francia e Algeria
Il 2 ottobre 2021 l’ambasciatore algerino a Parigi, Mohamed-Antar Daoud, è stato richiamato ad Algeri per consultazioni. Il giorno seguente, le autorizzazioni di ingresso e di transito nello spazio aereo del paese nordafricano, normalmente accordate ai velivoli dell’aviazione militare francese impegnati nell’operazione «anti-jihadista Barkhane», nella regione del Sahel maliano, sono state negate.
Tramite un comunicato stampa, la presidenza della Repubblica ha spiegato le ragioni dell’interruzione unilaterale delle relazioni diplomatiche: «A seguito delle dichiarazioni, non smentite, che svariate fonti hanno attribuito al Presidente della Repubblica francese, l’Algeria esprime il suo categorico rifiuto dell’inaccettabile ingerenza nei suoi affari interni». Il richiamo, piuttosto vago, al primato della sovranità nazionale e al principio di non ingerenza è sostenuto da una serie di allusioni di ordine storico, che trasformano un’apparente querelle diplomatica fra due stati sovrani in uno scontro memoriale ben più profondo e radicato: «Le frasi in questione costituiscono un attacco intollerabile alla memoria dei 5.630.000 valorosi martiri che sacrificarono la loro vita nell’eroica resistenza all’invasione coloniale francese, così come nella gloriosa Rivoluzione Nazionale di Liberazione. I crimini commessi dalla Francia coloniale in Algeria sono innumerevoli ed evocano la definizione di genocidio contro l’umanità». Al di là delle ragioni di opportunità politica e dei posizionamenti geostrategici dei due paesi, le parole proferite da Emmanuel Macron sembrano aver toccato un nervo scoperto, suscitando così l’ira delle autorità di governo dell’ex territorio coloniale maghrebino. In ordine cronologico, l’ultimo a dichiarare la propria indipendenza dall’Empire, il 5 luglio 1962, a seguito di una durissima guerra durata otto anni.
Il casus belli è riconducibile alla serie di frasi pronunciate dal capo dello Stato francese in occasione di una cerimonia svoltasi all’Eliseo verso la fine del mese di settembre. Diciotto giovani e giovanissimi, selezionati in quanto «petits-enfants» del conflitto da Cécile Renault, responsabile del nuovo progetto presidenziale Mémoire de la colonisation et de la guerre d’Algérie, sono stati ricevuti a pranzo da Macron, che ha ascoltato le loro proposte in merito al problema della memoria di guerra. Nipoti di membri del Fronte di Liberazione Nazionale algerino (Fln), di harkis – gli algerini che presero parte alla guerra al fianco della Francia –, di pieds noirs – gli europei d’Algeria rimpatriati a seguito dell’indipendenza del paese –, di soldati di leva o di militari di professione francesi, i giovani eredi della memoria bellica hanno avuto la possibilità di esporre al Presidente della Repubblica una decina di messaggi preparati nel corso dell’estate nelle sale della prestigiosa SciencesPo Paris. Fra di loro, anche la nipote del generale Raoul Salan, capo dello Stato Maggiore Interforze dell’esercito francese durante la fase più cruda del conflitto, strenuo difensore dell’Algérie française, golpista e dirigente di punta dell’Organisation de l’Armée Secrète, il gruppo paramilitare di estrema destra responsabile di innumerevoli attentati, omicidi e stragi indirizzati al mantenimento della sovranità francese sull’Algeria fra il 1961 e il 1962.
È di fronte a questa, ristretta, platea che Macron ha pronunciato le frasi che si situano all’origine di questo nuovo, drammatico, capitolo dell’intricato romanzo postcoloniale francese, che rinfiamma la disputa fra l’Héxagone e la sua ultima proiezione coloniale africana, l’Algeria:
La nazione algerina post 1962 è stata costruita sulla rendita memoriale: all’origine di ogni problema ci sarebbe la Francia. […] La costruzione dell’Algeria come nazione è il fenomeno da prendere in considerazione. Esisteva una nazione algerina prima della colonizzazione francese? Questo è il problema. C’erano state delle colonizzazioni precedenti. Mi affascina la capacità della Turchia di far dimenticare completamente il ruolo giocato in Algeria durante la sua dominazione. E spiegare che noi siamo gli unici colonizzatori, è geniale. Gli algerini ci credono.
Sono «la parte algerina della Francia e la parte francese dell’Algeria», per il Presidente della Repubblica, a dover essere valorizzate, come riportato dal cronista del Monde che assiste in esclusiva all’incontro: «Non bisogna cedere di un passo. Ciò che stiamo facendo è una lotta di civilizzazione per ciò che rappresenta la Francia».
La nazione algerina: breve storia di un dibattito infinito
Per tentare di quantificare il peso delle parole di Emmanuel Macron e cercare di comprendere le ragioni della dura reazione algerina è necessario risalire la china di un dibattito che sembra riproporsi ciclicamente nella storia delle relazioni fra i due paesi. Il problema del concetto di nazione è qui in questione, nell’ambito di una disputa che dura ormai da un secolo, ricalcando di volta in volta uno schema imbrigliato in forme di ripetizione senza apparente via d’uscita.
«Se avessi scoperto la nazione algerina, sarei nazionalista […] Non morirei per la patria algerina, poiché questa patria non esiste. Non l’ho scoperta. Ho interrogato la storia, ho interrogato i vivi e i morti, ho visitato i cimiteri, nessuno me ne ha parlato», scriveva l’intellettuale liberale algerino Ferhat Abbas nel febbraio del 1936 nel contesto del, nascente, movimento nazionalista. Le sue, iconiche, parole e la sua complessa parabola politica ed esistenziale sono lo specchio dell’aporia che informa lo svolgimento del rapporto tra Francia e Algeria in merito al problema nazionale. Uomo politico di area moderata e partigiano dell’assimilazione integrale alla République, egli abbraccerà la causa nazionalista del Fln, fino a diventare nel 1958 il primo presidente del Gpra, il Governo Provvisorio della Repubblica Algerina, portando avanti in prima persona le trattative per l’indipendenza del paese di fronte all’Onu. L’inconciliabilità radicale che intercorre fra le pratiche di esclusione razziale atte nel contesto coloniale e i principi dell’universalismo repubblicano rappresenta il punto d’innesco della metamorfosi, paradossale, di Abbas: è la coesistenza impossibile a rendere l’indipendenza nazionale necessaria. Una necessità che travalica i confini del politico e che investe lo spazio, intimo, dell’identità.
Come sintetizzato dallo scrittore Mouloud Feraoun, assassinato dall’Oas nel 1962: «L’indipendenza è diventata per noi la nostra sola ragione di vita. Forse abbiamo avuto torto nel lasciare intrufolare in noi quest’idea folle, ma eliminarla ora è fuori discussione». È proprio attorno alla ricerca delle radici precoloniali dell’Algeria che il movimento indipendentista pone i pilastri della sua mitologia politica, come si evince dal materiale prodotto dai principali partiti nazionalisti nel secondo dopoguerra. «Se le tesi del colonialismo francese negano, con argomenti che costituiscono una sfida al buonsenso, l’esistenza della nazione algerina, l’analisi degli elementi costitutivi della nazione, secondo la concezione moderna, non può che giungere a questa conclusione: l’Algeria è una nazione», recita in apertura il numero di gennaio 1953, un anno prima dello scoppio della guerra d’indipendenza, della rivista Réalités algériennes, organo del Movimento per il Trionfo delle Libertà Democratiche in Algeria, una delle principali formazioni nazionaliste attive in quel periodo.
Dal lato francese la questione è ancora più stringente e sfiora, a tratti, l’ossessione: il problema della nazione alimenta senza soluzione di continuità il monologo sull’Algérie française. L’intero arco delle forze politiche parlamentari ne risulta coinvolto. Dall’estrema destra fino alla dirigenza del Partito Comunista Francese (Pcf), la presunta assenza di una nazione algerina nel periodo precoloniale è il presupposto implicito ed esplicito posto a fondamento della colonizzazione del paese. Dichiarava Maurice Thorez, segretario del Pcf, nel 1939, ad Algeri:
Noi, comunisti, non conosciamo le razze. Noi non vogliamo conoscere che i popoli. Noi siamo consapevoli di come, nella nostra Francia, vivano oggi i discendenti delle venti razze che secoli di storia hanno mischiato fra loro. Non è la stessa cosa, qui, in Algeria? […] C’è una nazione algerina che si sta costituendo e la cui evoluzione può essere facilitata, aiutata tramite gli sforzi della Repubblica francese. […] C’è una nazione algerina che si costituisce, anch’essa, nel crogiolo di venti razze».
Non solo il futuro dell’Algeria sarebbe inesorabilmente legato al suo rapporto con la Francia, ma seguirebbe anche il suo stesso modello di sviluppo storico, che corre su binari implicitamente franco-centrici. I leader dei partiti che si troveranno a guidare il paese a seguito dello scoppio della guerra, dal 1954 in avanti, utilizzeranno sistematicamente l’argomento nazionale come strumento di legittimazione delle spietate attività di counterinsurgency applicate su tutto il territorio algerino.
«L’Algérie, c’est la France, e la Francia non riconoscerà nessun’altra autorità che non sia la sua», proclama il giovane Ministro dell’Interno François Mitterrand all’indomani dell’insurrezione del 1 novembre 1954, che apre ufficialmente le ostilità. Per il governatore generale dell’Algeria, l’etnologo Jacques Soustelle, inviato appositamente ad Algeri nel 1955 per implementare le riforme in senso assimilazionista, «l’opera di progresso politico e sociale da compiere in Algeria, dopo troppi ritardi, impone [alla Francia] di restare» per non riconsegnare l’Algeria «a un totalitarismo medievale». Così, invece, il Primo Ministro socialista Guy Mollet nel gennaio 1957, alla vigilia della più spettacolare e cruenta operazione poliziesco-militare messa in atto nel corso del conflitto, la battaglia di Algeri:
La Francia ha cominciato a stabilirsi nel 1830 in quello che il grande pubblico chiamava ancora la «barbarie», gruppo di territori sottomessi allora a una, teorica, dominazione turca, ma consegnata, di fatto, all’anarchia: non esisteva l’Algeria al tempo, ma un insieme caotico di repubbliche cabile e di regni arabi. […] Parlare qui di «colonialismo» o «anticolonialismo» significa disconoscere profondamente la realtà presente dell’Algeria.
Solo alcune, isolate, voci si leveranno a difesa delle prerogative indipendentiste. È il caso del folto gruppo di intellettuali francesi riuniti attorno al Comité d’Action des Intellectuels contre la Poursuite de la Guerre en Afrique du Nord, creato nel 1955 da Dyonis Mascolo. La questione dell’esistenza della nazione algerina risulta, anche qui, preponderante. È l’intellettuale anticoloniale Daniel Guèrin a portare la questione di fronte al Comité, con un intervento intitolato L’Algérie n’a jamais été la France, nel gennaio 1956:
Vorrei scavare con voi nel passato e convincervi che l’Algeria non è mai stata la Francia, che la nazione algerina è un fatto storico nascosto o mistificato dagli storici assoldati. Vorrei, allo stesso modo, confutare coloro che sostengono che la presa di coscienza nazionale del popolo algerino sia un fenomeno di recente invenzione […] La nazione algerina è in marcia.
La questione dell’esistenza di un’entità nazionale algerina in quanto tale travalica i confini della semplice retorica politica o quelli della diplomazia internazionale per affermarsi come materia plastica, incandescente, in grado di plasmare le forme di rappresentazione memoriali dell’Algeria e della Francia contemporanee. Un terreno sdrucciolevole e insidioso, che informa il tema delle identità postcoloniali fra le due rive del mar Mediterraneo e che evoca i fantasmi di un passato che non vuole passare, da maneggiare con estrema cautela.
Rimosso coloniale e coazione a ripetere
Se molti osservatori hanno posto l’accento sulle implicazioni geopolitiche originate dalle parole di Macron, che, fra le altre cose, si è scagliato contro il «sistema politico-militare costruito sulla rendita memoriale» sulla quale si reggerebbe l’Algeria di oggi, la realtà appare più complessa. Non è possibile ridurre la reazione algerina alle recenti frizioni con la Francia causate dalla riforma dei visti ai cittadini maghrebini, o alle valutazioni strategico-diplomatiche rispetto alla Turchia, accusata dal Presidente della Repubblica francese di essersi comportata come uno Stato coloniale nell’Algeria precoloniale: la durissima risposta delle istituzioni e della società civile algerine ha origini più profonde, da ricercarsi, come abbiamo cercato di dimostrare, nell’intimo e contraddittorio rapporto con l’ex stato colonizzatore. Un gioco di specchi in cui l’interrogativo identitario occupa uno spazio preminente. In tal senso, il nocciolo del problema relativo alle dichiarazioni di Emmanuel Macron risiede nella specifica politica memoriale messa in atto dall’inizio del suo mandato a oggi. Una prospettiva storico-politica precisa, che vorrebbe fare del Presidente della Repubblica più giovane della storia francese, nonché il primo a essere nato dopo la fine della guerra, l’interprete di un nuovo romanzo nazionale possibile, da scrivere utilizzando la sintassi, rinnovata, della Francia postcoloniale del XXI secolo.
«Sono sempre molto prudente con il tema dell’identità, […] fantasma di un passato che non è mai esistito. Io credo molto di più al concetto di appartenenza a una nazione, che è diversa dall’identità. La storia ci insegna che il rapporto che abbiamo con la nazione francese è mobile, che si costruisce nella storia tramite un superamento costante», dichiarava Macron nel marzo 2017, in piena campagna per le elezioni presidenziali. Poche settimane prima, la sua definizione del colonialismo come «crimine contro l’umanità» aveva fatto scalpore, suscitando l’indignazione dei leader dei partiti di destra. Per il futuro Capo dello Stato si trattava di assumere il proprio passato, «presentando le nostre scuse nei confronti di coloro verso le quali e i quali abbiamo commesso questo tipo di gesti». La politica del superamento delle memorie di guerra è stata sistematicamente applicata nel corso del suo quinquennio alla guida del paese. Il riconoscimento dell’omicidio del giovane matematico comunista Maurice Audin e di quello dell’avvocato Ali Boumendjel, entrambi torturati e uccisi dai paracadutisti dell’esercito francese durante la battaglia di Algeri, vanno in questa direzione, così come le scuse recentemente presentate alle famiglie degli harkis e l’incarico di redigere un rapporto sulla memoria della colonizzazione conferito nel luglio 2020 allo storico Benjamin Stora. Lungi dall’affermarsi come risolutiva, tuttavia, la strategia del «superamento» sembra aprire a nuovi problemi, dispersa nell’ambiguo labirinto delle identità postcoloniali. Se i gesti dall’alto valore simbolico messi in atto da Emmanuel Macron risultano, effettivamente, inediti nella storia delle relazioni con il passato algerino, non lo sono le forme entro le quali tali gesti si inquadrano.
Come sostenuto dalla storica Sylvie Thénault, ad essere scorretto è il presupposto secondo il quale le memorie franco-algerine si risolverebbero nell’ambito dei rispettivi campi di appartenenza nazionali: non solo la logica dei due blocchi nazionali contrapposti risulta storicamente fallace, ma essa contribuisce, paradossalmente, alla cristallizzazione delle identità che pretende di combattere. D’altronde, fare i conti con il colonialismo costituisce una questione esistenziale e non solo memoriale, per l’Algeria contemporanea, ricorda in maniera puntuale Malika Rahal in un’intervista rilasciata alla rivista l’Express – in seguito non pubblicata e ripresa sulla sua pagina Facebook.
Al di là delle iniziative simboliche, e della loro logica strumentale subordinata alla ragion di Stato, è un reale processo di decolonizzazione del passato e del presente della Francia contemporanea a mancare tuttora all’appello. Mentre, da un lato, il lavoro degli storici della decolonizzazione viene intralciato tramite norme restrittive e violenti attacchi politici provenienti dagli esponenti della maggioranza di governo, dall’altro, la battaglia per il superamento del trauma coloniale assume le forme della guerra alla memoria e alle identità. L’assurda riapertura del dibattito sulla nazione algerina in epoca precoloniale s’inserisce lungo tale scia e non fa che inacidire e distrarre il dibattito pubblico sulla colonizzazione, trasformando la materia viva delle memorie private e collettive in un orpello della politica di modernizzazione neoliberale del paese, per cui il passato non è che zavorra di cui liberarsi in fretta. Le forme di rimozione e di coazione a ripetere tramite le quali le frasi di Emmanuel Macron si esplicitano potrebbero suonare come un’espressione sfortunata, o come un semplice anacronismo. Non è così. Dietro di esse, l’ospite inquietante, il processo epigenetico di fabbricazione della retorica coloniale, continua a insistere sul presente, nelle forme di un grottesco processo di ripetizione di una storia che stenta, ancora oggi, ad affermarsi in quanto tale.
*Nicola Lamri è dottorando in storia contemporanea all’Université Polutechnique Hauts-de-France.
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