In Francia arrivano i gilets noirs
L'economia di Parigi si fonda su un esercito di migranti senza documenti. Questi lavoratori e lavoratrici hanno iniziato a mobilitarsi ispirandosi ai gilet gialli, pungolando anche i tradizionali movimenti dei sans papiers
Il 12 luglio, a Parigi, un collettivo di migranti senza documenti (chiamati normalmente con il termine francese sans-papiers) ha occupato il Panthéon, mausoleo e famoso sito turistico del Quartiere Latino. Il movimento si è dato il nome di gilet noirs, gilet neri, e nelle ultime settimane ha occupato diversi luoghi di alto profilo, tra cui anche un’ala dell’aeroporto Charles de Gaulle, il principale delle capitale. Le proteste hanno il merito di aver acceso di nuovo i riflettori sui problemi dei sans papiers in Francia, ma anche sui danni causati dall’ingerenza commerciale e militare francese nelle loro terre d’origine, per lo più africane. In questo articolo uscito su Mediapart, Mathilde Mathieu e Rouguyata Sall spiegano come i migranti, solitamente ridotti all’invisibilità sociale, abbiano cominciato a far sentire la loro voce.
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Dopo l’occupazione del Pantheon la polizia li ha immobilizzati e, in certi casi, calpestati. Ad alcuni è stato notificato l’obbligo di «lasciare il territorio francese», quindici sono stati arrestati in attesa di espulsione. Ma tutto questo non è bastato.
Per il nuovo movimento dei sans-papiers, nato a novembre per chiedere una regolarizzazione di massa e a lungo ignorato dai media, quella del 12 luglio 2019 rappresenta «una vittoria».
Sul piano giuridico, innanzitutto, perché i quindici fermati sono stati tutti rilasciati successivamente su indicazione del giudice, con l’aiuto di un pool di avvocati antirepressione (uno dei fermati ha ricevuto un’ammonizione per «oltraggio»).
Ma la vittoria è soprattutto sul piano politico, visto che le lotte dei lavoratori senza documenti sono state invisibili per anni e il dibattito pubblico si è concentrato esclusivamente sulla questione dei rifugiati: su chi ha diritto all’asilo e chi, invece, sarebbe «destinato a tornare in aereo», per usare l’espressione eufemistica del ministro dell’Interno francese Christophe Castaner.
Dopo il Panthéon i gilets noirs hanno preso coraggio («sono loro ad avere paura, adesso»), sono in centinaia e non accettano di parlare con altri che con il primo ministro Edouard Philippe, rifiutando «Castaner [attuale ministro dell’Interno, ndt] e le sue prefetture».
Il premier francese non ha potuto non reagire di fronte alle immagini dell’occupazione (pacifica) e, soprattutto, alla radicalità dei discorsi pronunciati nel luogo che ospita la tomba di Victor Hugo e Voltaire: «La Francia continua la schiavitù in altro modo», scandivano al microfono gli occupanti.
Sull’onda dell’entusiasmo i gilets noirs hanno anche annunciato nuove azioni: «Siamo pronti alla disobbedienza civile», dice Houssam, membro attivo del movimento.
Chi sono i gilets noirs?
Quali sono i loro obiettivi? Perché emergono proprio ora? In che misura questo movimento dà una scossa ai collettivi tradizionali di sans-papier? È interessante analizzarlo nel giorno in cui i gilets noirs hanno aderito alla marcia dei gilets jaunes contro la violenza della polizia (sabato 20 luglio), organizzata a Beaumont-sur-Oise in memoria di Adama Traoré (morto nella gendarmeria della città nel 2016).
«Non stiamo lottando solo per i documenti, ma contro l’intero sistema che produce migranti senza documenti», i loro obiettivi si possono riassumere con questa frase. «Vogliamo distruggere tutti gli attori del sistema razzista, o almeno affrontarli», aggiunge Houssam. Con un livello di assunzione di rischio che si è visto di rado negli ultimi anni.
«Abbiamo già vissuto l’inferno del Sahara e della Libia», spiega Camara, referente del movimento, dal suo alloggio popolare nel 19° arrondissement di Parigi. «Per questo non ci arrenderemo». Maliano arrivato in Francia a settembre del 2018, Camara lavora nei cantieri: «I datori di lavoro ci pagano 50 euro al giorno, se ne approfittano. E se chiedi il modulo per la richiesta di regolarizzazione per lavoro ti licenziano e prendono qualcun altro al posto tuo».
Tra i gilets noirs, Camara non è l’unico a portare i segni della detenzione nel paese che fu di Gheddafi, dove quasi tutti i migranti vengono incarcerati e molti vengono comprati dalle mafie, torturati o schiavizzati. Non è l’unico a essere sopravvissuto al naufragio di un barcone malmesso abbandonato in mezzo al Mediterraneo. Come lui tanti altri, che l’amministrazione francese si sforza di distinguere tra cosiddetti «migranti economici» e potenziali rifugiati, ma che quando sono in mezzo al mare mostrano tutti un solo e medesimo volto: quello del terrore. E dopo aver subito tutto questo, arrivi in Francia e sei costretto ad aspettare, a nasconderti o a sperare che il datore di lavoro ti faccia un contratto…
«Basta paura. Non arriveremo da nessuna parte senza correre rischi», dice convinto Mamadou, ventunenne maliano arrivato in Francia nel 2016 passando per Libia e Italia. Il 12 luglio è stato arrestato durante l’azione al Panthéon di Parigi e da allora su di lui grava il provvedimento di «obbligo di lasciare il territorio» (è il primo che riceve in Francia). Sul momento era stato inviato al centro di detenzione amministrativa (Cra) di Vincennes, ma poi il giudice ha disposto il rilascio degli arrestati.
«Parteciperò anche alla prossima azione», giura. «I diritti non si ottengono restando a casa». Andrà con lui anche suo fratello maggiore, Samba, che lavora nel settore edile: «Oggi i lavoratori dei cantieri, dei ristoranti o delle imprese di pulizia sono tutti sans-papiers. Il governo ci deve ascoltare, siamo diventati un simbolo più grande del Panthéon».
Anche Kaba ha rischiato molto il 12 luglio. Ha 24 anni, viene dalla Mauritania e spiega di essere fuggita dagli abusi e da un matrimonio forzato. È arrivata in Francia meno di due anni fa e la sua domanda d’asilo è stata respinta dall’Ofpra (l’ufficio francese che sancisce il riconoscimento dello status di rifugiato) e successivamente, in appello, anche dal Tribunale nazionale del diritto d’asilo francese. Se venisse fermata, un prefetto potrebbe decidere il suo «allontanamento forzato» (eufemismo amministrativo) nel giro di due ore.
Riuscendo a non farsi arrestare, Kaba ha già partecipato a diverse azioni dei gilets noirs. A quella all’aeroporto di Roissy-Charles-de-Gaulle il 19 maggio contro l’amministratore delegato di Air France accusato di essere il «deportatore ufficiale dello Stato francese». A quella del 12 giugno sotto la sede del gruppo Elior, multinazionale del catering nota per assumere lavoratori senza documenti (i quali, secondo un rappresentante della società, inizialmente forniscono un «alias», cioè danno i documenti di una terza persona in situazione regolare).
Stavolta, davanti al Panthéon, «la polizia mi ha chiesto i documenti, ho detto che non li avevo». Un’ora e mezzo dopo usciva dalla stazione di polizia dove l’avevano portata da cittadina libera e senza «obbligo di lasciare il territorio»: «siamo nel regno dell’arbitrio assoluto», commentano i suoi compagni di lotta.
«Grazie ai gilets noirs ho trovato lavoro», continua Kaba: ogni giorno dalle 5:30 alle 8:30 pulisce i cestini della spazzatura negli uffici e nel pomeriggio va a fare le pulizie in una profumeria, per un totale variabile tra 500 e 700 euro al mese. Perché ricorrere ad azioni di forza? «Non abbiamo altra scelta».
Alcuni gilets noirs dormono per strada. Questa è una delle caratteristiche più originali del movimento: mentre le altre lotte dei lavoratori sans-papiers sono state tradizionalmente condotte da africani occidentali (maliani, mauritani, senegalesi…), con alle spalle molti anni di permanenza in Francia e reti di solidarietà sviluppate, il movimento dei gilets noirs include anche immigrati sudanesi, eritrei o afghani, a cui è stato appena negato l’asilo oppure «dublinati» (cioè a rischio di essere trasferiti nel primo paese europeo in cui sono state registrate le loro impronte digitali, conformemente al cosiddetto «regolamento di Dublino»).
«Tra i gilets noirs c’è gente appena arrivata, che ancora sta cercando un posto dove appoggiare la valigia», conferma Anzoumane Sissoko, portavoce del Csp 75, uno dei primi collettivi di sans-papiers di Parigi. «L’unica soluzione per loro è sperare di trovare un lavoro regolare». Anzoumane lotta per il suo status «da 18 anni» e sostiene i gilets noirs «a titolo personale»: «Oggi sono 700, unendosi con gli altri collettivi e sindacati potremmo essere 2.000…».
In effetti, dietro il movimento ci sono soltanto due organizzazioni. La principale è La Chapelle debout, rete fondata nel 2015 nell’omonimo quartiere del nord di Parigi per aiutare i migranti che vivono per strada. Accanto a questa c’è l’associazione Droits devant!!, fondata nell’anno dell’occupazione della chiesa di Saint-Bernard (1995) da personalità come il biologo e attivista per i diritti civili Albert Jacquard.
Le due organizzazioni hanno operato da sole, senza passare dai collettivi tradizionali di migranti irregolari, indeboliti da anni di divisioni e faide interne, né dai sindacati impegnati nel settore. Sono andate direttamente alla fonte mobilitando i lavoratori casa per casa (sono già presenti in una quarantina di residenze popolari).
«Abbiamo voluto fare un passo di lato rispetto ai collettivi che dormono (come l’Unione nazionale dei sans-papiers, Unsp) o si sono normalizzati, che si accontentano di trattare nei corridoi delle prefetture per mettere questo o quel dossier in cima alla lista e hanno perso totalmente di vista l’obiettivo della regolarizzazione globale», dice Jean-Claude Amara, figura storica di Droits devant!! (e co-fondatore dell’associazione sorella Droit au logement, per il diritto alla casa). «Con loro non c’era modo di andare avanti».
«Razzismo di stato»
«Vogliamo rompere la gabbia dei criteri della circolare Valls del 2012» [che ha limitato la regolarizzazione a motivi di lavoro o familiari, ndr], afferma un membro di Chapelle debout.
Dopo un’azione davanti alla Comédie française (una delle prime del movimento), a gennaio scorso una delegazione di gilets noirs era andata alla prefettura di Parigi mettendo sul tavolo una regolarizzazione. Ma da allora hanno voluto abbandonare la logica del «caso specifico».
Sul fronte degli attori del movimento sans-papiers tradizionale qualcuno storce il naso. «In realtà avevamo cominciato ad avviare una dinamica unitaria in piena regola….», precisa uno di loro, che chiede di rimanere anonimo. «In autunno i vari collettivi e le organizzazioni sindacali hanno cominciato a lavorare a un avvicinamento, iniziando a pianificare azioni comuni sulla scia della mobilitazione contro la legge repressiva su asilo e immigrazione voluta dall’ex ministro dell’interno Gérard Collomb (promulgata a settembre) e della campagna di contrasto alla propaganda della destra ed estrema destra sul cosiddetto «Patto di Marrakech» (dicembre), ma anche sull’onda della mobilitazione dei gilets jaunes.
«Abbiamo partecipato a qualche riunione», ammette Jean-Claude Amara di Droits devant!!. «Sembrava che ci fosse una volontà generale di uscire dalla logica delle piccole manifestazioni che ormai non smuovono più nessuno… Ma alla fine non si è andati oltre questo».
«Fare le cose separati è un peccato», dice Alioune Traoré, delegato di Unsp. «Dopo gli arresti noi li stiamo sostenendo e cerchiamo di fare le cose insieme, ma c’è una divergenza con La Chapelle debout: per me è sbagliato dire che c’è speranza di regolarizzazione o di alloggio per tutti. La gente si unisce a loro con questa speranza, ma la verità è che la maggior parte dei gilets noirs non soddisfa i criteri. Anche noi a livello di slogan chiediamo libertà di circolazione e di insediamento per tutti. Ma poi in concreto non vai a portare in prefettura persone che non hanno maturato i termini di permanenza minima [richiesti, ndr]. Parlo a titolo personale, ma penso che questa sia una forma di manipolazione».
Alioune Traoré è critico anche rispetto alla scelta del Panthéon: «Un cimitero è un luogo sacro. Anche le chiese lo sono. È vero che ormai dall’occupazione di Saint-Bernard in poi la gente si è abituata, ma è anche vero che quando siamo entrati nella Basilica di Saint-Denis, nel 2018 [per protestare contro la legge Collomb, ndr], Marine Le Pen ha parlato di “profanazione”. Dobbiamo cercare altri luoghi che non offrano sponde all’estrema destra o al governo». Non è il solo a temere che l’occupazione del 12 luglio finisca per dare un’arma in più all’esecutivo per aumentare il livello di repressione per tutti. Questione di strategia, insomma.
«I rischi dell’azione al Panthéon erano troppo grandi, c’era un lato kamikaze», confida un militante abituale delle lotte dei sans-papiers. «E anche per l’opinione pubblica, nel contesto attuale, penso che sia meglio trovare obiettivi che mettano in evidenza ciò che unisce, come il lavoro, la scuola, ecc., non ciò che divide».
Sulla questione dei rischi che hanno corso i gilets noirs nel Panthéon, un membro di La Chapelle debout risponde così: «Alcuni migranti si sono assunti dei rischi, è vero, ma non siamo stati noi a imporglieli: si discute sempre collettivamente delle azioni. Inoltre, la violenza della polizia è un evento quotidiano per molti di loro: possono essere arrestati in qualsiasi momento. Sono molte di più le persone portate nei centri di detenzione ogni giorno di quelle che intraprendono azioni politiche. E poi mettiamo in pratica le tecniche “antirepressione”: ai militanti vengono dati in anticipo nomi e numeri degli avvocati di movimento, che li difendono sicuramente meglio degli avvocati d’ufficio!».
La cosa più importante, dice Houssam, membro di La chapelle debout e «figlio di un immigrato», è smettere di pensare ai migranti come «soggetti fragili». «L’obiettivo è proprio prendere parola in quanto soggetti politici». E ricorda che lo stereotipo della «strumentalizzazione» dei migranti è un argomento tipico della destra (anche se il Ministro dell’Interno Bernard Cazeneuve ne ha attinto in occasione della crisi di Calais). «È preoccupante vedere argomentazioni come questa farsi strada anche a sinistra».
«Dobbiamo portare una volta per tutte la lotta dei sans-papiers al di là del semplice braccio di ferro con il Ministero degli Interni», sostiene Jean-Claude Amara. «Altrimenti il rischio è rimanere nel quadro della gestione coloniale». Termine non scelto a caso.
La dimensione decoloniale della lotta mette a disagio chi, a sinistra, si richiama all’universalismo e critica la stessa scelta del nome «gilets noirs» che, più che come riferimento alla «rabbia nera» dei sans-papiers esausti della loro condizione, vede l’aggettivo come un richiamo al colore della pelle. La situazione è diventata ancora più imbarazzante quando, a giugno, il Partito degli «Indigeni della Repubblica» (Les indigènes de la République, Pir) ha firmato una petizione del movimento.
«C’è stata una levata di scudi, concentrata contro alcune associazioni», commenta Jean-Claude Amara, peraltro laico rispetto alla scelta del nome («forse non è il marchio più adatto se vogliamo allargare i ranghi»). «Ma non ci siamo arresi. Anche se noi di Droits devant!! non siamo completamente d’accordo con i compagni del Pir, non vogliamo cedere al ricatto di chi dice “Se firmano loro, noi non firmiamo”. Questo atteggiamento è lo specchio del fallimento del movimento dei sans-papiers degli ultimi anni: hanno dimenticato che la nostra battaglia fa parte della lotta anticolonialista e antirazzista».
«C’è chi pensa di squalificarci attribuendoci l’etichetta di “decoloniali”?», si chiede Houssam. «Non ci riguarda. Dopodiché, se la domanda è se riteniamo che i migranti siano vittime di razzismo di Stato, la risposta è sì».
Tra i militanti di un sindacato c’è chi si domanda se «l’obiettivo primario è dimostrare che lo Stato è razzista oppure lottare per ottenere diritti. È ancora lecito trattare con un soggetto giudicato razzista?». A sentire questi ragionamenti è chiaro che i gilets noirs non riusciranno ad attrarre molti attivisti sindacali nei prossimi mesi. Non è chiaro, invece, se questo rientri o meno nei loro obiettivi.
* Mathilde Mathieu e Rouguyata Sall sono collaboratori del giornale francese Medapart. Questoarticolo è uscito su Jacobin Mag e originariamente su Mediapart.fr. La traduzione è di Riccardo Antoniucci.
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