In Libano torna la schiavitù
Indebolito dalla crisi politica ed economica che lo affligge dal 2019, il paese dei cedri fa i conti con la pratica della schiavitù moderna
È giovedì 10 febbraio. Davanti al palazzo di giustizia di Baabda, a Beirut, solo un piccolo assembramento di manifestanti: troppo pochi dinanzi a un caso inedito che dovrebbe sollevare più voci. Per la prima volta una domestica immigrata ha fatto causa sia al suo datore di lavoro sia all’agenzia che l’ha reclutata per «schiavitù, tratta di schiavi, discriminazione razziale e di genere».
La querelante, rappresentata nel processo dall’Ong Legal Action Worldwide (Law), aspetta da un’ora l’accusata, che non si era presentata alla prima udienza, il 19 ottobre 2021, provocando così un primo rinvio del processo.
Quando finalmente l’udienza ha inizio, succede ben poco. Appena quindici minuti dopo l’accusata lascia la sala: è venuta senza avvocato e chiesto un rinvio supplementare per preparare la difesa, con la scusa pretestuosa d’aver ricevuto il giorno stesso il testo della denuncia. Il giudice le ha accordato ancora un mese, spiega Georges Tahan, avvocato della querelante, modo spesso usato per guadagnare tempo. L’accusata esce col volto nascosto, chiedendo di non essere fotografata, né filmata. Rifiuta di fare commenti su quanto accaduto: ha tenuto la vittima per sette anni rinchiusa in casa, senza salario.
Il caso
Il caso di M.H. è stato aperto l’8 ottobre 2020, dopo che il dossier era arrivato nelle mani di Law grazie a degli attivisti. «Se gli accusati sono incolpati, possono incorrere fino a 15 anni di prigione», spiega Fatima Schéhadé, direttrice del programma di Law, sulle pagine del quotidiano libanese L’Orient le jour, citando l’articolo 584 del codice penale libanese sul traffico degli esseri umani. È la prima volta che una tale accusa è sporta in Libano e, in generale, in Medio Oriente.
Secondo le informazioni riportate sul sito ThisIsLebanon, M.S. avrebbe 49 anni, sarebbe divorziata, madre di tre figli. Tra il 2011 e il 2019 avrebbe impiegato M. H., che oggi ha quarant’anni, conformemente al sistema della kafala usato in Libano per impiegare domestici immigrati che vengono dall’Africa e dall’Asia del Sud. Quando M.H. è arrivata con la speranza di avere un lavoro che avrebbe potuto aiutare la sua famiglia in Etiopia, si è trovata a far fronte a una realtà ben diversa da quella descritta dall’agenzia che l’aveva reclutata. Secondo la versione resa pubblica da Law, la donna sarebbe stata rinchiusa nell’appartamento per più di sette anni, sottoposta ad abusi fisici e verbali, senza poter comunicare con la sua famiglia in Etiopia e, in generale, col mondo esterno. La vittima si sarebbe ritrovata a vivere all’interno di una piccola camera, lavorando per più di quindici ore al giorno, senza mai avere ferie. I suoi documenti personali le sarebbero stati confiscati, non avrebbe mai ricevuto il compenso dovuto.
La famiglia di M.H. non ha smesso di cercarla, passando per gruppi WhatsApp di lavoratori domestici stranieri in Libano. In tal modo l’affare è diventato pubblico e, nel 2019, M.H. è riuscita a rientrare in Etiopia, dove da allora riceve un sostegno psicologico.
La Kafala
L’agenzia di reclutamento di M.H. non si è presentata alla corte. Benché l’avvocato di Law abbia domandato un mandato di arresto con l’accusa di tratta di schiavi, il giudice non ha potuto emetterlo poiché l’identità della persona è al momento sconosciuta.
Questo tipo di agenzie sono molto comuni e permettono di convogliare manodopera straniera a basso costo con l’avallo dello stato. I benefici di tale tratta si stimano di almeno 100 milioni di dollari all’anno. Se molti stranieri sono impiegati in tal modo nel settore delle costruzioni, la maggioranza è rappresentata da donne che vengono a lavorare come domestiche.
Le agenzie di reclutamento fanno da intermediario tra il datore di lavoro, lo stato libanese e la persona impiegata. Al datore di lavoro, chiedono circa 2.000 dollari. In cambio, si occupano delle formalità (passaporto, permesso di soggiorno, viaggio). I domestici vivono nell’alloggio del datore di lavoro e ricevono compensi che variano in funzione del paese di provenienza, aggirandosi tra i 100 e i 300 dollari al mese. Le africane sono le più economiche, mentre le filippine le più care.
Una volta arrivate, queste migranti rischiano però di ritrovarsi nella trappola della kafala. Alla base, si tratta di una procedura di adozione specifica al diritto mussulmano che corrisponde alla tutela senza filiazione. In pratica, è un sistema di sponsorizzazione tra domestiche e famiglie libanesi. Trovandosi al di fuori del campo di applicazione del diritto del lavoro libanese, questo accordo lascia le migranti in balia dei loro datori di lavoro. Si tratta di una pratica molto estesa, che confina con una forma di schiavitù contemporanea.
Da anni un gran numero di Ong si battono nella regione contro le condizioni di lavoro dei migranti. Le domestiche spesso devono sopportare aggressioni fisiche e verbali. Alcune non hanno una stanza, dormono sul balcone o in cucina. Per di più, da quando, nell’ottobre del 2019, è scoppiata la crisi economica, le loro condizioni di vita e di lavoro si sono notevolmente degradate. Un salario mensile di 300.000 lire libanesi, che prima della crisi corrispondeva a 200 dollari, oggi ne vale meno di 15. Per le domestiche freelance, che vanno da una casa all’altra accumulando i lavori, il salario medio, che prima era di 7.500 lire l’ora, è passato dall’equivalente di 4,6 dollari a 0,35 dollari. La situazione ha portato a un aumento delle violenze. Molti datori di lavoro hanno cacciato le lavoratrici straniere poiché non erano più in grado di pagarle, lasciandole con la loro valigia davanti al consolato d’Etiopia (l’80% delle domestiche in Libano sono di origine etiope). Per la prima volta, ambasciate e consolati dei paesi interessati sono stati costretti a organizzare, per via della pressione mediatica, dei viaggi di ripatrio dei loro cittadini immigrati. Secondo le cifre del ministero del lavoro libanese, il numero delle domestiche straniere che hanno un permesso di lavoro è passato da 184.196 nel 2019 a 65.821 nel 2021.
Schiavitù moderna
Quello della schiavitù moderna è lungi dall’essere un problema libanese. Si tratta di un argomento che sembra appartenere al passato, e invece ha molto futuro dinanzi a sé. La tratta degli esseri umani è un fenomeno che si sta aggravando per via della vulnerabilità delle popolazioni dovuta ai flussi migratori. Le statistiche su questo argomento sono difficili da ottenere, ma qualche numero si trova. Secondo l’Ufficio delle Nazioni unite contro la droga e il crimine, la tratta degli esseri umani rappresenta un mercato da 32 miliardi di dollari all’anno, di cui 3 miliardi provengono dall’Europa. L’Organizzazione internazionale del lavoro afferma che 25 milioni d’individui nel mondo fanno lavori contro la propria volontà, sono minacciati fisicamente, privati della propria libertà.
Eppure la presa di coscienza di questa realtà è più lenta di quanto dovrebbe. Fino alla Convenzione di Palermo del 2000, nessuna norma delle Nazioni Unite era stata proposta per la lotta internazionale contro il traffico di esseri umani. In Europa, bisogna attendere il 2011 per vedere introdotte delle direttive comunitarie che impongono delle pene minime. Per quanto riguarda l’Italia, il sito The Global Slavery Index stima che nel 2016, ogni giorno c’erano 145.000 persone che vivevano in condizioni di moderna schiavitù, con una media di 2,4 vittime ogni mille abitanti.
Se in questi ultimi anni, Francia e Gran Bretagna hanno dato prova di sensibilità al problema grazie anche al Modern Slavery Act, non è così altrove. Come appena visto, in Medio Oriente persiste il sistema della kafala. E solo in questi giorni si sta assistendo a un primo processo, cercando di rompere il tabù di una pratica di abuso sui lavoratori immigrati, troppo spesso trattati come schiavi contemporanei.
*Paulina Spiechowicz, scrittrice e ricercatrice universitaria, è nata in Polonia e cresciuta in Italia. Vive tra Parigi e Beirut, dove insegna storia dell’arte
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