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In Sudan e Algeria tornano le rivoluzioni arabe

Gilbert Achcar 16 Aprile 2019

Il popolo sudanese ha appena rovesciato il vecchio leader autocratico Omar al-Bashir. Insieme alla rivolta algerina, è la conferma che il processo rivoluzionario delle primavere arabe non si è ancora spento

Il 17 dicembre del 2010 il sacrificio di un giovane venditore ambulante nella Tunisia Centrale ha dato il via a un’ondata rivoluzionaria propagatasi in tutta la regione. Otto anni dopo, il 19 dicembre del 2018, l’adozione delle misure di austerity prescritte dal Fondo Monetario Internazionale da parte del governo sudanese ha suscitato una nuova ondata di proteste. E due mesi dopo lo scoppio della rivolta sudanese la popolazione algerina ha cominciato la propria rivolta, facendo quadrato contro l’arrogante regime militare pronto a rinnovare il mandato presidenziale del malato e a malapena in grado di operare Abdelaziz Bouteflika.

Le due rivolte, sebbene ancora non paragonabili con le proteste del 2011, rendono la situazione regionale sempre più simile a una riedizione della primavera araba. Soprattutto, l’esplosione di un nuovo fermento rivoluzionario – a seguito del riflusso iniziato nel 2013 e ancora presente in paesi come la Siria, l’Egitto, la Libia e lo Yemen – è una conferma importante che le proteste del 2011 non erano soltanto una «primavera», nel senso di una breve e tranquilla fase di democratizzazione politica. Rappresentavano invece la fase iniziale di un processo rivoluzionario di lungo corso, prodotto da una crisi strutturale legata alla natura sociale e politica dei regimi della regione. In realtà, anche nella fase di reazione e restaurazione che ha colpito la regione sin dal 2013, il fermento non è mai del tutto scomparso: esplosioni locali di rabbia sociale si sono verificati in diverse nazioni del mondo arabo, come l’Iraq, la Giordania, la Tunisia e il Marocco. Anche l’Iran, pur non essendo una nazione di lingua araba e presentando una situazione statale del tutto particolare, ha iniziato a mostrare segni di cedimento.

L’annuncio della giunta militare sudanese di aver fatto cadere giovedì 11 aprile il leader del paese, Omar al-Bashir, e di voler tenere il potere per altri due anni prima di consegnarlo a un governo eletto, ha immediatamente conferito alla situazione un’aria di déja vu. Assomiglia all’annuncio della giunta militare egiziana dell’11 febbraio del 2011, quando fu dichiarata la destituzione di Hosni Mubarak e la creazione di un potere esecutivo in un regime di transizione. Ci sono due importanti differenze, tuttavia, tra il Sudan e l’Egitto – differenze che contribuiranno al risultato delle proteste sudanesi.

La prima riguarda i Fratelli Musulmani e l’esercito. Nelle nazioni chiave della primavera araba, la corrente più influente e potente dell’opposizione sono stati i Fratelli Musulmani. Anche quando il gruppo non ha dato il via alle rivolte popolari – limitandosi a cogliere l’attimo e seguire la moda una volta partite – i Fratelli Musulmani sono sempre riusciti a mettere in minoranza i veri promotori delle proteste, una coalizione messa insieme alla buona di militanti di sinistra e gruppi liberali che andavano dalle organizzazioni politiche e sociali alle reti giovanili connesse grazie ai social. In Egitto, i Fratelli Musulmani sono stati strumentali a propagandare illusioni positive sulla giunta militare nella prima metà del 2011. Si aspettavano che i militari li portassero al potere come alleati.

Ma sappiamo come è andata a finire. L’esercito ha sfruttato come pretesto il disincanto di massa innescato da Mohamed Morsi, il presidente eletto dai Fratelli Musulmani, in modo da poterlo deporre e insediarne uno di suo gradimento, il feldmaresciallo Abdel-Fattah al-Sisi. I Fratelli Musulmani nel 2011 non speravano in cose campate in aria, ma nella riproduzione di un modello che aveva già avuto successo a sud del confine, nel vicino Sudan, governato sin dal 1989 dal feldmaresciallo Omar al-Bashir in collaborazione con i Fratelli Musulmani locali.

Al-Bashir era un «Morsisi» – combinava le caratteristiche di una dittatura militare e di un regime guidato dai Fratelli Musulmani. Nelle ultime settimane, questa sua peculiarità ha condotto al niente affatto sorprendente spettacolo dei nemici regionali che sono corsi in suo aiuto: la dittatura anti-Fratelli Musulmani di Sisi in Egitto, il regime pro-Fratelli Musulmani anti-militare di Erdogan in Turchia, il regno saudita anti-Fratelli Musulmani e gli Emirati Arabi; l’emirato del Qatar, sponsor dei Fratelli.

Questa differenza cruciale tra il caso egiziano e quello sudanese è legata a una seconda differenza: i Fratelli Musulmani sudanesi non sono più in grado di alimentare illusioni sulla giunta militare della nazione. E la popolazione sudanese è meno propensa a essere imbrogliata rispetto a quella egiziana: sanno bene che l’esercito è stato la spina dorsale del governo di al-Bashir. In realtà, ci sono molti segnali che ciò che ha portato il regime di al-Bashir a eliminare la propria dirigenza è la paura dei generali di un contagio rivoluzionario, iniziato a manifestarsi tra le truppe negli ultimi giorni, con i soldati che si univano ai manifestanti per difenderli dalla feccia del regime e da altri corpi repressivi.

Per adesso, la situazione in Sudan resta aperta, ed è impossibile prevederne l’esito. Ma non sarà una riedizione dello scenario egiziano che ha portato Sisi al potere, o almeno non con il consenso del popolo. In Sudan, così come in Algeria – e in maniera simile in altre nazioni della regione – il destino del processo rivoluzionario dipenderà dall’emergere di una leadership progressista capace di guidare il movimento di massa tra le terribili forze regionali controrivoluzionarie (i vecchi regimi e i loro contendenti o alleati fondamentalisti islamici), verso una radicale democratizzazione sociale e politica. Non c’è altro modo per uscire dalla destabilizzazione che sta scuotendo la regione sin dal 2011.

*Gilbert Achcar è professore al Soas, University of London. I suoi libri più recenti sono Marxism, Orientalism, Cosmopolitanism (2013), The People Want: A Radical Exploration of the Arab Uprising (2013), e Morbid Symptoms: Relapse in the Arab Uprising (2016). In lingua italiana c’è Scontro tra barbarie (Alegre, 2006). Questo articolo è uscito su jacobinmag.com. La traduzione è di Gaia Benzi.

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