Internazionalizzare il 25 aprile
Nel clima tossico di questi mesi a trazione postfascista, la vittima sacrificale delle sgangherate uscite nazionaliste e revisioniste dei più alti vertici delle istituzioni repubblicane è la storia. E va difesa, contrattaccando
Fosdinovo, domenica 16 aprile 2023. Centoventi persone affollano il parco del Museo Audiovisivo della Resistenza: l’incontro, organizzato da una rete di dieci realtà nella sede di Archivi della Resistenza, è intitolato significativamente Fascismo, Resistenza e Fact Checking: la storia alla prova dei fatti. È il cardine intorno al quale orbita la variante lunigianese del Festival Fact Checking in Tour, inaugurato lo scorso anno dalla libreria indipendente Lo Spazio di Pistoia e dall’Istituto storico della Resistenza locale, e tracimato nel 2023 nell’alta Toscana e nella bassa Liguria. Oltre trenta tra enti e associazioni, luoghi della memoria, istituti e musei, e decine di attivisti e attiviste coinvolti nella progettazione hanno permesso che si concretizzasse questa iniziativa di collaborazione orizzontale tra librerie indipendenti – altra capofila: la libreria Nina di Pietrasanta – e realtà che, in misura diversa, hanno in comune la centralità data alla storia del Novecento e alla «partita» della memoria pubblica. Oltre mille persone, a cui va sommato circa il doppio di studenti e studentesse della dozzina di scuole coinvolte nel progetto, hanno seguito i venti eventi dislocati su 215 chilometri tra Siena e La Spezia, su quella fascia di territorio con una radicata memoria resistenziale. Il pensiero corre naturalmente al Festival di Letteratura Working Class, andato in scena a Campi Bisenzio un paio di settimane prima grazie a oltre 300 sostenitori e sostenitrici, e alle sue tremila persone presenti, che hanno discusso di letteratura nel presidio di una fabbrica insieme a centinaia tra operai, operaie e solidali; a quella «fabbrica delle storie» di cui hanno scritto qui Giulio Calella e Alberto Prunetti.
Foibizzare la storia
Queste due esperienze hanno in comune la capacità di costruire eventi culturali collettivi con una forte dimensione militante. E, tornando alla storia, è evidente che il contesto sia divenuto asfissiante. Siamo infatti alla vigilia ideale della prima Festa della Liberazione con i postfascisti al governo, nella quale la narrative neo e postfascista – anche grazie a inquietanti complicità – si è andata letteralmente a sedere sugli scranni del potere.
Non trascorre ormai giorno in cui non si assista a sgangherate uscite revisioniste e nazionaliste da parte della presidenza del Consiglio, del Senato o di ministri della Repubblica in cui la storia viene manipolata, distorta e violentata a uso e consumo di un revanscismo del partito soi-disant «underdog», e non solo. Basti pensare al recente delirio suprematista di Francesco Lollobrigida, di norma dimenticato dalle cronache per essere stato padrino dell’intitolazione di quel mausoleo alla crudeltà (si indignò persino il Corriere della Sera) che, secondo la Corte di Cassazione, non sarebbe apologia di fascismo. Sta di fatto che il più feroce e impunito criminale di guerra della storia italiana, soprannominato «il macellaio degli arabi» o il «macellaio del Fezzan», per Lollobrigida è un modello: «l’affetto per il generale Rodolfo Graziani è sempre stato un punto di riferimento», dichiarò nel 2012. Esito paradossale di questa offensiva di lunga durata – si parta pure dall’Msi: leggete il giacobino David Broder – volta alla conquista manu militari dell’egemonia culturale e delle sue poltrone anche sul piano della storia e della memoria pubblica è la «foibizzazione» del discorso sulla Resistenza.
Se nel celebre discorso fiume alla Camera del 25 ottobre già da me ripreso su Jacobin Italia, a tre giorni dal centenario della Marcia su Roma, abbiamo sentito Giorgia Meloni citare l’antifascismo [militante] solo come fenomeno che si muoveva – «negli anni più bui della criminalizzazione [sic] e della violenza politica» – «a colpi di chiave inglese», in occasione dell’anniversario della strage delle Fosse Ardeatine, ancor prima che Ignazio Benito Maria La Russa sputasse metaforicamente sul sangue delle 335 vittime irridendo il legittimo atto di guerra di via Rasella, la/il presidente è arrivata persino oltre, se possibile. «Solo perché italiani», ha sostenuto in relazione alle 335 persone assassinate (non solo italiane, peraltro, e soprattutto in gran parte antifasciste e/o ebree) deformando con uno pseudo-patriottismo d’accatto le vere ragioni del massacro. Che l’espressione sia del tutto impropria persino per quanto riguarda il loro martirologio, e cioè che non si possa nemmeno applicare alle vittime delle foibe, è stato largamente dimostrato e ribadito dagli studiosi e dalle studiose, ed è uno degli innumerevoli sintomi di quello che Robert Belot ha definito un «pericoloso processo di ‘deconoscenza’» generalizzato che naturalmente non ha invaso solo il discorso pubblico italiano. Ma qui la violenza operata sui fatti giunge al parossismo.
Ora, mi pare che uno degli assi portanti della nostra reazione collettiva sul piano del discorso pubblico, da perseguire con convinzione, debba essere quello di internazionalizzare il discorso, allargando le falle di quello delle destre sulla storia: se è vero che il debunking non è esente da insidie, con la decostruzione può procedere di pari passo una ricostruzione e una vera e propria riscrittura della storia – in questo caso – resistenziale. Una revisione, nel senso più nobile del termine; è il sale della ricerca e di ogni disciplina, d’altronde.
La guerra civile internazionale
In Una guerra civile (1991), oltre trent’anni fa Claudio Pavone citava un opuscolo GL di Massimo Mila nel quale si definiva il conflitto in corso una guerra di religione europea e mondiale e si sosteneva: «Oggi noi, partigiani, sentiamo un fratello nel tedesco antihitleriano, un nemico mortale nell’italiano fascista». Eppure questo, e insisto, è a lungo rimasto un aspetto non indagato dalle grandi storie della Resistenza. Nonostante proprio Pavone abbia dedicato alcune pagine mirabili al tema (la citazione di Mila è non a caso all’interno del paragrafo La guerra civile europea) e Roberto Battaglia – a oggi l’unico ad averlo fatto – abbia addirittura inserito, trent’anni prima, un paragrafo intitolato «L’internazionalismo partigiano» nella riedizione della sua pietra miliare della storiografia resistenziale, nel canone continuamente aggiornato che percorre oltre sette decenni non rimangono che alcuni accenni alle «grandi speranze internazionaliste della ribellione» (come scrisse Giorgio Bocca), a quella «quarta guerra» che fu combattuta da migliaia di stranieri insieme alle tre di Pavone.
Le motivazioni patriottiche, onnipresenti nei documenti coevi, nelle lettere dei condannati a morte, nelle memorie e nelle ricostruzioni successive, hanno a lungo oscurato la forza generatrice di quel senso di riscatto trasversale e di medio periodo che non fu solo liberazione dell’occupante, ma più genericamente dall’oppressione, dalla violenza ventennale dei fascismi europei, dalla guerra ai civili, da un’ideologia di dominio che fu combattuta ovunque. Non furono casi isolati. Le due banche dati regionali del partigianato che permettono una ricognizione per provenienza e nazionalità, quella piemontese e quella ligure, censiscono quasi 70 tra nazioni di nascita e cittadinanza la prima; oltre 50 nazioni di nascita la seconda. Arrivati sostanzialmente per due canali differenti – la diserzione dalle forze armate tedesche o la prigionia in seguito alla cattura da parte dell’esercito italiano – i partigiani non nativi furono dunque parecchie migliaia; è inverosimile che fossero meno di quindici o ventimila gli stranieri nella Resistenza italiana (da tutti e cinque i continenti), in termini brutalmente numerici circa un decimo del partigianato.
A loro la nazione, a noi il mondo intero
L’articolo virale Partigiani migranti di Wu Ming 2, che fu l’embrione di molto di quanto sta accadendo su questo versante anche sul piano della ricerca, a gennaio del 2019 proponeva un censimento de La Resistenza internazionalista contro il fascismo italiano (così il sottotitolo) a partire proprio da un vespaio mediatico scatenatosi grazie alla denuncia di una realtà fortemente radicata sul territorio, Anpi Brescia, e dall’«ennesimo tentativo di ridurre la Resistenza italiana a un movimento patriottico, bianco e nazionalista». D’altra parte proprio negli ultimi anni si sono incrementati notevolmente gli studi sulla resistenza transnazionale, su quei Fighters across frontiers che a partire dal 1936 in Europa hanno dato battaglia ai fascismi dove si trovarono, come poterono, tedeschi compresi, naturalmente. Come sottolinea Eric Gobetti, i 30.000 partigiani italiani in Jugoslavia, 20.000 dei quali in Montenegro, anche quantitativamente mettono in seria discussione la nostra percezione della Resistenza italiana come qualcosa che si sviluppa semplicemente sul suolo «nazionale». Fu un volontarismo, quello resistenziale, che coinvolse una nutritissima minoranza: nella stagione delle scelte qui deflagrata a settembre del 1943 centinaia, poi migliaia, poi decine di migliaia e infine centinaia di migliaia di giovani – sostenuti e sostenute convintamente o in maniera oscillante da milioni di italiane e italiani nelle campagne, sui monti e nelle città – decisero di prendere le armi per rifondare radicalmente un paese, affiancati da un sorprendente numero di non nativi. Via i tricolori, dunque, una volta per tutte: è giunta l’ora.
Forse questo bisognerebbe rispondere, ai postfascisti che gettano fango sulla Resistenza in Italia, e che se ne parlano tentano di foibizzarla. Forse questo dovremmo dire loro, dai territori, in maniera coordinata e orizzontale: tenetevi la nazione, camerati, che noi abbiamo il mondo intero.
* Carlo Greppi, storico e scrittore, è curatore della serie “Fact Checking: la Storia alla prova dei fatti” di Editori Laterza, inaugurata dal suo L’antifascismo non serve più a niente (2020). I suoi ultimi saggi sono Il buon tedesco (Laterza 2021, Premio FiuggiStoria; Premio Giacomo Matteotti) e Un uomo di poche parole. Storia di Lorenzo, che salvò Primo (Laterza 2023). È inoltre autore di un manuale per il triennio della scuola secondaria superiore di secondo grado (Trame del tempo, di C. Ciccopiedi, V. Colombi, C. Greppi, M. Meotto [Laterza 2022]), del quale firma il terzo volume: Guerra e pace. Dal Novecento a oggi.
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