Interruzione volontaria di patriarcato
La manifestazione nazionale per l’aborto libero, gratuito e sicuro organizzata da Non Una di Meno ad Ancona, nel laboratorio delle politiche anti-abortiste del governo
Il 6 maggio una manifestazione nazionale per l’aborto libero, gratuito e sicuro, organizzata dalla rete transfemminista di Non Una Di Meno, attraverserà Ancona. La scelta del capoluogo marchigiano non è casuale.
Per quanto continuino le rassicurazioni governative sul mantenimento in vigore della legge 194 – che garantisce l’accesso all’aborto, pur in modo parziale e sovente lacunoso – è chiaro ed evidente che per mettere in discussione il diritto ad abortire non serve davvero modificare questa legge. È sufficiente muoversi tra i suoi rivoli, lacune, spazi grigi.
Questa tendenza emerge con evidenza a livello ragionale, in particolare nelle Marche – ma anche in moltissime altre regioni –, dove sono state introdotte politiche di drastica riduzione dell’accesso all’Ivg (interruzione volontaria di gravidanza), tolleranza dell’obiezione di coscienza di struttura, ingresso e finanziamento delle associazioni anti-abortiste nei consultori pubblici e smantellamento dei consultori stessi.
Nonostante anni di denunce, quando si prova a prenotare un’interruzione volontaria di gravidanza nelle Marche viene consigliato di spostarsi direttamente in un’altra regione. Non si tratta di un caso isolato: in Molise c’è una sola medica non obiettrice di coscienza in tutta la regione, in Abruzzo la percentuale di obiezione supera il 90%, in Campania si pratica Ivg in meno di un quarto dei reparti di ginecologia, in Calabria si può abortire in meno del 50% degli ospedali.
Oltretutto, non esiste un servizio pubblico che monitori l’obiezione nelle varie strutture, rendendo di fatto irrisorio il teorico divieto di obiezione di struttura presente nella legge 194 (art. 9). Questo tipo di mappatura è stata elaborata grazie a esperienze dal basso come quella di Obiezione respinta (Obres), che a partire dalle testimonianze, ha costruito una mappa che indica, per ogni regione, quali ospedali e consultori (ma anche, ad esempio, farmacie per la vendita della pillola del giorno dopo) rispettano correttamente la legge, garantendo il servizio di Interruzione volontaria di gravidanza.
L’importanza della narrazione
Come per ogni fenomeno di rilevante impatto sociale e politico, l’evoluzione delle pratiche prosegue insieme al cambiamento delle cornici culturali e di senso. In virtù di ciò le narrazioni, il discorso teorico, quello pubblico, sono fondamentali per radicare, da un lato, e decostruire, dall’altro, le convinzioni che strutturano l’idea diffusa che si ha dell’aborto – idea storicamente, socialmente e politicamente costruita, che risponde a una cultura patriarcale e che quasi sempre lascia fuori chi l’aborto decide di farlo.
Intorno all’Ivg si scatena, a ogni sua menzione, un dibattito che non pertiene a nessuna altra forma di pratica medica. Queste narrazioni, questi giudizi, sono pronunciati da persone che in quel momento non stanno abortendo (arrivando persino al mansplaining). Si tratta di condanne espresse sempre sul corpo altrui. Decidere se abortire o meno è una scelta che pertiene esclusivamente alla persona. Questi giudizi non sono innocui. La convinzione che l’aborto sia, nel peggiore dei casi, un omicidio e, nel migliore, qualcosa che provoca necessariamente sofferenza e senso di colpa, va a incidere sulla qualità e disponibilità dei servizi di Ivg presenti sul territorio.
È interessante tornare all’esperienza di Obres anche sotto questo punto di vista, osservando i commenti che vengono quotidianamente ricevuti sulle piattaforme social del collettivo. Anzitutto, emergono le testimonianze dirette delle difficoltà, delle violenze mediche, ostetriche e psicologiche che subiscono ogni giorno persone che desiderano accedere all’Ivg. Questi episodi di violenza non sono che la punta di una piramide e godono della protezione e dell’appoggio talvolta della legge e senz’altro della morale pubblica.
Alcuni esempi
In un post dove si riportava l’intenzione della Lega di creare il Ministero della famiglia e della natalità, un utente ha commentato: «Ci sono le cose belle e le cose brutte nella vita. Ogni embrione, ogni vita è un miracolo. Abortire solo per non avere coraggio di affrontare la vita (e quindi senza stupro, malattie, pericolo per entrambi) è da Assassine».
Che il feto sia un essere umano fin dal concepimento e che l’aborto equivalga dunque a un assassinio è una credenza personale e religiosa. Negli ospedali e nei consultori, durante le visite pre-Ivg le persone vengono frequentemente costrette ad ascoltare, senza consenso, il battito del feto (se ne possono trovare numerose testimonianze nella nostra mappa). Similmente, vengono diffuse immagini manipolatorie di feti raffigurati come bambini interamente formati. Al di là della scientificità irrisoria di questi approcci, a essere completamente declassato è il libero arbitrio della persona che decide di praticare l’interruzione di gravidanza, mentre dovrebbe essere suo diritto poter accedere alla pratica medica adatta, senza vergogna né giudizio, con la libertà di decidere sul corpo, che è suo.
La stessa retorica emerge da un post in cui si denunciava come violenza la pratica, diffusa durante il Coronavirus, di negare l’Ivg a chi fosse positivo: «Be’ anche fare a pezzi un altro essere umano nel sua [sic] forma più indifesa è violenza non trovate?».
Cercare di presentare l’aborto come un omicidio – e il feto come una persona – è una delle tattiche per negare fattualmente la possibilità di abortire. Il disegno di legge di Fratelli d’Italia proposto a gennaio mirava proprio a dichiarare che «la soggettività giuridica ha origine dal concepimento, non dalla nascita». In ciò è implicito che se riconosciamo il feto come una persona giuridica, chi abortisce è un assassino. E ancora, in un post dove si denunciava come in Umbria la giunta leghista abbia negato la sperimentazione dell’aborto farmacologico in day hospital, un utente ha commentato: «Io penso che per voi sia troppo semplicistico l’aborto, l’aborto è vita che viene fermata, come potete fare una cosa del genere… Quante persone vorrebbero un bambino, datelo in affidamento, non uccidetelo… Ed è vita già dal concepimento, perché non lo vedi vuol dire che non esiste? Esiste eccome!».
Eppure, l’aborto è un diritto. Fa parte dei servizi di cura della salute riproduttiva cui devono avere accesso tutte e tutti. La scelta se abortire o meno, se dare il neonato in adozione o meno, appartiene unicamente alla persona che si trova nella situazione di scoprire di essere incinta. Non occorre alcuna motivazione, né giustificazione. Ogni persona vive l’Interruzione di gravidanza in maniera personale.
Non sono antiabortista ma…
La questione diventa ancor più infida e ambigua per chi si dichiara favorevole all’aborto ma, al contempo, riproduce più o meno esplicitamente narrazioni stigmatizzanti nei confronti di chi sceglie di interrompere una gravidanza.
Sempre tra i commenti ai post di Obres emergono frasi come: «Nelle regioni che per davvero hanno messo in atto la 194 sono anni che la contraccezione è gratuita per tutti i ragazzi e ragazze fino al venticinquesimo anno di età. Chi è interessato deve solo andare in consultorio. Nelle regioni di sinistra come Toscana ed Emilia si lotta lo stesso per ridurre il numero di aborti… Ma lo si fa nel modo corretto ossia prevenendolii. Non impedendoli una volta che il danno è fatto».
Questo tipo di narrazione, apparentemente innocua, in realtà vede come finalità della contraccezione la prevenzione dell’aborto, quando invece il suo scopo è la prevenzione di gravidanze indesiderate. Sebbene possa sembrare una sottigliezza, nel primo caso è sotteso un discorso che contrappone contraccezione e aborto, mentre nel secondo vi è l’idea che contraccezione e aborto siano interventi sul corpo che hanno lo stesso fine, ma che si applicano in momenti diversi e hanno la stessa legittimità – la scelta ricade sempre e solo sulla persona che ha ed è quel corpo.
Considerando la contraccezione come controparte dell’aborto, si rischia di alimentare l’idea diffusa per cui, quando una persona ricorre all’Ivg, lo fa perché non ha prestato abbastanza attenzione, ha agito in maniera ingenua e irresponsabile. Si può abortire, ma se c’è la possibilità di accedere agli anticoncezionali, quell’aborto è malvisto. A questa visione giudicante, talvolta si risponde che non esiste contraccettivo efficace al 100%, ma anche questa argomentazione cela una discriminazione tra aborti accettabili – in cui il contraccettivo non ha funzionato, malgrado tutte le buone intenzioni della persona coinvolta – e aborti che non sarebbero dovuti avvenire. Nello stesso solco si colloca anche l’idea che l’aborto sia da prevenire attraverso l’educazione sessuale: «Sono d’accordo su tutta la linea [pro-scelta], mi permetto solo di aggiungere che dovremmo occuparci ancora prima di una sana educazione sessuale per le nostre figlie in primis onde evitare di dover ricorrere a rimedi estremi». Nel caso di una gravidanza che non si vuole portare avanti, non esiste un ventaglio di possibilità per interromperla, di cui l’aborto è il rimedio estremo: se una persona è incinta e non desidera esserlo, l’aborto è l’unica cosa che consente di esaudire questa richiesta. L’educazione sessuale, come la contraccezione, non è un’alternativa all’aborto, perché non risponde allo stesso problema. Educazione sessuale e contraccezione sono strumenti importanti per avere una vita sessuale e riproduttiva serena e appagante, di cui fa parte anche la possibilità di ricorrere all’aborto.
Il personale sanitario
Le retoriche moralizzanti e paternalistiche che impregnano molti dei discorsi relativi all’aborto sono anche presenti nell’ambito sanitario come emerge chiaramente dalla ricerca di Camille Maes, Tesi di laurea magistrale in Sociologia sostenuta nel 2022 all’Université de Caen-Normandie, Il rapporto all’aborto delle ostetriche in Italia: un’esplorazione sociologica. Anche tra il personale che non ricorre all’obiezione di coscienza, la decisione di abortire viene spesso commentata con toni dal giudizio sfumato ma presente. Peraltro, la formulazione di un giudizio negativo nei confronti di chi vuole abortire si declina in maniera differenziata a seconda delle situazioni individuali. Le persone che sono rimaste incinte per «mancanza di attenzione» o che non fanno uso di contracettivi sono considerate «irresponsabili», rivelando una contrapposizione fra la contraccezione, metodo legittimo di controllo delle nascite, e l’aborto, visto come un fallimento della contraccezione. Peggio ancora sono considerate quelle persone che abortiscono più di una volta, in quanto, per le ostetriche, usano l’aborto «come un metodo contraccettivo» e vengono sostanzialmente giudicate come «recidive»: «Magari viene alla terza, e allora lì ti verrebbe da dire ‘Ora sono obiettore, perché mi stai sui coglioni’, perché una volta passi, ma due volte, tre volte, t’ho detto di prendere la pillola, prendi la pillola, poi ti viene da essere cattivo, però, in alcuni casi, abbi pazienza! Una volta può capitare, e se uno in quel momento decide così, te non sei nessuno per poterlo giudicare, però se lo rifai il mese dopo…».
Nondimeno, il giudizio diviene particolarmente ostile nei confronti di chi dimostra di prendere la scelta di un’interruzione di gravidanza senza particolare, rammarico, sofferenza, senso di colpa, fino a provocare reali reazioni di aggressività: «Sai, quelle persone fastidiosamente arroganti, no? Che ti verrebbe veramente voglia di schiaffeggiarla. E li dici ‘Ma te, l’hai capito, cosa stai andando a fare?’, no? E dici accidenti a me quando non… Cioè, io devo partecipare a questa roba qui! Perché ti trovi davanti una persona che non prende mai coscienza. […]. E lì dici ‘Accidenti, ma se facevo l’obiezione di coscienza e non la vedevo, non era meglio?».
Abortire è una scelta
Grazie all’esperienza diretta di una delle attiviste di Obres, che ha raccolto testimonianze, possiamo prendere a esempio un’altra esperienza comparabile, quella di un consultorio francese. Anche qui si è visto come i discorsi sugli aborti «accettabili» e «non accettabili» siano talmente interiorizzati che le stesse persone che abortiscono finiscono per esserne vittime e riprodurli. Lo stigma dell’aborto considerato ingiustificato impedisce di prendere lucidamente una decisione: «non vorrei un figlio ora, ma sono maggiorenne e ho un lavoro»: una donna avrebbe voluto interrompere la sua gravidanza, ma non trovava un motivo che potesse essere socialmente considerato valido per farlo. Il punto è che ci sono persone che decidono di abortire perché non hanno un lavoro, altre perché ce l’hanno, alcune perché hanno già figli, altre perché non ne hanno e non ne vogliono, alcune abortiscono perché sono in una relazione abusiva, altre perché non sono in una relazione. Ci sono persone che sono rimaste incinte per mille motivi e per altri mille motivi decidono che in quel dato momento non vogliono portare avanti la gravidanza. A chi devono in fondo rendere conto se non al proprio desiderio? Occorre perciò ribadire che anche gli aborti di tutte quelle persone che non sanno dire perché non vogliono portare avanti una gravidanza sono legittimi e vanno sostenuti. Purtroppo, non è scontato: voler interrompere una gravidanza è ragione sufficiente per fare un’interruzione volontaria di gravidanza, senza che vi sia giudizio sul senso di colpa provato, sull’uso o meno di contraccettivi o sull’aver fatto o no educazione sessuale. Abortire è una scelta, qualsiasi siano le ragioni che ruotano attorno a questa scelta.
Costruiamo un’alternativa
Le considerazioni mosse finora e gli esempi apportati ci mostrano come il modo in cui parliamo, le parole che usiamo e lo sguardo che poniamo sulle scelte e sui corpi altrui possono costituire veri e propri strumenti di dominazione che contribuiscono a restringere la capacità di autodeterminazione delle singole persone. Pertanto, la dimensione culturale dello stigma abortivo appare altrettanto fondamentale dell’accesso effettivo all’aborto. Agire sulle narrazioni, sul sistema di pensiero che forma l’idea sociale dell’aborto è premessa necessaria per l’attuazione di interventi legislativi e politiche concrete per la tutela della libertà di scelta sui nostri corpi. Finché le scelte riproduttive continueranno a essere messe sotto esame, discusse e giudicate – sia quella di abortire e di vivere positivamente quell’esperienza, di portare avanti una gravidanza e di affidare il neonato a qualcun’altro o di partorire secondo le proprie esigenze – non ci sarà spazio reale per alcuna autodeterminazione.
La decostruzione delle retoriche colpevolizzanti e la ricostruzione di narrazioni prive di sfumature moralizzanti sono perciò centrali. Questo lavoro viene portato avanti da realtà transfemministe come quella di Federica di Martino che, con la sua pagina Ivg, ho abortito e sto benissimo, offre uno spazio dove si può esprimere la diversità dei vissuti personali, opponendosi a un discorso monolitico che impone come unici termini nei quali pensare l’esperienza dell’aborto il trauma, la colpa e lo smarrimento. L’esigenza di operare in maniera collettiva per costruire spazi e linguaggi più inclusivi nei confronti delle scelte personali ci riunirà ad Ancona il 6 maggio, dove grideremo il nostro bisogno di cambiamento radicale, che garantisca un accesso materiale all’aborto ma anche un mondo in cui poter vivere la propria vita sessuale e riproduttiva in modo sereno e libero.
*Olimpia Capitano è dottoranda in studi storici all’università di Teramo e autrice del libro Livorno 1921. Dentro e oltre la Classe operaia. Elisabetta Cavallin studia presso la Scuola Normale Superiore e l’Università di Pisa. Si occupa di studi di genere. Camille Maes, belga, vive in Italia da 10 anni, dove insegna il francese. Laureata in Scienze dell’ambiente, in Didattica del francese e in Sociologia, si è interessata, nel corso dei suoi studi e del suo percorso personale, alla questione dell’accesso all’aborto in Italia. Erica Rodigari è antropologa e laureanda in studi di genere all’università di Paris 8. Sono tutte attiviste della piattaforma Obres.
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