La battaglia che verrà (dopo il Coronavirus)
L'economia nazionale dovrà affrontare una depressione più grave di quella provocata dalla crisi finanziaria del 2008. Saranno decisive le scelte economiche europee, ma anche le mobilitazioni che sapremo mettere in campo
Il coronavirus passerà, ma non passerà senza conseguenze. Nonostante l’attenzione mediatica si stia concentrando sulla gestione dell’emergenza, inizia a insinuarsi nel discorso pubblico il tema delle conseguenze economiche dell’epidemia. Secondo Ashoka Mody, già direttore dell’ufficio europeo del Fondo monetario internazionale, l’Italia avrà bisogno di 500-700 miliardi di euro per compensare gli effetti del virus, una cifra spaventosamente alta. Nei prossimi mesi il governo italiano sarà chiamato a mettere in campo pesanti misure anticicliche per evitare che, finito il coronavirus, l’economia nazionale crolli in una depressione ancora più grave di quella provocata dalla crisi finanziaria del 2008. Molte di queste misure dipenderanno dalle scelte macroeconomiche delle istituzioni europee, dal rendere la Bce prestatrice d’ultima istanza al permettere uno sfondamento massiccio del Fiscal Compact agli Stati aderenti.
Ad oggi, rimane ancora difficilmente prevedibile l’atteggiamento che assumeranno tanto il governo italiano quanto le istituzioni europee. In questa prima fase, il governo Conte ha ipotizzato di portare il rapporto deficit/pil a un 2,8%-2,9% teorico, il massimo possibile secondo i trattati vigenti. Per ora è stato varato un aumento di budget da 25 miliardi di euro: una misura considerevole, ma che non sarà sufficiente a contrastare gli effetti del coronavirus sull’economia reale. L’atteggiamento parzialmente permissivo tenuto in queste settimane dalla Commissione europea è stato poi ampiamente compensato dalla disastrosa conferenza stampa di Christine Lagarde del 12 marzo, accompagnata da misure monetarie ad oggi totalmente insufficienti.
La storia, d’altro canto, ci spinge a essere molto prudenti sull’effettiva volontà politica di Roma e Bruxelles a «fare tutto quello che è necessario» per impedire che la nostra economia cada nel baratro. Il governo «giallo-rosso», nonostante le premesse e le promesse, ha chiuso il 2019 con un rapporto deficit/pil all’1,6% – il livello più basso dal 2007. Non ha, insomma, per ora smentito la tendenza all’austerità dei governi precedenti – pur avendone le possibilità politiche, oltre che i margini economici. Le istituzioni europee, dal canto loro, hanno alle spalle una gestione della crisi greca che non fa certo ben sperare.
Proprio per questa incertezza nei prossimi mesi sarà necessario il protagonismo dei movimenti sociali e sindacali. Quale che sarà l’atteggiamento del governo italiano e delle istituzioni europee, sarà necessaria una grande mobilitazione per evitare che i costi economici del coronavirus vengano pagati da lavoratori e lavoratrici. Per evitare, insomma, che si ripeta quello che è successo con gli effetti della crisi finanziaria del 2008. Perché se ancora non sappiamo quale sarà l’atteggiamento governativo nei prossimi mesi, possiamo star certi che i poteri economici conteranno, come al solito, di scaricare sulle classi medie e popolari il prezzo da pagare. E di superare così la tempesta indenni e opulenti.
La ricetta che proporranno sarà sempre la stessa. Un taglio radicale di quello che resta dello stato sociale del nostro paese, spinto dal solito «fate presto» della speculazione finanziaria e dalla retorica della mancanza di alternative. Una ricetta che ben si adatta ai pruriti di austerità degli intellettuali e funzionari neoliberali che hanno svolto un ruolo-guida nella gestione della nostra economia nell’ultimo decennio. Di fronte al verosimile crollo del Pil, a essere invocati saranno nuovamente i «sacrifici» – sottintendendo, ovviamente, i sacrifici dei soli lavoratori e pensionati. Questa volta non potrà ripetersi questo copione. I sacrifici li dovrà fare chi ha di più in termini di reddito, rendite e patrimoni.
Paradossalmente, la stessa emergenza che stiamo vivendo potrebbe porre delle condizioni politiche favorevoli a una mobilitazione che impedisca questo scenario. L’impegno della sanità pubblica nel contenimento del contagio ha posto al centro dell’attenzione mediatica la gravità dei tagli subiti negli ultimi decenni dal Servizio Sanitario Nazionale, aprendo un’agibilità alla critica della sua silenziosa privatizzazione. La necessità di un’iniezione di risorse statali nell’economia reale per evitare il disastro sociale sta poi già mettendo all’angolo i maître à penser neoliberali che da decenni dominano i talk show e le pagine dei quotidiani. La stessa presenza di un agente di rischio esterno e incontrollabile come un’epidemia potrebbe portare a una maggiore richiesta di protezione dei cittadini da parte dello Stato. Insomma, per la prima volta in trent’anni in Italia si potrebbe riaprire uno spazio contro-egemonico. Un contesto favorevole in cui sarebbe politicamente imperdonabile non cercare di inserirsi.
In questo scenario sarà vitale che i sindacati non cadano nuovamente nella retorica dell’unità nazionale che già qualcuno sta tentando di infiltrare nell’opinione pubblica progressista. Una replica della posizione cooperativa assunta da Cgil-Cisl-Uil durante i governi dell’austerità (Monti, Letta, Renzi) intaccherebbe profondamente le effettive possibilità di una difesa popolare dello stato sociale. D’altro canto, un’adesione dei sindacati confederali a una nuova agenda di austerità potrebbe rivelarsi una pietra tombale per la loro credibilità come strumenti di difesa e tutela delle classi lavoratrici. La richiesta avanzata unitariamente il 12 marzo da Fiom-Fim-Uilm per la chiusura delle fabbriche metalmeccaniche fa ben sperare in questo senso.
La posizione dei confederali sarà centrale nella battaglia che verrà. Nessuno si può illudere di vincere una battaglia di massa in Italia senza che Cgil, Cisl e Uil affianchino la mobilitazione popolare con le loro risorse politiche ed economiche. Ma sarà necessario anche che i movimenti sociali di base e territoriali si preparino a mettere a frutto le lezioni degli ultimi anni di lotte – in particolare quella sull’importanza di costruire un solido consenso anche in quella maggioranza silenziosa che non prenderà parte alle mobilitazioni. Le battaglie politiche non si vincono solo riempiendo le piazze, ma anche convincendo chi ne rimane fuori.
Ancora non conosciamo quale sarà il terreno di scontro. È probabile che i nodi verranno al pettine con la definizione della legge di bilancio in ottobre. Già ad aprile il Documento di Economia e Finanza (Def) darà una prima indicazione sull’atteggiamento che il governo Conte intenderà tenere, così come la nota di aggiornamento allo stesso che dovrà essere presentata entro fine settembre. Si vedrà in queste occasioni la linea delle istituzioni europee. Sappiamo invece quali sono le nostre forze e quali sono le risorse che le classi dirigenti potranno mettere in campo contro di noi. Le abbiamo già viste all’opera negli ultimi dieci anni, d’altro canto.
La posta in palio della battaglia che verrà è molto alta. È in gioco il benessere delle classi medie e popolari italiane. La definizione dei rapporti di classe nel nostro paese per molti anni a venire. È in gioco la possibilità di un’uscita socialista e democratica alla perdurante crisi del capitalismo. Dopo la fine del coronavirus, attorno a quello che rimane del nostro stato sociale, si terrà una battaglia epocale. Prepariamoci ad affrontarla – e a vincerla.
*Stefano Poggi è dottorando di ricerca in storia presso l’Istituto Universitario Europeo.
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