La battaglia per il Venezuela
Il paese esce profondamente spaccato dalle elezioni presidenziali. Le opposizioni hanno un insediamento di massa ma puntano a ricreare una colonia Usa mentre Maduro cerca di mantenere l'indipendenza con metodi repressivi
Il Cne (Consiglio Nazionale Elettorale), un organo subordinato al governo, ha annunciato la vittoria di Maduro e, il giorno dopo le elezioni, ha ufficializzato la sua nomina. L’opposizione di estrema destra denuncia brogli e annuncia di aver ottenuto il 70% dei voti. Sebbene sia giusto chiedere che il Cne pubblichi il risultato finale del 100% dei voti e renda noti i dati di conteggio, l’onere della prova dei brogli spetta a coloro che ne mettono in dubbio l’imparzialità. Il semplice sospetto non è sufficiente. Finora non è stata presentata alcuna prova categorica. Sebbene sia essenziale che tutti i fatti siano resi pubblici, la sola ipotesi di frode da parte della campagna dell’opposizione di estrema destra non dovrebbe essere sufficiente a rinviare indefinitamente il riconoscimento della vittoria di Maduro.
Non dobbiamo qui abbellire il regime, che è autoritario e ha represso le forze reazionarie che vogliono rovesciarlo, ma ha anche messo a tacere e fuori legge le correnti di sinistra che si appoggiano alla classe lavoratrice, per ammettere la vittoria di Maduro. Anche se bonapartista, il regime ha una base sociale indiscutibile. Sebbene il Psuv (Partito socialista unito del Venezuela) sia monolitico e Nicolás Maduro sia un caudillo, persino un po’ caricaturale, entrambi hanno un indiscutibile impianto sociale. Inoltre, è prevedibile che, in una certa misura, un voto non «madurista» ma antifascista e antimperialista avvantaggi Maduro.
Il paese è socialmente e politicamente spaccato. Anche l’opposizione neofascista ha una base sociale, ha attirato voti anti-Maduro che non sono di estrema destra e ha dimostrato nelle piazze di avere un sostegno. Questo sostegno non dovrebbe sorprendere, visto l’assedio economico che ha strangolato il Venezuela, con diversi gradi di intensità, negli ultimi dieci anni.
Così come è irragionevole idealizzare il regime, è altrettanto poco saggio idealizzare l’esperienza «chavista» come un processo ininterrotto di costruzione del «socialismo del XXI secolo». Il governo Maduro ha intrapreso un progetto di regolamentazione statale nazionalista del capitalismo con riforme sociali. Non c’è mai stato un processo di rottura capitalista come quello di Cuba nel 1961. La situazione sociale è molto grave, con alti livelli di povertà e disoccupazione che spiegano l’emigrazione di almeno il 20% della popolazione.
Il blocco imperialista non è l’unico fattore del collasso economico e sociale, perché il governo non è innocente di fronte alla crescente disuguaglianza sociale, ma è soprattutto il più importante. Prima dell’elezione di Chávez nel 1998, le condizioni di vita della maggioranza della popolazione erano drammatiche. Oggi il Venezuela è sull’orlo della guerra civile.
L’analisi del risultato elettorale non può ridursi a un’ingenua considerazione, strictu sensu, delle procedure giuridico-elettorali. Non dobbiamo dimenticare che anche nei paesi in cui i regimi liberal-democratici hanno assunto le forme più avanzate, la lotta delle forze popolari incontra ostacoli. Il potere del capitale manipola il suffragio, perché il controllo della ricchezza facilita il controllo del potere. Le elezioni possono essere più o meno libere, ma l’espressione della volontà popolare è sempre in qualche misura distorta dalla forza sociale, come il dominio dei media o la manipolazione delle reti sociali. Un’analisi marxista deve valutare le dinamiche politiche e sociali del conflitto.
La decisione di María Corina Machado di cercare di promuovere una mobilitazione di massa fin dalla chiusura dei seggi con azioni violente e incendiarie per difendere l’autoproclamata vittoria di Edmundo González fa parte di una strategia golpista non improvvisata. I criteri per caratterizzare le mobilitazioni, secondo la bussola marxista, sono schematicamente quattro: (a) si valutano i compiti politico-economici posti al paese, cioè il contenuto storico-sociale del programma di mobilitazione, se il soggetto sociale è consapevole o meno di questi compiti; (b) si studia chi è il soggetto sociale, cioè le classi o il blocco di classi che si sono riunite per scendere in piazza e protestare; (c) si identifica la leadership politica delle mobilitazioni, il soggetto politico; (d) infine, i risultati, cioè l’esito del processo.
Il programma delle mobilitazioni dell’opposizione di estrema destra è il rovesciamento del governo Maduro. Ma non si tratta di una «rivoluzione democratica» contro una tirannia. Se María Corina ed Edmundo González prendessero il potere, l’imposizione di un regime dittatoriale sarebbe inesorabile. La posta in gioco è il riallineamento del Venezuela agli Stati uniti come semi-colonia, la privatizzazione della Pdvsa e la consegna delle maggiori riserve di petrolio alle grandi compagnie petrolifere, nonché l’incarcerazione dei leader chavisti e la repressione delle organizzazioni popolari. Un programma controrivoluzionario. Non dobbiamo impressionarci se sono più o meno a carattere di massa.
Ricordiamo le manifestazioni degli «amarelinhos» in Brasile nel 2015/16 per rovesciare il governo di Dilma Rousseff, denunciando che solo i brogli potevano spiegare la sconfitta di Aécio Neves nelle elezioni del 2014. Il programma di denuncia dei brogli è stato portato avanti anche nel 2019 in Bolivia contro la rielezione di Evo Morales, ed è servito da innesco per il colpo di Stato poliziesco-militare. Il soggetto sociale è la borghesia «storica» e la maggioranza della classe media, anche se scendono in piazza anche settori popolari. La leadership politica è indubbiamente neofascista. I risultati non possono che comportare una sconfitta storica per la lotta dei lavoratori e del popolo e l’annientamento della sinistra per una generazione.
In breve, il Venezuela è convulso da una mobilitazione controrivoluzionaria che mira al rovesciamento insurrezionale del governo Maduro. Il 29 luglio ci sono state marce, azioni di gruppi per rovesciare le statue di Hugo Chávez in diversi luoghi e saccheggi. Martedì 30 luglio, Edmundo Gonzalez e Maria Corina hanno indetto una manifestazione nel centro di Caracas, riuscendo a radunare decine di migliaia di persone. Il paese è profondamente spaccato, socialmente e politicamente.
I raduni, come negli Stati uniti, guidati da Trump, e in Brasile, da Bolsonaro, hanno cercato di sovvertire il risultato elettorale. Ma il Venezuela è isolato a livello internazionale, perché il governo di Maduro difende un inserimento indipendente. La scelta in Venezuela non è mai stata tra dittatura e democrazia. Gli Stati uniti e l’Unione europea sono stati e sono complici di regimi dittatoriali e autoritari in ogni continente. Ma non c’è mai stata la minima interferenza contro gli sceicchi dell’Arabia Saudita, altro grande produttore di petrolio. Ma in Venezuela hanno fatto di tutto per rovesciare prima Chávez e poi Maduro. Perché? Perché vogliono ridurre il paese allo status di semi-colonia e avere accesso illimitato alle sue riserve di petrolio.
*Valerio Arcary è uno storico, attivista del Psol in Brasile e autore di O Martelo da História. Ensaios sobre a urgência da revolução contemporânea (Sundermann, 2016). Questo articolo è uscito su Jacobin America latina. La traduzione è a cura della redazione.
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