La contro-finanziaria
«Disarmare l’economia per fermare il collasso ambientale e sociale»: colloquio con Giulio Marcon, portavoce della campagna Sbilanciamoci che da venticinque anni avanza proposte alternative alla legge di bilancio
Mentre il ministro delle Finanze Giancarlo Giorgetti parla di «sacrifici per tutti» facendo crollare le borse e attirando critiche tanto dalla Banca d’Italia quanto dai propri alleati, riprende la campagna di Sbilanciamoci! per realizzare una «contro-finanziaria».
Ogni anno la rete di oltre cinquanta organizzazioni della società civile italiana, impegnate dal 1999 a condividere proposte sui temi della spesa pubblica e di politica economica, in coincidenza con il Piano Strutturale di Bilancio del governo elabora infatti una sorta di legge finanziaria alternativa. Già dall’appuntamento al «contro-vertice» di Cernobbio Fermiamo le guerre e il collasso ambientale e sociale, la critica a un sistema sempre più neoliberista è stata articolata in forum come quelli contro le spese militari, per il diritto all’abitare, su lavoro, diritti e solidarietà fra gli altri. Da qui la discussione di due proposte principali: una campagna pacifista contro il crescente riarmo e la nuova «contro-finanziaria» appunto.
Per il portavoce della campagna Sbilanciamoci! Giulio Marcon siamo di fronte a una «una manovra che si preannuncia insufficiente, sbagliata, molto modesta, condizionata dalla necessità di coprire gli interventi del 2024, tra i quali il taglio al cuneo fiscale e le spese inderogabili come le missioni militari all’estero», in un contesto in cui «la precarizzazione del lavoro, il peggioramento del clima e il rischio di un collasso ambientale, così come la crescita delle disuguaglianze stanno lì a dimostrare che così non si può andare avanti, bisogna cambiare strada».
Non è un mistero infatti che in Italia il calo della disoccupazione, scesa a settembre al 6,2% sull’anno precedente secondo l’Istat, sia accompagnato da diversi effetti collaterali, come squilibri di genere – 10% di scarto fra occupazione maschile e femminile –, crescita dell’inattività (+34%), rallentamento della partecipazione giovanile al lavoro e soprattutto un crollo del potere di acquisto del 3,7% a fronte di un aumento dei profitti, che già dalla fine del 2022 registravano un +2%.
«La distribuzione della ricchezza a favore dei più privilegiati penalizza chi lavora, specialmente se in modo precario; e sembra poggiarsi essenzialmente sulla moderazione salariale. Molti economisti ci ricordano che una delle cause dell’inflazione è la crescita dei profitti e non dei salari – ribadisce il portavoce di Sbilanciamoci! – e questa è una beffa per i lavoratori. Se si prende l’Italia durante i due anni di pandemia i patrimoni dei 50 più ricchi sono cresciuti del 30% e i poveri sono aumentati di un milione. C’è un problema di disuguaglianze enorme».
Un sistema industriale in crisi
Oltre alle criticità in materia fiscale nel quadro di un capitalismo sempre più predatorio, a pesare nel contesto italiano ed europeo secondo gli studi prodotti da Sbilanciamoci! è lo spostamento della ricchezza dal sistema produttivo alla rendita finanziaria e immobiliare.
Nell’ultimo anno il comparto manifatturiero vive una sorta di crisi portata dal rincaro delle materie prime e dal conseguente surplus di prezzi e produzione, con aziende che soprattutto nel comparto tessile e moda ricorrono in massa alla cassa integrazione. Altro settore particolarmente critico è poi quello dell’automotive, che già nella seconda metà del 2021 ha registrato la chiusura di molti stabilimenti della filiera di componentistica, in fase di «ristrutturazione aziendale» o di delocalizzazione, a costo di licenziamenti di massa, spesso anche in modo anti-sindacale, come denunciato dalla vertenza del Collettivo di Fabbrica ex-Gkn.
In parallelo la stessa Stellantis in Italia porta avanti un ridimensionamento strutturale delle linee produttive, con una riduzione dei volumi del 37,1% nell’ultimo trimestre del 2024, un terzo rispetto all’anno precedente, con turni ridotti in tutti gli stabilimenti e ai minimi storici a Cassino, Mirafiori e Melfi. A detta delle multinazionali le questioni principali riguardano la crescente competitività in termini di conto energetico, costo del lavoro e la produttività in un contesto di transizione.
«C’è un combinato disposto di miopia e interessi particolari. Poche imprese si dimostrano lungimiranti, investendo effettivamente nella transizione ecologica – commenta Marcon – Al contrario gli utili si sono trasformati in profitti o sono stati destinati al circuito finanziario come leva di ulteriori dividendi».
Del resto sembra altrettanto evidente, continua Marcon, che «l’Italia da quarant’anni non ha una vera politica industriale. È prevalsa l’idea che debba pensarci il mercato o le imprese, indirizzate solo con sgravi fiscali, che però non si sono tradotti in nuovi investimenti produttivi, ma in speculazione nei circuiti finanziari, perché più redditizi. Serve perciò una maggiore partecipazione statale e la revisione del sistema di strumenti a sostegno, non solo bonus e incentivi ma interventi strutturali».
Per il portavoce di Sbilanciamoci! il settore dell’automotive «risente dell’assenza di politiche pubbliche per la riconversione, anche per mancanza di idee chiare rispetto a interessi inconfessabili nel proseguimento dell’uso di fonti fossili». Un esempio altrettanto calzante di lassismo riguarda in particolare «l’industria italiana degli autobus, dove rischiamo di non avere un produttore nazionale, nonostante la necessità per il trasporto pubblico sostenibile. È il caso delle progressive dismissioni di Iribus, o Menarini, in presenza di un parco macchine generalmente obsoleto, con circa il 10-30% di mezzi municipali da rottamare».
Ad attestare il fallimento della politica industriale in Italia secondo Marcon è poi la questione del superbonus edilizio con «incentivi fiscali fra i più alti d’Europa per la coibentazione delle abitazioni, portata avanti senza incoraggiare la nascita o la riconversione delle aziende della filiera verso questo settore, a favore invece delle importazioni di prodotti da Cina, Turchia, o Israele».
A proposito di occasione persa, «il Pnrr poteva rappresentare una discontinuità espansiva in termini di investimenti, portando una ventata di piccole novità come quella di fare debito per finanziare lo sviluppo nell’ambito del piano Next Generation; ma nel tempo la poca trasparenza, l’incapacità gestionale e il rischio di perdita dei fondi si configurano sempre più come un’opportunità mancata; e tanto per fare un esempio: nei documenti principali non c’è nemmeno un riferimento al comparto automotive».
La contro-finanziaria in 5 mosse
Sono molteplici le questioni al centro dell’agenda di Sbilanciamoci! e nell’ambito della nuova proposta di «contro-finanziaria» in cinque mosse, queste riguardano soprattutto la politica fiscale e la politica industriale, la transizione ecologica e la lotta alle diseguaglianze, «con l’intento di recuperare risorse da destinare ad agricoltura sostenibile e di qualità, al rafforzamento della sanità, delle politiche sociali e dell’istruzione».
Secondo le prime stime pubblicate nella «Gazzetta non ufficiale» della campagna, per la finanziaria 2025 nel merito sussistono due limiti fondamentali. Il primo deriva dai vincoli del nuovo Patto di Stabilità europeo – approvato in aprile dal Parlamento europeo –, che rischia di comprimere le politiche espansive e riportare in auge l’austerità, tanto da prevedere specifiche misure di rientro da debito e deficit. Accanto a questo si prefigura un altro ostacolo endogeno, rappresentato dalla necessità di rifinanziare le spese improrogabili – come ad esempio le missioni militari italiane all’estero – e di ottemperare a quelle spese annuali, come il taglio al cuneo fiscale, che con le riduzioni Irpef pesano da sole per circa 15 miliardi di euro. Se a queste poi si sommano i sostegni a famiglie ed imprese – stimati intorno ai 2 miliardi ciascuno – l’importo totale del budget necessario ammonta a circa 25 miliardi di euro
«Non volendo mettere le mani sulla leva fiscale, tramite le imposte sui grandi patrimoni e le rendite finanziarie, o con la riduzione delle spese militari e per grandi opere inutili come il Ponte sullo Stretto di Messina, i margini sono veramente risicati – ribadisce il portavoce della campagna Sbilanciamoci! – In questo contesto, tutte le riforme elettoralistiche, dalla flat tax alle pensioni anticipate, rischiano di essere vanificate dalla forza dei fatti. Anzi, si rischia un altro provvedimento sulle pensioni per fare cassa».
A fronte di questo quadro, la contro-proposta focalizza fra le voci di entrata quattro assi portanti, che riguardano: una riforma fiscale sui grandi patrimoni e le rendite finanziarie – in grado di generare oltre 25 miliardi di entrate –, una moratoria sulle spese militari e in particolare sui progetti per sistemi d’arma non ancora avviati, la conversione dei sussidi «Ambientalmente Dannosi»; e la contrazione delle spese per le grandi opere, così come dei sussidi alle scuole private, per cui si stima un gettito intorno ai 27 miliardi.
Nello specifico questa manovra poggia sulla revisione del sistema di prelievo fiscale, introducendo una maggiore perequazione con imposte progressive sulla ricchezza patrimoniale, anche mediante la tassa di successione, l’aumento di tre scaglioni di aliquote, oltre alla tassazione di transazioni finanziarie e operazioni speculative, compresi i derivati, come indicato nell’agenda Tax the Rich, denunciando che «lo 0,01% (circa 5mila persone) in Italia ha il 7% della ricchezza totale del paese e un patrimonio medio di 128 milioni di euro». Sul fronte della spesa pubblica per Sbilanciamoci! è infatti urgente affrontare l’emergenza sociale in campo sanitario, con 4 milioni di persone che rischiano di non potersi permettere accesso alle cure, destinando a questo capitolo il 7% del Pil; oltre a rifinanziare i fondi per la non autosufficienza, per le politiche della casa e il Fondo Ordinario per Scuola e Università per almeno 2 miliardi ciascuno.
Disarmare l’economia
I confini europei soprattutto negli ultimi anni sono attraversati dalla deflagrazione di scontri regionali, a corollario della «de-globalizzazione» – come viene definita nella contro-finanziaria –, portata dal blocco pandemico delle catene di approvvigionamento in mercati integrati; e caratterizzata dal protezionismo del «made in» e dall’ulteriore militarizzazione delle frontiere. Nonostante la torsione autoritaria di esecutivi sempre più illiberali, non stupisce quindi la coincidenza in senso atlantista dell’agenda del governo Meloni con quella del predecessore Draghi, nell’ambito del riarmo nazionale e dell’oltranzismo guerrafondaio.
In quest’orizzonte politico pare invece del tutto ripudiata la strada della cooperazione internazionale, della pace e del disarmo, specialmente a fronte della frammentazione del movimento pacifista. Fra gli obiettivi della campagna c’è infatti quello di «disarmare l’economia», mediante la riduzione del 20% delle spese militari, l’incremento dei fondi per la cooperazione almeno per lo 0,7% del Pil, destinando inoltre almeno 500 milioni di euro per il servizio civile. Per invertire la deriva bellicista occorrerebbe insomma colpire i grandi interessi sulle commesse, scardinando questa spirale con un’economia di pace.
«Lo stesso ‘Piano Draghi’ a livello europeo mette la difesa e il tema della sicurezza fra le priorità dell’Unione – commenta Marcon – ma si tratta di scelte incomprensibili, se si considera un livello già molto elevato delle spese per questi capitoli, che in valore assoluto nell’Unione europe superano di almeno 3 volte gli stanziamenti per la difesa della Federazione Russa. È necessaria una riconversione pacifica del sistema industriale, incidendo nelle scelte aziendali, per invertire il trend di sviluppo tecnologico, attualmente maggiore in applicazioni a fini militari invece che civili».
A questo proposito si fa riferimento al rapporto L’economia a mano armata, spesa militare e industria delle armi in Europa e in Italia nel 2024, elaborato in collaborazione con GreenPeace e con il contributo della Rete Italiana per Pace e Disarmo. «Abbiamo dimostrato che con un’economia di pace si produce più Pil e si creano più posti di lavoro, a beneficio di tutta la comunità, anche in termini di beni e servizi comuni».Inoltre, viene riportato come le esperienze di riconversione produttiva in Italia risultino sostenibili e di successo, come per i casi delle mine Valsella delle bombe Rwm in Sardegna.
La guerra insomma è un «brutto affare» anche in termini economici, ma concentra la ricchezza in pochi azionisti, che così alimentano questo sistema. «Se si vedono i bilanci delle compagnie del settore bellico – continua Marcon – le dinamiche di crescita hanno avuto degli andamenti impressionanti. L’azienda Leonardo ad esempio ha avuto un incremento borsistico di circa il 35% di utili, concentrati nelle mani di azionisti che traggono profitto dalle guerre e che generano una capacità d’influenza politica, un condizionamento consolidato ormai anche nel sistema di ‘porte girevoli’, per cui manager delle industrie militari non si dedicano più all’attività lobbistica, ma passano direttamente a fare le leggi».
Prospettive per il movimento pacifista
«Come riporta il nostro dossier, in gioco c’è il dominio degli interessi economici e delle materie prime, tramite una nuova politica di supremazia militare sulle aree di influenza, che soprattutto i paesi occidentali sembrano voler imporre in una fase di rinegoziazione dell’equilibrio del potere globale»; peraltro in una sorta di stato d’emergenza perdurante, in cui il multilateralismo di istituzioni internazionali come le Nazioni Unite mostra tutti i suoi limiti.
«La guerra è un fallimento oltre a essere un crimine – ammonisce il portavoce di Sbilanciamoci! – non ha risolto la situazione in Afghanistan, dove ora ci sono di nuovo i talebani; o in Libia, dove non c’è più Gheddafi ma resta una spaccatura da guerra civile e sistematiche violazioni dei diritti umani; o ancora le due guerre del Golfo, fatte dagli Usa con pretesti per il controllo del petrolio; e poi la ex-Yugoslavia, in cui le pulsioni nazionaliste continuano a infiammare la regione. Basta guardare gli esiti di quelle guerre per capire come la situazione resti ancora insoluta. Dopo cinquant’anni la stessa Cipro, che pure fa parte dell’Ue, è ancora divisa in due».
«Per scalfire questo blocco di potere con la riduzione delle spese militari serve unità di tutte le sensibilità pacifiste – prosegue Marcon – ma la difficoltà del momento è acuita dalla debolezza della diplomazia e da una sorta di caccia al pacifista, di criminalizzazione del dissenso, spesso anche per eccessive semplificazioni della stampa, invece di mettere in campo tutta l’intelligenza possibile».Grazie anche alla consapevolezza delle ricadute socio-economiche e alla solidarietà internazionale «la diplomazia popolare è entrata nella cultura nonviolenta e pacifista di fronte alle nuove guerre, ha costruito incontri e favorito dialogo tra gli esponenti della società civile nelle comunità in conflitto». È il caso ad esempio del movimento delle Donne in Nero sorto negli anni Ottanta dopo la guerra in Libano e sviluppato anche nei Balcani fra parenti delle vittime di diverse comunità. E pratiche simili si rendono ancora più dirimenti a fronte di «una debolezza della politica istituzionale, che balbetta».
La convergenza delle lotte
In questo contesto di «policrisi» si afferma un processo di disintegrazione dell’ordine mondiale neoliberale in una molteplicità di shock apparentemente diversi – come la crisi climatica, la pandemia di Covid-19, la crisi energetica, l’aumento delle disuguaglianze, la guerra in Ucraina prima ed in Medio-Oriente poi –, ma dal carattere sistemico. Perciò, l’impegno della campagna fa appello anche alla «convergenza delle lotte», con un approccio intersezionale per aprirsi ai bisogni delle persone, tutelando lavoro, diritti, sostenibilità di produzioni e consumi.
Una simile impostazione è stata centrale già dal 2023 nelle mobilitazioni della giustizia climatica e sociale, che in certi casi, come quello della vertenza sindacale più longeva della storia repubblicana, portata avanti dal Collettivo di Fabbrica ex-Gkn a Firenze, ha rappresentato un paradigma di azione solidale, in grado di unire le rivendicazioni del mondo della cultura e dello spettacolo a quelle dei metalmeccanici, fino ad abbracciare i movimenti sociali e ambientalisti, portando a risultati inimmaginabili anche con l’azionariato popolare per la riconversione produttiva dal basso. «Abbiamo riconosciuto e seguito con simpatia l’esperienza del Collettivo ex-Gkn per il grande valore che ha avuto – prosegue Marcon – anche nell’ottica della riconversione ecologica».
Nel caso della campagna Sbilanciamoci! questo nel tempo si è tradotto in una vera e propria Alleanza Clima e Lavoro in grado di convenzionare un percorso di impegno condiviso per un nuovo modello di sviluppo, a partire dai temi della giusta transizione produttiva e della sostenibilità ambientale e sociale.
La campagna Sbilanciamoci! è già di per sé un emblema della convergenza in rete di più realtà e sebbene la lotta ai cambiamenti climatici stia scivolando in basso nell’agenda politica europea resta forte la convinzione di dover «unire sensibilità e pratiche fra quelle ambientaliste, pacifiste e della solidarietà, intorno al tema centrale di un modello sviluppo alternativo. Per questo – conclude Marcon – serve un’alleanza per il coinvolgimento dei diretti interessati».
E chissà che in questo stato di economia di guerra una risposta più significativa all’incapacità diplomatica e all’indifferenza non possa arrivare proprio da uno sciopero globale per la pace.
*Tommaso Chiti, attivista e coordinatore regionale del progetto Antifascist Europe della fondazione Rosa Luxemburg, è laureato in Studi europei alla facoltà Cesare Alfieri dell’università di Firenze.
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