
La cooperazione internazionale dopo UsAid
Trump smantella l'agenzia per la cooperazione internazionale, che finanzia progetti ma ha portato avanti anche il soft power della Casa bianca. Di fronte alla brutalità del nuovo corso si può fare di necessità virtù e ripensare il settore
Sono state settimane complicate per la cooperazione internazionale: tutte le maggiori organizzazioni non governative della società civile piccole o grandi e i diversi enti afferenti alle Nazioni unite sono in fase di revisione di bilancio per minimizzare i danni materiali della scelta scellerata di Trump di congelare UsAid da un giorno all’altro. Non basteranno certo i 90 giorni di attuazione della revisione finanziaria per rassicurare gli animi. I profili social di chiunque lavori nell’ambito della cooperazione sono pieni di post di ricerca di lavoro da parte di overskillati ex dipendenti dell’ente Us, con commenti increduli e solidarietà diffusa.
Una svolta in tempi da record e senza preavviso, con una modalità da boutade mediatica davvero inappropriata per la concretezza della posta in gioco. In tanti hanno sottolineato che non si può pensare di congelare da un giorno all’altro interi pezzi di welfare nei campi profughi, aiuti umanitari in scenari di emergenza e guerra, programmi pluriennali di educazione, empowerment femminile, promozione della salute, sicurezza alimentare e contrasto al cambiamento climatico. Parliamo di un taglio enorme, pari al 42% degli aiuti umanitari monitorati dall’Onu, che ha molte conseguenze anche sulle organizzazioni umanitarie italiane, impattate per oltre 10 milioni di euro secondo l’associazione delle Ong italiane (Aoi).
UsAid, fondata nel 1961 per strutturare gli aiuti internazionali in Europa post Piano Marshall e contrastare l’influenza russa, è stata strutturalmente potenziata dal Governo Bush nella fase di «esportazione della democrazia» – successiva all’11 settembre 2001 – e più recentemente vanta 37,6 miliardi erogati verso progetti in Ucraina. L’agenzia è da sempre stata uno degli organi chiave per la sicurezza nazionale Usa, la cui strategia risponde alle 3D: difesa, diplomazia e sviluppo (defense, diplomacy and development).
Molti potrebbero essere tentati di analizzare la mossa trumpiana come lo smantellamento di un importante strumento di imperialismo americano, ma sarebbe una lettura semplicistica. Dopo decenni di istituzioni internazionali tenute in ostaggio dai veti e dal potere economico americano, che faceva dell’embedded liberalism la propria ideologia di riferimento, Trump sta dimostrando al mondo che non ha più bisogno di strumenti di soft power e diplomazia silenziosa con cui imporre la propria visione strategica, ma gli basta esercitare il potere con lo stile diretto che lo caratterizza. In una fase globale di ritorno alle guerre anche in Occidente e di continua messa in discussione della potenza Usa da parte degli avversari economici cinesi, il Tycoon non ha più interesse a usare il proprio potere dietro le quinte, ma a giocarsi una partita egemonica in campo aperto: è pubblica la battaglia contro la Cina per il primato sui modelli di Intelligenza artificiale, è chiave il ruolo nei negoziati Russa-Ucraina, sono dirette le posizioni folli di pulizia etnica del piano Trump su Gaza.
Lo fa mistificando la realtà e mascherando la propria scelta di politica estera come uno smacco alla fantomatica cultura «woke», mettendo al centro il genere, i media indipendenti e in generale tutto ciò che può rappresentare la cultura democratica d’élite, disinteressato delle conseguenze a catena su tante precarie e precari di organizzazioni della società civile che sopravvivevano con i fondi di UsAId, e degli impatti finali su chi – fuori dalla bolla della politica statunitense – non ha nulla di elitario nella propria biografia.
A molti democratici e progressisti, d’altra parte, fa comodo dipingere Trump come il cattivo che sta smantellando la cooperazione internazionale, ma sarebbe semplicistico non riconoscere che il Tycoon ha sfruttato una crisi politica e di credibilità pubblica già presente.
L’assoluta dipendenza di interi contesti socioeconomici e pezzi di welfare da questi fondi ha messo in luce quanto la cooperazione internazionale sia, in fondo, un sistema che alimenta un ordine mondiale diseguale, in cui gli aiuti sono vincolati alle politiche e agli interessi delle grandi potenze. Non si può che leggere, quindi, le conseguenze stimate del congelamento dei fondi UsAid come una verifica sul campo delle critiche al modello di sviluppo universalista occidentale poste storicamente dai tanti movimenti e pensatori post/de-coloniali che si occupano di trasformazione sociale dal basso. Nel pratico, la dipendenza dai finanziamenti pubblici statunitensi ha un’azione pacificatrice del conflitto e favorisce il sistema di potere a cui risponde, con un’azione sempre più tecnico-progettuale, e sempre meno orientata all’advocacy per la trasformazione sociale, duratura e sistemica.
La cooperazione istituzionale – finanziata non solo da UsAid, ma da tanti altri donatori – appare agli occhi dei non addetti ai lavori come un «progettificio» che si autoriproduce, costruisce un ecosistema di mestieri nel «sud del mondo» che non esisterebbero altrimenti (project manager, valutatori di impatto, rendicontatori), di stipendi da capogiro nelle agenzie statali o Onu, di quartieri «bianchi» di élite in città poverissime e di burocrazia che traina le economie.
Le risposte a queste critiche, già presenti da decenni nei dibattiti su sviluppo e post-sviluppo, hanno imposto negli ultimi anni un virtuoso focus sulla valutazione di impatto e sulla sostenibilità economica a lungo termine, virati in un trend di logiche progettuali, indicatori di cambiamento e hashtag su LinkedIn che tecnicizzano ulteriormente la trasformazione sociale, ma non ne modificano strutturalmente il presupposto politico emancipatorio.
Il caso UsAid rappresenta, quindi, uno scenario di non ritorno per un intero ecosistema globale di relazioni umanitarie e internazionali nato dagli Stati uniti di Kennedy, che vede nelle dichiarazioni di diritti umani universali il proprio fulcro ideologico. Quel mondo, che riconosce una presunta neutralità di diritti e valori occidentali e garantisce l’importanza strutturale degli organi internazionali che li promuovono anche attraverso il flusso di finanziamenti, non esiste più da tempo e non è un caso che riceva un colpo di grazia unilaterale da parte del suo stato ideatore, mentre ancora si stimano gli impatti del genocidio palestinese, che ne rappresenta la crisi più profonda.
Nonostante le buone intenzioni di chi lavora giornalmente su importanti progetti, dopo un genocidio in diretta social, a livello macro viene naturale chiedersi se l’insieme di migliaia di excel di valutazione di impatto potrà mai sopperire alla percezione di esautorazione dal proprio mandato storico delle agenzie di cooperazione di gran parte delle potenze occidentali.
Nell’ultimo anno, infatti, chiunque lavori nella cooperazione internazionale e abbia un minimo di senso della storia, si è interrogato in modo profondo sulle conseguenze a lungo termine della tragedia di Gaza sulla fase storica del settore. Da un lato, l’assenza di sanzioni verso Israele, l’impossibilità di ingresso degli aiuti umanitari, l’assenza di qualsivoglia forma di interposizione Onu a difesa della popolazione di Gaza oltre la diplomazia dei comunicati stampa; dall’altro, il definanziamento di Unrwa, la scelta di impedire l’ingresso ai valichi al personale Onu etichettandolo come antisemita e l’assenza di esecuzione dei mandati di arresto internazionali della Corte Penale Internazionale, per quanto casi estremamente diversi, restituiscono una fotografia che mostra già superato nella pratica e da tutti i lati quel confine di buon senso – codificato nel diritto internazionale – su cui anche la prassi del soft power e delle strette di mani si fondava. La tenda del teatro è caduta, lasciando davanti a noi macerie.
Un illuminante articolo di Angelo Stefanini, ex Coordinatore dell’Organizzazione mondiale della sanità nei Territori palestinesi pccupati (Tpo) e dell’azione sanitaria della cooperazione governativa italiana (Aics) nella zona, racconta la sua percezione sempre più chiara di responsabilità: pur di supportare quanto possibile la popolazione, in tanti anni di azione sui Tpo la cooperazione ha assorbito pienamente i costi delle sistemiche violazioni di Israele, sostituendosi alla responsabilità della potenza occupante e costruendo prassi consolidate che hanno normalizzato perenni violazioni del diritto internazionale.
Mentre cambia il campo di gioco della geopolitica mondiale, non solo restano tante domande senza risposta, ma anche tante voci di bilancio: 72 miliardi di dollari difficilmente recuperabili da altri donatori istituzionali.
Questo vuoto potrebbe portare a sperimentazioni inedite, se le organizzazioni della società civile che solitamente sono beneficiarie di UsAid avranno il coraggio di osare, senza reagire alla crisi accaparrandosi i fondi rimanenti per continuare con approcci tradizionali e finalizzati all’autoconservazione.
Lo smantellamento dei diritti umani in chiave populista, infatti, non avviene nella prospettiva di un riconoscimento delle oppressioni intersezionali e multiple che essi celano dietro la patina di universalità, ma, al contrario, dall’alto e in prospettiva nazionalistica. È dal basso, quindi, che serve tirare la corda e prendere lo spazio di vuoto lasciato aperto da queste incertezze, con nuovi modelli finanziari e di supporto locale.
Non serve a molto lavorare sulla tecnica e su modelli astrusi di valutazione di impatto sempre più matematici, se non si ha chiara una prospettiva di visione e strategia politica radicale ed emancipatoria, a servizio di quanto si muove localmente per interrompere la catena delle disuguaglianze e dell’ingiustizia sistemica, contrastando la facile retorica antiwoke dei nazionalismi.
I progetti di cooperazione, più che su una logica whitesavior o di spartizione di sfere di influenza, andrebbero inseriti in una riflessione di reparation per le responsabilità storiche e coloniali occidentali nei processi di deprivazione socioeconomica del Sud Globale, sperimentando processi di governance locale e di gestione fattiva delle risorse economiche a livello comunitario.
Segnali di speranza, per fortuna, fuori dal nostro occidente ingessato dall’avanzata dei nazionalismi, ce ne sono diversi, come la dirompenza delle proteste della genarazione z che sono iniziate lo scorso anno in Kenya, Bangladesh, Uganda, Nigeria per politiche più vicine ai bisogni e desideri giovanili, governi meno corrotti, o priorità meno legate al debito verso la Banca mondiale. Nella crisi delle istituzioni internazionali è certamente la solidarietà internazionale a non doversi spegnere.
*Martina Carpani, lavora in una Ong occupandosi di tecnologie e innovazione. Attivista di Non Una di Meno e malata cronica, si dedica al mutualismo legato ai temi dell’accesso alla salute, della giustizia sessuale e riproduttiva.
La rivoluzione non si fa a parole. Serve la partecipazione collettiva. Anche la tua.