
La corsa alla nomination è ancora apertissima
La grande mobilitazione dell’establishment democratico a sostegno di Biden comincia a funzionare ma solo in limitati settori sociali. Sanders adesso ha il problema di coinvolgere quelli che finora non hanno partecipato alle primarie
Joe Biden ha vinto, di poco, il Super Tuesday. Le prossime settimane saranno un testa a testa tra lui e Bernie Sanders. La grande mobilitazione dell’establishment democratico a sostegno dell’ex vicepresidente sembra avere, in parte, pagato, mentre nella strategia del candidato socialista, al momento, c’è un granello di sabbia: gli esclusi continuano a rimanere esclusi, e a non votare alle primarie. Ma la battaglia è ancora apertissima: Sanders è sempre il candidato preferito di giovani, ceti popolari e latinos, e l’unico ad avere in campo un movimento. Resta da vedere cosa farà Elizabeth Warren, il cui ruolo è sempre più ambiguo.
Il conteggio dei delegati al momento in cui scrivo non è ancora finito, ma l’ex vicepresidente sarà avanti, seppure di una manciata di voti. È il risultato che si paventava nei giorni scorsi, con la mobilitazione senza precedenti dell’establishment democratico che è seguita alla vittoria di Biden in South Carolina. Non solo Buttigieg e Klobuchar si sono ritirati dando l’appoggio a Biden, ma sono riemersi per farlo ex candidati, pezzi grossi del partito, giornalisti, celebrità, di tutto di di più. Un’offensiva mediatica del «tutti contro Sanders» che ha pagato.
Un anno fa scrivevamo che l’establishment democratico, nella sua disperata corsa per fermare Sanders (iniziata, appunto, oltre un anno prima dell’inizio delle primarie) stava cercando un «nuovo Obama». Un candidato con caratteristiche di innovazione, fascino e carica simbolica tali da riuscire parlare a un mondo più ampio rispetto a quello che aveva prodotto la sconfitta Hillary Clinton, ma saldamente ancorato al consenso liberale. Se non lo troveranno, com’è probabile, aggiungevamo, si accontenteranno di ciò che resta del vecchio Obama, cioè del suo vicepresidente. Un politico di terza categoria, ma che agli elettori ricorda tempi di normalità, prima di tutta la confusione spaventosa in cui viviamo.
Non ha funzionato del tutto, tant’è che la gara è ancora aperta. Biden e Sanders sono sostanzialmente appaiati sia in termini di delegati sia di stati vinti, e migliaia di elettori voteranno nelle prossime settimane. Nessuno ha mai detto che sarebbe stata facile: l’establishment democratico ha imparato la lezione dei repubblicani, che quattro anni fa hanno subito un takeover ostile speculare a quello tentato da Sanders da parte di Donald Trump, e stavolta il compattamento contro l’invasore è arrivato in maniera veloce e disciplinata. Ma ha comunque funzionato in fasce limitate della popolazione: sostanzialmente gli over 45 e le persone di classe medio-alta. Continuerete a leggere in giro di strabordanti vittorie di Biden tra i neri e di un Sanders sostenuto solo da bianchi laureati: si tratta di affermazioni forzate che, in questi termini, si scrivono e si pubblicano solo in Italia. Sanders stravince tra i latinos, vince nettamente tra i giovani neri e bianchi, domina l’elettorato studentesco e quello working class. C’è una frattura sociale e generazionale in atto dal 2008, e il dato elettorale la riflette.
Il problema è che, però buona parte di chi sta da un lato di quella frattura non vota alle primarie. Alle primarie vota un fedele elettorato di partito che ha in testa solo una cosa: battere Trump. Non odia Sanders, checché ne dicano i commentatori, tant’è che era ben pronto a sostenerlo finché era lui il vincente, ma se il frontrunner è un altro sostiene un altro. E qui c’è l’unico vero punto debole della strategia di Sanders, l’unica cosa che davvero non sta funzionando come si sperava: l’affluenza non sta crescendo. Bernie non sta riuscendo a portare a votare alle primarie l’elettorato working class deluso dai democratici. Anche dove vince, vince perché è capace di convincere gli elettori democratici non perché è in grado di cambiarne la composizione.
Quella di Elizabeth Warren resta una delle storie più tristi di questa campagna. La candidata liberal-progressista non riesce a prendere un voto che non sia bianco, laureato e di classe medio-alta, la sua popolarità continua a fermarsi ai confini di università e redazioni dei giornali, mentre la sua credibilità a sinistra viene minata ogni giorno di più da una candidatura che non sembra avere alcuno scopo se non danneggiare Sanders. A beneficio di chi? Il misterioso super-Pac che le ha finanziato gli ultimi giorni di campagna elettorale porta a sospettare manovre strane in vista della convention, con Warren pronta a fare la candidata vicepresidente di Biden come premio di consolazione all’elettorato di Sanders. Magari non è così, magari nei prossimi giorni si ritirerà, appoggerà Sanders e darà un contributo decisivo a una vittoria della sinistra. Ma, a oggi, i sospetti sono più che legittimi, e ogni giorno in più che resterà in campo li rafforzerà. In ogni caso, la sua resta la campagna che prova scientificamente come il linguaggio raffinato e l’uso fintamente radicale dell’identity politics, ridotte a rivendicazioni di uguaglianza formale e slegate dalle condizioni di classe, funzioni solo nell’élite bianca, mentre le classi popolari multirazziali del 2020 cercano grandi messaggi unificanti di emancipazione collettiva. Mentre molti accademici progressisti annunciavano il loro appoggio a Elizabeth Warren considerandola più attenta alle sfumature discorsive su diversità e inclusione rispetto alla questione razziale contro il «riduzionismo di classe» di Sanders, la stragrande maggioranza degli elettori e delle elettrici di colore si riversava su Bernie Sanders o Joe Biden, trovando ben più interessanti la sanità universale o la promessa di battere Trump.
Sullo sfondo resta il fatto che Joe Biden è un candidato molto, molto debole. Lo sa lui, che sulla base dei risultati ridicoli dei suoi precedenti tentativi presidenziali non voleva ricandidarsi; lo sa l’establishment democratico, che infatti ha provato a inventarsi di tutto, perfino l’improbabile Buttigieg, prima di ricorrere al vecchio Joe; lo sa la grande stampa progressista, che infatti non l’ha mai di fatto sostenuto, fino agli ultimi giorni. Biden è anziano, non particolarmente abile dal punto di vista retorico, non ha una base di attivisti consolidata né una piattaforma politica riconoscibile, ha scheletri nell’armadio sia in termini di corruzione (gli affari di suo figlio Hunter in Ucraina) sia di molestie sessuali (le decine di donne che hanno segnalato la sua scarsa abitudine a tenere le mani a posto), che non ne fanno il candidato ideale. Soprattutto, rappresenta in parte quel vecchio establishment del neoliberismo progressista di cui Trump ha fatto il suo avversario retorico ideale, e che non a caso è stato sconfitto nel 2016. Davvero pochi, nel mondo democratico americano, credono in Biden, e l’impressione è che, in fondo, preferiscano perdere con lui che vincere con Sanders. Anche se, e questo va ricordato, Biden, per quanto debole, non lo è quanto Hillary Clinton: a differenza sua, ha un certo legame con il mondo sindacale e con la classe operaia bianca e non ha tassi di impopolarità altissimi tra gli americani. Insomma, Joe Biden non attira grandi passioni, ma, almeno, non è odiato dalla grande maggioranza della popolazione: per l’establishment democratico, già un passo in avanti.
Quella di Sanders, va ricordato, resta un’Opa ostile sui democratici americani, ed è naturale che ciò provochi una reazione. E la battaglia si fa interessante: movimento organizzato dal basso contro opinione mediatica; giovani, latinos e ceti popolari contro anziani e classi medio-alte; cambiamento radicale contro ritorno alla normalità; socialismo contro liberal-democrazia. Due pezzi di Novecento a contendersi l’ultimo spiraglio di luce, nella speranza che sia quello giusto per portarci in fondo al tunnel.
*Lorenzo Zamponi, ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica. È coautore di Resistere alla crisi (Il Mulino)
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